Melt My Eyez, See Your Future di Denzel Curry: una gemma al sapore d’Oriente

Denzel Curry

Denzel come Washington, Curry come Stephen. Non è né un attore né un cestista Denzel Curry, ma del primo mestiere vanta le abilità comunicative e del secondo la capacità di andare a segno in mille modi diversi. Melt My Eyez, See Your Future è il quinto album del 27enne rapper nativo della Florida.

Rilasciato dalla Loma Vista Recordings, arriva a tre anni di distanza dall’ultimo disco (Zuu): un intervallo di tempo in cui Curry ha pubblicato due ottimi EP, Unlocked e Unlocked 1.5, entrambi frutto di una stretta collaborazione col fidato produttore Kenny Beats. Quest’ultimo fa parte della foltissima schiera di producers che hanno lavorato all’album.

Denzel Curry torna in pista con Melt My Eyez, See Your Future, disco ispirato e dai mille volti

Tanti produttori, tanti ospiti: citazione d’obbligo per nomi illustri quali Robert Glasper, Thundercat, Karriem Riggins e Slowthai. Nessuno, però, pensi al classico discone hip hop affollato di rapper, per featuring spesso fini a sé stessi, e dallo stile autocelebrativo. Tutt’altro.

Melt My Eyez, See Your Future è un’opera solida, matura, ambiziosa. Il sound è variegato e spazia dall’hip hop classico all’elettronica, passando per il jazz e l’r’n’b. I testi sono introspettivi e caratterizzati da un vocabolario ricercato e, generalmente, non troppo colorito (una rarità). Al centro dell’album tematiche sociopolitiche – violenza, razzismo – ed esistenziali.

Il meltin’ pot musicale è perfettamente bilanciato da un ricco bagaglio di citazioni e riferimenti che pescano a piene mani dalla cultura orientale. “This is a Zel Kurosawa film”, si ascolta nel primo singolo Walkin, traccia suggestiva accompagnata da un videoclip (girato in Perù) che è un trionfo di estetica western. Il grande regista giapponese Akira Kurosawa è uno dei numi tutelari dell’album: il brano Sanjuro (peraltro non uno dei migliori) lo omaggia fin dal titolo, in riferimento ad un suo film del 1962.

Decisamente più a fuoco tracce come Zatoichi e The Smell of Death.

La prima, che vede ospite il rapper inglese Slowthai, prende il nome dal celebre spadaccino cieco, figura centrale nell’immaginario culturale nipponico, e propone una miscela esplosiva di generi: hip hop e drum’n’bass si fondono in un connubio tanto rischioso quanto riuscito. Slowthai vola, letteralmente, nel ritornello con un piglio che ricorda gli Underworld dei tempi migliori.

The Smell of Death è una mini traccia che ti fa imbestialire: perchè mai dura soltanto un minuto e venti secondi? Thundercat, qui in veste di coautore, produttore e seconda voce, ci regala un bignami del suo tipico space funk, dall’effetto quasi straniante e ricco di venature jazzy.

Un sound che, declinato in modi del tutto differenti, ritroviamo anche nell’iniziale Melt Session #1, impreziosita dal tocco raffinato di Glasper.

Abbiamo parlato della varietà di generi e di temi del disco e non possiamo non sottolineare, con forza, lo spessore della scrittura e dello stile di Curry. Uno dei pochissimi che riesce a rappare al livello di uno Zack De La Rocha (ascoltare la cover di Bulls On Parade per credere) ed a proporre un flow mai uguale a sé stesso, ora rabbioso ora cantilenante, di impronta vagamente raggamuffin.

A testimonianza del livello di questo Melt My Eyez, See Your Future, prendete Worst Comes to Worst. Ritmica marziale e ritornello bomba: Talib Kweli che incontra i Fugees. E che dire di The Last, invettiva antirazzista dal suono quasi indie e dal fascino conturbante. Cosa c’entra, invece, un brano come Troubles? Poco o nulla, in verità. Possiamo anche dire che stona col resto della tracklist. Eppure riesce, in qualche modo, a centrare il bersaglio. Un po’ come quell’amico caciarone e gaffeur a cui, sotto sotto, non puoi non voler bene. Un rarissimo esempio di trap commerciale fatta a regola d’arte, in cui persino l’autotune (detestato dal sottoscritto) riesce a non risultare troppo fastidioso.

Fossimo stati noi i produttori, magari, avremmo tagliato una traccia come Ain’t No Way, che sa troppo di già sentito, mentre la pur buona X-Wing, con i suoi delicati archi, viene inspiegabilmente deturpata da un brutto inciso. Dettagli, tutto sommato.

Quest’album è esattamente come doveva essere”: è il pensiero dell’autore, espresso nell’intervista rilasciata in esclusiva per il nostro sito. Concordiamo. E aggiungiamo: suonalo ancora, Denzel.