Guglielmo Bruno, in arte Willie Peyote, è un uomo dalle mille nostalgie che non si strugge più, un rapper dal pubblico ben definito che si vuole rivolgere all’esterno, un musicista stretto nella sua arte e determinato ad essere libero. In Pornostalgia, Willie schiaffeggia il presente traccia dopo traccia, rilassando la mano per qualche carezza che forse fa anche più male.
Il nuovo album è il numero 5, il primo dal 2019, e ha un nome già iconico che fonde nostalgia e porno in un duetto che si dipana in numerose tematiche e possibilità narrative. In occasione dell’uscita dell’album abbiamo potuto intervistare Willie Peyote per scoprire qualcosa in più sul nuovo disco.
Pornostalgia, occasioni perse e cambiare sempre: ecco l’ultimo Willie Peyote – Intervista
Ciao Willie, è un piacere parlarti. Sicuramente Rapologia non sarà la stessa piattaforma, ma se avessi la possibilità di recuperare il Primo Maggio, cosa diresti al pubblico di Roma?
«Mah sai pensare cosa dire col senno di poi è sempre troppo facile, quindi non saprei. Anche perché, appunto, non potendo partecipare ho cercato poi di non pensarci proprio più, perché era un po’ difficile da digerire»
Quindi non avevi già delle idee in mente per l’occasione?
«No no, delle idee ce le avevo. Credo che il tema che avrei cercato di portare sul palco era comunque legato a Fare schifo, anche perché già nel pezzo viene declinato molto con riferimenti al mondo del lavoro o comunque all’idea che ti chiedano l’eccellenza, anche nei risultati accademici e universitari, per poi non entrare mai davvero nel mondo del lavoro. O che chiedono l’eccellenza per vivere in un paese nel quale l’ascensore sociale non esiste e gli stipendi sono fermi da trent’anni; quindi il fare schifo è anche una forma di resistenza e di risposta a questo mondo che in qualche modo usa l’eccellenza come specchietto per le allodole, ma poi non ti dà niente in cambio»
Purtroppo, appunto, non hai potuto potuto partecipare alla celebrazione, ma di certo anche a distanza il concertone avrà evocato sentimenti di nostalgia per gli eventi dal vivo e le esperienze che il covid ci ha negato negli ultimi anni. A cosa leghi tu la nostalgia in questi due anni in particolare?
«In questi due anni mi è mancato suonare ovviamente, ma quello è mancato a tutti; in realtà mi sono reso conto che mi è mancato il confronto. Nel senso che, sai, non potendo poi mai incontrare le persone (non solo suonando ma anche nei momenti prima e dopo il concerto e in tutto ciò che circonda il lavoro al disco e la ricezione delle persone) questa mancanza di riscontro e condivisione mi ha tolto il polso della situazione. Non vedo l’ora di ricominciare perché non vedo l’ora di sentire un po’ di più che effetto fanno le cose sulle persone, perché finché siamo a dircelo leggendo i commenti non è altrettanto forte e io voglio sentirmelo dire in faccia dalle persone, voglio sentire le emozioni che si provano quando se ne parla direttamente. Quindi se ti devo dire cosa mi è mancata, sicuramente è questa componente più autentica, più reale di quello che è l’effetto del lavoro che facciamo»
E questo è il perché del Talk Tour che hai organizzato?
«Esatto! Nasce proprio da questa sensazione»
A proposito di anni trascorsi, il tema del tempo è principale sia in Iodegradabile del 2019 che in Pornostalgia del 2022, ma quali sono le differenze in termini di rapporto con esso?
«L’idea mia è che i due dischi siano complementari, ma opposti. Nel senso che sì, c’è il tema del tempo, ma viene guardato da due punti di vista totalmente differenti, generando evidentemente sentimenti e anche musica opposta. Questo disco è un po’ più cupo, è un po’ più rap: è un po’ anche un ritorno al passato, secondo me, per quanto riguarda la scrittura e le scelte musicali, in certi casi. Quindi il tempo è anche un riferimento in termini di ritorno al passato, infatti avevo il dubbio di poterlo chiamare “Ritorno al futuro”, perché è un ritorno, ma che si proietta in avanti. É l’altra faccia della stessa medaglia, così come La colpa al vento è la chiusura del cerchio, ma anche l’altro modo di guardare alla storia raccontata in La tua futura ex moglie; quindi più o meno il concept è racchiuso nella differenza tra quei due brani lì. E ovviamente ti dico che in questi due anni in cui si è fermato tutto, mi sono reso conto che ci veniva naturale, quando non potevamo più guardare con bulimia al futuro e al nuovo che avanza, guardarci alle spalle. Per questo la nostalgia è una risposta che diamo alla bulimia del tempo che viviamo o all’assenza di tempo»
Ne Il furto della passione parli di gente che si mette insieme pur di non stare da sola, come se seguisse un timer per non perdere le ultime occasioni, poi ti paragoni ad un orologio rotto, che pur essendo inutilizzabile, sogna l’ora giusta. Senti spesso, nelle relazioni e in generale, di essere regolato da uno scandire temporale diverso dal comune?
«Ma sai, secondo me nelle relazioni c’è quella sensazione per cui le cose sono belle solo all’inizio, poi col tempo in qualche modo si normalizzano e quindi ci si abitua. A me fa un po’ paura il concetto di abitudine nelle relazioni, perché poi conosci la famosa frase dell’uomo che riesce ad abituarsi a tutto, alle cose belle e alle cose brutte allo stesso modo. A me spaventa un po’ che ci sia questa naturale tendenza, che lo scorrere del tempo nelle relazioni, soprattutto sentimentali, rischi di togliere la passione. Questo è il problema che mi pongo e cerco da sempre nella mia vita, così come cerco di esprimere nelle canzoni, di trovare una soluzione, nel senso di come si può arrivare a vivere a lungo una relazione senza correre il rischio di trasformarla in routine. Non è un tema che ho affrontato solo io, ma ecco forse la differenza è che io da appena inizia una relazione mi sto già ponendo quel problema, perché tanto in qualche modo arriverà e quindi lo anticipo soltanto. Secondo me pormi da subito la domanda potrebbe aiutare un giorno a trovare finalmente la risposta, invece di aspettare a farlo, che poi magari ad un certo punto è troppo tardi per porselo»
Caparezza in Come Pripjat, canzone da Exuvia, usa la metafora della giostra di Pripjat per definire come si sente a parlare a questa generazione, l’idea che la giostra sia ferma e le sue parole incomunicabili. Tu in Fare schifo invece parli di una giostra velocissima, che vuole il sangue per girare e intima a tutti il divertimento e la perfezione: ti rivedi nella giostra di Caparezza?
«Evidentemente il problema me lo pongo, comunque ho la sensazione a tratti di essere troppo vecchio per comunicare fino in fondo con una generazione così giovane e percepita come così diversa dal percorso che ho fatto io, anche musicalmente. Però al tempo stesso mi metto a studiare anche linguaggi che non conosco, più recenti. Quindi in realtà non mi sento del tutto così, mi pongo il problema, però non mi sento così lontano. Non voglio sicuramente fare la figura del Signor Burns vestito da Secco Jones, il meme del Signor Burns vestito da giovane: non voglio che passi quel messaggio lì, quindi io accetto di avere una differenza sostanziale di età con alcuni ascoltatori, e anche con alcuni colleghi, ma è giusto che ognuno di noi parli la lingua che conosce, trovando dei punti di contatto. Trovo più giusto comunicare con i miei mezzi, che non cercare di avvicinarmi disperatamente ad un modo di comunicare che suonerebbe in modo diverso se lo usassi io»
Restando in tema di difficoltà comunicative, in Hikikomori parli di come creiamo i nostri mondi personali, bolle identitarie o di opinioni simili e ci accontentiamo di quelle, ma, dicendolo al tuo pubblico, ti trovi anche tu nella stessa situazione di disturbatore strafottente che parla a chi ne condivide già le idee. Come si esce da questo? E, se la risposta è Sanremo, cosa c’è dopo?
«Una delle risposte è Sanremo! Come ho già detto qualche disco fa, l’idea di andare a Sanremo era proprio per uscire dalla mia bolla, per comunicare con persone che non necessariamente la pensavano come me, perché in effetti sarebbe un po’ noioso comunicare solo con chi è già d’accordo con ciò che dico ancora prima che l’abbia detto ed è lì proprio perché sa che si troverà d’accordo. É una bellissima sensazione, però è anche un po’ limitante, perché, come ti dicevo, a me manca il confronto anche con idee diverse dalle mie, perché lo trovo stimolante. Io cerco costantemente di uscire dalla mia bolla, quindi quand’anche mi rivolgo a persone che so che potranno trovare punti di contatto con ciò che dico, cerco comunque di cambiare il punto di vista diverse volte. In questo disco lo faccio anche attraverso la partecipazione di altri artisti, che mi aiutano ad allargare il campo: per dire, il pezzo con Jake la Furia e Speranza è evidente che proponga tre diversi punti di vista su un tema che è un tomo narrativo del rap, però io parto dal presupposto che sto trattando il denaro in modo diverso e grazie a loro allargo molto lo spettro di punti di vista. Ho cercato di fare questo per uscire da quella zona di comfort, per cui o mi metto io in condizioni di provare qualcosa di nuovo o mi faccio mettere in condizione dall’aiuto di altre persone, come possono essere appunto i featuring presenti in questo disco»
Proprio a livello di collaborazioni musicali c’è qualcun altro (italiano o straniero) che avresti voluto nel tuo album?
«Sì beh, io ho parlato in diversi casi con altri amici e artisti con cui, per un motivo o per l’altro, non siamo riusciti a chiudere il lavoro insieme, ma in generale sono moltissimi gli artisti con cui vorrei collaborare. A livello internazionale ad esempio, nella preparazione di questo disco, mi sono avvicinato all’ascolto di molto rap inglese, sia in chiave più soul e black come può essere Little Simz come simbolo di quella nuova scuola, ma anche molta grime inglese. Ci sono diversi artisti con cui vorrei entrare in contatto, ma sai dirti un nome significa escluderne tanti altri, quindi non ne farei una questione di singoli nomi. Io ascolto tanta musica, ascolto tutta la musica che esce, e ci sono un sacco di artisti molto giovani che mi piacciono, anche in Italia, molte voci dentro e fuori dall’ambiente del rap»
Quindi per quanto riguarda l’ispirazione musicale, invece, quali sono le influenze artistiche più dirette di questo disco?
«A livello musicale io ho sempre più o meno i miei riferimenti, i miei punti fissi in termini più che altro di approccio alla traccia, perché poi tratto temi diversi da loro, però mi ci sento vicino per come approcciamo musicalmente la canzone: parlo di Kendrick, Tyler e Mac Miller, che sono i tre che ho sempre ben presenti quando lavoro. Fortunatamente nel caso di Tyler ha anche fatto un disco nuovo poco prima, quindi ho potuto vedere la sua evoluzione, mentre Kendrick uscirà una settimana dopo di me, quindi non ho potuto prendere spunto da lui questa volta. Ti dico, ascolto anche spesso dischi vecchi, ma non tanto per riferimento, quanto per ritrovare il piacere di ascoltare musica. Quando ne ascolti tanta e ne fai tanta diventa poi una routine anche quella e per riscoprire il piacere della musica sono dovuto andare un po’ più indietro, per far risbocciare certe sensazioni che quando ti approcci in maniera molto tecnica alla cosa si perdono un po’. Quindi, tolti i soliti grandi nomi che ti ho detto, il resto è ascolto di cose che mi piacevano, non in maniera ispirazionale, ma più per ricordarmi qual è la sensazione della musica bella»
Un’immagine che mi dai in Diventare grandi è il gruppo di amici che ormai condivide solo la passione per il Torino, che sembra quasi l’anticamera del gruppo di vecchietti seduti al bar dello stadio che parlano del Modena (esperienza personale, venendo da lì). Personalmente, è uno scenario futuro che mi fa rabbrividire, tu come lo vedi?
«Ma sai il Toro era l’esempio, perché può essere il Toro, può essere il Modena, è il tifo calcistico così come il ricordo di un tempo che fu, inteso come l’aver fatto le superiori insieme con i compagni di liceo oppure qualcuno con cui condividi una passione. Nel mio caso anche alle serate rap, dove incrocio tante persone con cui ho iniziato a fare questo percorso e condiviso tanto, poi ci rincontriamo e parliamo comunque delle stesse cose: quindi col gruppo dello stadio parli solo del Toro, coi compagni del liceo ti ricordi quella volta che la professoressa di lettere ha interrogato, con gli amici con cui hai iniziato a fare musica parli di rap, di dischi che sono usciti, di quel concerto. Lì volevo solo esemplificare che in fondo il tempo passa e c’è qualcosa che ci lega a determinati gruppi di persone come fosse un grado di parentela e può essere il tifo calcistico così come il ricordo del periodo della scuola o la passione per la musica, intesa come un genere vissuto così di nicchia come quando iniziavamo noi col rap, perché lo vivi proprio come fosse una tifoseria, era rappresentativo e ti distingueva. Quindi il Toro era solo un esempio e non lo vedo così male come scenario, accetto che ci siano cose un po’ tristi nella vita, un po’ di routine, però preferisco parlare del Toro che stare a guardare un cantiere, se devo dirti la verità, o giocare una partita a carte. Ci sono tante cose simili che ti danno la possibilità di passare il tempo, perché poi alla fine dei conti siamo tutti su questa Terra cercando semplicemente di andare avanti e di far passare il tempo che ci è dato a disposizione. Ci sono argomenti più o meno interessanti, a me personalmente il calcio e il tifo interessano quindi non lo trovo così triste, anche se certamente possono esserci cose più edificanti.»
Uno dei grandi temi che poni è quello della felicità, legato ad una relazione come ne Il furto della passione, ma pure connesso ad un forte senso di colpa. Come spiegheresti tu il senso di colpa che sentiamo a livello sociale rispetto alla sofferenza degli altri o alla guerra, ad esempio? Pensi che sia in un certo senso più pervasivo e allo stesso tempo più superficiale che in passato?
«Sì, mi sembra un po’ superficiale, perché mi sembra superficiale il nostro approccio alle cose nel momento in cui noi ci sentiamo obbligati ad esporci o a farci carico di problemi, ma lo facciamo sempre senza scendere in profondità nella conoscenza del tema stesso. Questo è dovuto anche alla polarizzazione delle discussioni, al fatto che siamo tutti costretti ad essere performanti e performativi anche nelle nostri opinioni sui grandi temi. Quindi credo che la superficialità nasca purtroppo dalla nostra fretta di dire, di avere subito un’opinione, mentre ci dovremmo lasciare il tempo di far sedimentare le idee, i sentimenti, le reazioni anche ai grandi momenti della storia come quelli che stiamo vivendo; invece di affannarci a dire subito la nostra idea, un po’ retorica, e poi in realtà continuare con la vita come se niente fosse. É un modo per lavarsela la coscienza, non per prendere coscienza delle cose»
Per me, una grossa parte di sensi di colpa è legata alle occasioni perse, che a ripensarci fanno provare una nostalgia di ciò che poteva essere, più che di un bel periodo passato. Tu tratti questa nostalgia ipotetica in La colpa al vento, quali sono le tue occasioni perse?
«Ma guarda ce ne sono talmente tante nell’arco della vita, che quello che posso dirti sulle occasioni perse è che non si può vivere di soli rimpianti ovviamente. Quando mi sono reso conto che la sensazione di occasioni perse poteva diventare devastante per certi versi, ho cominciato ad allenarmi, e continuerò a farlo per il resto della mia vita, per mettermi in condizione di non perdere più occasioni. Nel senso che, per prendere le occasioni di petto, bisogna essere ricettivi nei confronti della vita e mettersi in ascolto del mondo che c’è fuori. Posso dire che a forza di struggermi per le occasioni perse, ho imparato che forse non ero io mai predisposto a cogliere le occasioni che la vita mi offriva, perché ero appunto troppo concentrato a struggermi per quelle già andate. Allora ho preferito cercare un approccio di ascolto, perché è il modo migliore per non rischiare di perderle, evitare di arrovellarsi su come poteva andare la cosa passata, perché mentre lo fai ce n’è un’altra che ti sfugge e non te ne sei accorto»
Da un album all’altro qualcosa cambia sempre, per te come per il pubblico, infatti tu suggerisci anche un altro tipo di nostalgia: “l’eri meglio prima” del pubblico di fronte ad una nuova opera. A mente fredda, prima che te lo possano dire per questo album, quale pensi che sia la tua traiettoria a livello musicale?
«”L’eri meglio prima” si riceve ad ogni nuova opera! Lo ricevono tutti e proprio per quello faceva ridere, perché qualunque genere tu faccia e qualunque artista tu sia c’è sempre chi ti dice che eri meglio prima. Per il resto, io in realtà non ho mai pensato di avere una traiettoria. Il mio obiettivo è quello di cambiare sempre, per questo non mi disturba troppo quando mi dicono che ero meglio prima o che ero diverso: io so di essere molto diverso da com’era il disco precedente, così come sono molto diverso dal primo disco. Paradossalmente ogni disco è simile e diverso da quello precedente, tanto quanto è simile e diverso da quelli molto più vecchi, perché la mia traiettoria è quella di non avere un percorso segnato. Mi piace proprio non fare mai due volte la stessa cosa, magari richiamare a qualcosa che è già stato, ma comunque colorarlo in modo diverso, capovolgere il punto di vista, provare anche solo un arrangiamento musicale che non abbiamo mai provato. Per dire, c’è un pezzo che suona mezzo reggae in questo disco perché ci andava di fare una roba che non avevamo mai fatto. A me il reggae neanche fa impazzire a livello musicale e infatti un sacco di amici mi hanno detto “ma come, hai fatto un pezzo reggae che hai sempre detto che non ti piaceva?”, ma il gioco è proprio quello di uscire dalla zona di comfort. La mia traiettoria è cercare di uscire costantemente dalla zona di comfort in cui mi vado a trovare»
Vorrei concludere citando l’ultima traccia, Sempre lo stesso film, la più potente dell’album a parer mio. Qui sembra che tu stia ripercorrendo le scene di Santa Maradona citando “sempre gli stessi posti, sempre gli stessi attori”, chiedendoti poi se la vita è tutta qui. Poi entra in scena un “tu” che ti mette alle strette, un Bart che non ti lascia svanire nell’autocommiserazione. Cosa rappresentava per te Libero De Rienzo? Cosa intendi quando dici che volevi essere Libero come lui?
«Innanzitutto intendo che, quando vidi quel film a 19/20 anni, io volevo proprio essere lui, volevo essere Bart. Sono cresciuto con l’idea di voler diventare la persona che ha quel tipo di risposta pronta, quel tipo di ironia un po’ caustica, quel tipo un po’ scazzato, l’uomo-accappatoio. Quindi lui era un punto di riferimento come personaggio, poi ho avuto la fortuna di conoscerlo, lavorarci insieme e diventare suo amico e ho scoperto che, a parte essere molto aderente al personaggio di Bart, era una persona che si occupava di arte, il migliore attore della sua generazione. Per un sacco di scelte che ha fatto non ha forse ricevuto sufficiente riconoscimento dal mondo del cinema e dal pubblico e mi ha insegnato senza mai dirmi niente, perché non era uno che si elevava a insegnante, ma solo con l’esempio, che il coraggio vale più del talento (come dico nel pezzo). Che le sue scelte, che in qualche modo non sono state capite e gli hanno tolto qualcosa come possibilità di raggiungere vette più alte di fama, erano scelte coraggiose e di coerenza sua personale, della sua visione dell’arte. Volevo essere Libero come te, nel senso che lui aveva anche un nome che era un aggettivo, lui era libero di nome e di fatto e lo era nella sua interpretazione dell’arte, nel rapporto con l’arte e col cinema. Io volevo essere lui in tutti i sensi: volevo essere libero come lui, ma volevo proprio essere lui, in certi momenti della mia vita avrei proprio voluto essere Bart. Il pezzo racconta questo, di come mi sia trovato a vedere quel film, poi a vivere quel film, quindi a condividere con lui determinati ragionamenti e infine a non poterlo fare più, quando avrei voluto condividere ancora e chiedere dei consigli o imparare qualcosa da lui»
Crediamo che Willie sia stato assolutamente capace di trasmettere le sue emozioni nella traccia, una delle più pregnanti della carriera, e che tutto il disco meriti più ascolti, da tutto il pubblico. Intanto ci uniamo a lui nel cordoglio per Libero De Rienzo e vi suggeriamo di accompagnare l’album alla conoscenza del corrosivo Bart di Santa Maradona.
Foto in copertina di Chiara Mirelli