La forza dell’autenticità: intervista a Claver Gold

claver gold

Anni fa, nella title track del suo quarto album ufficiale, Mr. Nessuno, Claver Gold decise di campionare gli Otierre e di riprendere la famosa frase: “coltivo dove tutti han detto che non cresce un cazzo”. Ora, a distanza di dieci anni da quel momento, con decine di milioni di ascolti (sì, hai letto bene) alle spalle, possiamo dire che Claver Gold ha veramente seminato dove nessun altro aveva osato farlo, nell’underground italiano, raccogliendo risultati al di là di ogni aspettativa.

La nostra intervista a Claver Gold per Questo Non È Un Cane/Domo

In questi anni, molto è cambiato nel mondo del rap, con l’underground e il mainstream che sono sempre più distanti. Artisti come Claver ci ricordano che è possibile ottenere un grande successo rimanendo fedeli a sé stessi e alla propria musica, evitando di cedere alle mode di TikTok e producendo musica lontano dai riflettori di Milano.

Oggi, dopo un anno e mezzo dal rilascio di Questo Non È Un cane, Claver Gold ha deciso di dare nuova linfa all’album con una Deluxe Edition intitolata Questo Non È Un Cane / Domo. Si tratta di un progetto che va ben oltre la solita riedizione, arricchendosi di due nuove tracce inedite ma soprattutto di diverse collaborazioni di alto livello.

Tra i nuovi ospiti di questo lavoro, scelti con cura, troviamo nomi di spicco come Danno, Kaos, Dutch Nazari, Il Turco, Brenno Itani, Mattak e molti altri, ognuno portatore di valori essenziali dell’hip hop e con una propria impronta unica. Questo Non È Un Cane/Domo è stato interamente prodotto da Gian Flores e il suo titolo si ispira al celebre dipinto di René Magritte “Questa non è una pipa”.

Durante la nostra intervista, Claver Gold ci ha svelato i retroscena di questo progetto, condividendo le sue ambizioni e il profondo legame che lo lega alla musica, una relazione che non ha mai voluto compromettere. Con lui abbiamo discusso di bivi, di underground, del sogno realizzato di collaborare con Kaos e Danno, ma anche di come la psicanalisi lo abbia aiutato a superare un momento di blocco creativo, e di come la provincia e il mare rappresentino per lui una fonte di serenità e ispirazione.

Poter chiacchierare con un artista come Claver è sempre piacevole, rappresenta un momento di autentico scambio umano, senza i filtri che talvolta ci capita di percepire in contesti musicali in cui può girare qualche soldo in più ma si è persa la bussola dell’arte e della vita vera. Se abbiamo fondato Rapologia è anche per “spingere” rapper come Daycol, che ci ricordano che esiste un’altra strada, forse più faticosa, ma sicuramente più autentica, da percorrere.

Buona lettura!

Ciao Claver, la penultima volta che ho avuto modo di dialogare con te è stato nel periodo dell’uscita di Requiem. Mi piacerebbe tornare un attimo a quel periodo: raggiungesti forse il tuo massimo a livello di numeri e in molti si sarebbero aspettati dal disco successivo un progetto più “furbo”, a livello di sonorità e collaborazioni, per poter crescere ulteriormente e raggiungere il famoso mainstream. Eppure un progetto così non arrivò, come mai?

«Hai pienamente ragione: con Requiem si creò un’aspettativa grande ma penso che in quel punto arrivammo al massimo che potessimo fare con il rap underground. Quindi effettivamente eravamo nella posizione di poter scegliere se non fare più quel tipo di rap, abbandonando magari certi tipi di sonorità più “chiuse” e fare il “grande passo” oppure continuare a fare le nostre cose. La verità è che c’era una parte di me che non voleva assolutamente fare una mossa di quel tipo e infatti andai nella direzione opposta, facendo un EP di 5 tracce con Kintsugi (Il lupo di Hokkaido). C’è anche da dire che arrivammo a quel punto dopo aver fatto 60 date con Requiem: eravamo un po’ stanchi, non avevamo tante energie, non volevamo fare il passo più lungo della gamba e soprattutto non volevamo cambiare il modo di fare musica, quell’approccio che ci aveva portato fin lì. Credo che il mio sia stato un percorso molto coerente: arrivò un po’ di barcollamento a seguito di Requiem ma poi siamo tornati sulla nostra strada».

Arrivò effettivamente qualche grande realtà a bussare alla vostra porta?

«In quel momento si aprirono un sacco di porte, conoscenze, occasioni ma io ho sempre fatto i dischi con Glory Hole sino alla firma con Woodworm. Anche prima di firmare con loro ci ho pensato molto, ci siamo visti tante volte, ci siamo confrontati e ho capito che era una realtà che mi somigliava. Avrei fatto fatica a fare un passo con una major, anche per testardaggine: a me piacciono le cose “mie” e son geloso del mio modo di lavorare. Quando chiunque mi dice “qua dovremmo fare così, qua così”, mi irrigidisco molto (ride, ndr)».

Come nasce la riedizione di Questo non è un cane e in che modo hai scelto le collaborazioni?

«L’idea nasce da due brani che avevo messo da parte per il disco, Con i miei brothers e I miei cani. Inizialmente pensavo fossero troppo lontani dall’idea dell’album ma poi è nato lo spunto di inserirli in una deluxe, arricchendola, altrimenti avrebbe avuto senso pubblicarli come singoli. Quindi oltre a inserire quei due pezzi abbiamo pensato di dare una vera vita nuova al disco. I featuring sono molto vari: volevo mettere nomi più giovani ma anche leggende come Danno, Kaos, Murubutu… Volevo creare una via di mezzo stabilendo una comunicazione tra nuovo e vecchio, prolungando la storia del disco. L’idea del progetto quindi è nata un po’ di mesi fa, non durante la lavorazione del disco originale.» 

Qualche settimana fa mi colpì vedere, durante la serata di Shocca al Magnolia, Emis Killa veramente emozionato nel fare dal vivo, insieme a Kaos, il brano in cui hanno collaborato, nonostante i due sold out al Forum pochi giorni prima. Come è stato per te collaborare con Kaos per la prima volta?

«Ci conosciamo da tantissimi anni, ci siamo visti tante volte ma è la nostra prima collaborazione. Io sono suo fan sin da ragazzino, quindi per me è stato un super onore. Ho scritto sia a lui che a Danno un messaggio dopo che mi hanno inviato le strofe per ringraziarli di cuore: per me è stato un sogno realizzato. Ricordo che da piccolo i primi dischi di un certo tipo che ho comprato sono stati Odio Pieno e il primo disco di Kaos.» 

Hai cercato di riunire nel disco tanti nomi, ricreando un senso di unione che ormai è difficile trovare nel rap italiano, anche underground. Credo che lo scollamento tra mainstream e underground sia sempre più grande e, oltre a questo, tanti locali piccoli e centri sociali hanno chiuso. Inoltre, i più giovani ignorano l’esistenza di una scena che non fa dischi d’oro e paradossalmente in un periodo storico in cui ci vorrebbe molta unità sociale, un certo tipo di rap sta morendo. Tu cosa ne pensi?

«Io credo che, se in questo momento in Italia esiste un mainstream fatto di rap, è perché c’è stata una base veramente solida di underground in anni in cui il rap sembrava morto. In quel periodo era più semplice avvicinare i due mondi, oggi lo vedo molto complicato, parlando anche di due universi musicali quasi totalmente differenti. Io mi trovo in una situazione un po’ a limite, nell’underground ma forse al limite con il mainstream. L’altro giorno, per esempio, ho visto che Requiem ha fatto 40 milioni, credo siano molti per un disco di quel genere, son rimasto sorpreso. L’idea che ho è che nell’underground si formano piccoli gruppi di individui che cercano di creare il loro mondo, difendendolo, in cui ogni artista può sviluppare un preciso approccio al rap. Quindi forse è difficile fare gruppo come una volta perché ci sono molte sfumature all’interno delle varie realtà. Per fare un esempio, io rispetto molto Kappa O, ma penso che sarebbe molto complesso collaborare con lui, abbiamo un approccio musicale differente. Tuttavia il bello dell’underground sta proprio dentro queste differenze, dentro queste sfumature, invece il mainstream probabilmente è più uniforme, per una serie di motivi, spesso economici.» 

Pensi ci possa essere un ricambio generazionale nell’underground?

«L’hip hop piano piano rischia di scomparire, nonostante ci siano tante realtà che si fanno ancora il mazzo, penso alle realtà che lavorano con la breakdance. Se parliamo invece di rap sicuramente un ragazzino di oggi ha degli stimoli diversi. Un giovane che oggi magari vede Guè su TikTok – e magari fosse preso lui come ispirazione (ride, ndr) – si mette subito in testa i soldi, le donne, le auto, è raro che arrivi a capire cosa c’è dietro al rap, dietro al percorso di un artista, e praticamente mai arriva a conoscere l’hip hop. Il tema del denaro è giusto e normale che ci sia, fa parte del rap, ma è avvilente che sia il solo obiettivo, ormai voler fare il rapper è come fare il calciatore nei Novanta.» 

Rimanendo sul tema soldi e arrivismo, nell’ultima intervista che facemmo ti chiesi se ti fosse mai passata per la testa l’idea di trasferirti a Milano; tu mi rispondesti di no, che ti trovavi benissimo a San Benedetto del Tronto, a due passi dal mare, a condurre una vita che oggi definiremmo lenta. All’epoca rimasi sorpreso dalla tua risposta, ma oggi, dopo qualche anno, comprendo perfettamente il punto e lo condivido totalmente. Tu nel frattempo hai cambiato idea?

«Non ho assolutamente cambiato idea, più passa il tempo più apprezzo le scelte fatte. Non è stato facile e non lo è, far sentire la propria voce da un angolo “remoto” d’Italia facendo musica. Però non tornerei mai indietro: nonostante le difficoltà, che sono ovunque, qui e in altri posti c’è una qualità di vita, di benessere – grazie anche al mare – che ti permette di vivere bene anche se guadagni 1000 euro al mese. Lo vedo nel sorriso delle persone. Poi ovviamente la vita ti pone di fronte a delle scelte, non giudico chi sceglie la carriera, ma a volte i sacrifici sono davvero grandi: magari ti trasferisci a Milano, poi a Londra e poi chissà, perdi i rapporti, cambi stile di vita…Io amo questo modo di vivere, mi rende felice. Sicuramente mancano un po’ di stimoli, non c’è una vita culturale importante, non c’è un cinema, un teatro, un gruppo jazz che viene a suonare e bisogna spostarsi per certe cose, ma non tornerei mai sui miei passi.»

Forse però se costruisci qualcosa in provincia ti senti parte attiva della società e hai un riscontro concreto, in una grande città c, un granello di sabbia…

«Sì, per esempio adesso ci son dei ragazzi qui che hanno aperto studi di arte, di registrazione…Si prova a vivere meglio la provincia. Come ti dicevo non è tutto bianco e nero, non si può giudicare né chi decide di rimanere in provincia né chi si sposta nella grande città. Sicuramente ci sono anche delle fasi nella vita: a vent’anni prendere 4 mezzi al giorno non ti tocca, a 40 certe cose hanno un peso differente».

Claver Gold

E dove ti vedi tra dieci anni? Sempre a fare musica nelle Marche o su un’isola spagnola in totale relax?

«Mi piacerebbe dirti su un’isola spagnola (ride, ndr). Credo che continuerò a fare musica, magari evolvendo il mio percorso in quello che verrà, che non so cosa sarà, magari ancora rap o qualcosa di più morbido. Prendi ad esempio Murubutu, ci portiamo quasi dieci anni, lui fa quello che faccio io e si diverte anche più di me (ride, ndr). Quindi sì, mi vedo sicuramente ancora a fare musica.»

In alcuni pezzi hai iniziato ad osare un po’ di più con la voce: come ci sei arrivato? Temevi qualche che qualcuno potesse criticarti?

«Penso che le mie parti cantate non siano così cantate da far storcere il naso, son melodie per spezzare i brani e non rendere il prezzo troppo duro. Anche quando mi metto a scrivere un pezzo me lo inizio a cantare in testa e quella melodia poi la arricchisco con le parole e altre tonalità. In questo momento del rap italiano, poi, penso che quello che faccio non sia veramente osare, nonostante ci sia stato qualche cambiamento rispetto al mio passato. Poi non vado troppo oltre perché non ci arrivo con la voce, ho imparato meglio a leggere la musica e a capire le note ma non avendo una certa estensione vocale evito a prescindere. Pensa a Ghemon, quanto è riuscito a crescere studiando e allenandosi. Io ho studiato un po’ a Bologna e un po’ qui a San Benedetto per gestire la respirazione ed evitare grandi stecche (ride, ndr).»

A proposito di Ghemon, non so se hai letto il suo post in cui dice la sua sullo stato di salute dell’industria musicale italiana. Cosa ne pensi? E qual è il tuo punto di vista sui servizi di streaming e sul modo in cui hanno cambiato la musica?

«Io credo che le piattaforme paghino troppo poco gli artisti, talvolta sono più i soldi che gli artisti pagano che quello che ricevono ed è assurdo. Sono dinamiche lontane dal mio modo di fare la musica ma non credo sia un modello in crisi, ci sono troppi interessi in ballo. I dischi non si comprano più perché inquinano e si rovinano con il tempo, ma si sapeva sarebbe stato un supporto obsoleto; i vinili stanno tornando ma non credo basti per sostenere l’industria. Io anche in primis acquisto il disco solo dopo averlo ascoltato, una volta invece era quasi scontato comprare il disco a scatola chiusa preordinandolo, ricordo di averlo fatto per tanti dischi, anche per Mr.Simpatia. Il nuovo modo di supportare la musica è ascoltare in streaming, ma le persone forse non si rendono conto di quanto non sia vantaggioso per l’artista.

Riguardo quello che ha detto Ghemon, lo condivido in toto. Io in primis anni fa, dopo Infernum, scrissi un post in cui dissi di volermi fermare, Gianluca (Ghemon) mi chiamò e mi disse: “hai scritto le parole che tanti pensano ma nessuno dice”, che poi sono più o meno gli stessi concetti espressi da Sangiovanni. Ci sono periodi molto stressanti e altri in cui puoi rilassarti: questo è il lavoro che ci siamo scelti, a volte però è difficile perché hai tante pressioni e soprattutto in certe età è complicato.

Poi c’è un altro tema che è lo sviluppo della persona e del personaggio: ricordo che quando andai in analisi, in quel periodo in cui volevo smettere, avevo “paura” della musica. Il terapista mi disse: “ma secondo te perché tanti artisti si sono uccisi in un certo momento della loro gioventù, quasi sempre prima dei 30”? Perché avevano creato un personaggio che funzionava, ma crescendo è quasi impossibile che quel personaggio continui ad essere sovrapponibile alla persona che si diventa crescendo. E’ facile entrare in crisi”. Quel discorso mi fece capire tante cose.»

Oggi che rapporto con l’ispirazione?

«Oggi scrivo meno, faccio fatica, infatti colgo l’occasione per scusarmi con tutti quelli che mi hanno chiesto le strofe (ride, ndr). È cambiata la mia routine, ho una famiglia, altri impegni e trovare il tempo per concentrarsi e scrivere non è sempre facile. Io vado a momenti, fortunatamente sono una spugna, sono appassionato di letteratura, di cinema e di arte e riverso tutto nella scrittura».

Claver Gold

Quindi ora te la vivi bene dai…

«Sì adesso sì, all’epoca non fu facile, ne parlai anche con molti artisti, con Ghemon, con Murbutu e lui – Murbutu – mi disse: “il rap è come una fidanzata, ogni tanto ci litighi” (ride, ndr). Di quella fidanzata però ne sei innamorato e quindi ci rimani sempre insieme (ride, ndr).

C’è qualche nome più giovane nel disco, e personalmente tra tutti mi ha colpito SPH, ricordo che un po’ di anni fa collaboraste per un pezzo molto bello (Capolavoro). Al netto di lui e degli altri ragazzi presenti, c’è qualche altro giovane che avresti voluto inserire?

«Lui è un talento pazzesco, in questi anni un po’ si è perso purtroppo, fece quel disco assurdo un po’ di anni fa – Senza Meta – in cui collaborammo. Ce l’ho ancora in macchina, mi capita di ascoltarlo spesso. Adesso sta facendo delle cose nuove con Kiquè e con Sesto Carnera, anche lui molto forte, e loro gli stanno dando dei nuovi stimoli che spero possano fargli bene. Parlando di altri mi piacerebbe davvero tanto fare come si faceva una volta: una serie di mixtape con tante persone prese da tutte le regioni d’Italia, un po’ come faceva Dj Double S con Lo capisci l’italiano o gli Atipici con 50 eMCee’s.

Secondo me è qualcosa di molto figo perché era un modo per scoprire artisti interessanti che non hanno il giusto spazio. Io paradossalmente i Dogo li scoprii su 50 eMCee’s. E quando mi piaceva un artista compravo poi il suo disco. Sarebbe figo riuscire a organizzare un collettivo che si prenda la briga di fare progetti di questo tipo.»

Ho visto che sono uscite le prime date: hai in mente anche un tour estivo?

«Sì, abbiamo già delle date estive fino a fine agosto e poi ci fermiamo. Abbiamo queste prime 4 date a Bologna, Torino, Roma e Lodi in cui ci saranno ospiti, quasi tutti i partecipanti al disco, in base alle loro disponibilità saranno in una città o in un’altra. Poi faremo un po’ di classiche date estive, ci divertiremo.»

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