Come è nato Kobe – Una storia italiana? Intervista al regista Jesus Garcés Lambert

Kobe una storia italiana

Pochi giorni fa su Amazon Prime Video è uscito Kobe – Una storia italiana, un interessante ed emozionante documentario diretto da Jesus Garcés Lambert sugli anni che Kobe Bryant ha passato in Italia.

Kobe ha passato quasi tutta la sua infanzia tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. Anni importanti per la sua vita in cui ha avuto modo di iniziare a giocare a basket ma anche di confrontarsi con quell’Italia piena di vita e voglia di futuro, prima dello scandalo di Mani Pulite.

La produzione del film è in gran parte italiana, con una bella colonna sonora curata da Matteo Curallo e due brani rap inediti scritti e interpretati da Danomay. Il lavoro per ora è disponibile in tutta Europa e nel corso dei prossimi mesi lo diventerà in tutto il mondo.

Kobe – Una storia italiana: la nostra intervista al regista Jesus Garcés Lambert

Ci siamo fatti raccontare come è nato Kobe – Una storia italiana dall’affermato regista Jesus Garcés Lambert.

Buona lettura!

 

Ciao Jesus, la prima cosa che volevo chiederti è: come nasce Kobe: Una storia italiana e quanto tempo ci avete messo a realizzarlo?

«L’idea nasce del nostro gruppo di lavoro, Giovanni Filippetto lo sceneggiatore e Alessandro Lostia, il produttore. C’era questa grande storia che nessuno ha mai raccontato, ovvero la storia dell’infanzia di Kobe Bryant, passata interamente in Italia. Abbiamo iniziato a pensare al documentario prima della morte, la gestazione però è stata lunga, per l’evento tragico ma anche per questioni di produzione. Quindi il progetto è nato in quasi tre anni: due anni di progettazione e dieci mesi di realizzazione».

Quanto è stato complesso realizzarlo? Mi riferisco alle difficoltà nel reperire immagini e testimonianze soprattutto…

«Una cosa che fa sorridere è che ovunque andassimo tutti dicevano di essere amici di Kobe Bryant. Quindi la nostra difficoltà è stata anche capire chi davvero avesse avuto un rapporto autentico con lui. Dopo averle trovate, c’era da capire chi avesse effettivamente qualcosa da raccontare, anche perché parliamo di molti anni fa. Un altro grande problema è stato trovare foto e video dell’epoca, in pochi avevano qualcosa, e in pochissimi avevano digitalizzato il materiale che avevano. Per cui ci siamo messi quasi come degli investigatori a cercare ovunque, anche nei laboratori fotografici chiedendo se ci fossero dei negativi dell’epoca. E così ho scoperto delle foto esclusive di Kobe. È stato chiaramente un lavoro intenso ma molto interessante che ci ha dato soddisfazioni».

Come mai avete scelto di dare un taglio non drammatico, a differenza di tanti docufilm simili, al progetto?

«Io volevo fare un docufilm sulla memoria, sull’amicizia, ma anche su cosa significasse crescere nell’Italia degli anni Ottanta e che impatto hanno avuto quegli anni nelle persone, soprattutto più giovani. Parliamo di un’Italia di provincia che ancora credeva molto nel futuro, era un Paese molto diverso da oggi. Ho voluto che fosse presente anche molto l’amicizia, per me non è un film solo su Kobe, ma su un gruppo di amici e di familiari.

Ho provato a evidenziare il tessuto sociale che ha accolto una famiglia americana in quel periodo: Kobe è cresciuto in Italia, ma per l’Italia stessa sono stati anni di crescita. La famiglia di Kobe portava le novità americane nella provincia italiana, dando un assaggio di quello che sarebbe stato il futuro. L’obiettivo non voleva essere quello di far piangere le persone ma di far conoscere un personaggio come Kobe e di raccontare l’Italia prima di Mani Pulite. Sarebbe stato quindi anche a livello musicale sbagliato rendere tutto molto drammatico. Non è un caso se accenniamo alla morte solo alla fine».

Anche per questo avete scelto di realizzare delle ricostruzioni con degli attori?

«Sì, esatto, volevamo trasportare lo spettatore in quel mondo lì. Trasferire quasi un’idea di un abbraccio collettivo, molta spensieratezza, gioia e speranza per il futuro. L’obiettivo era raccontare parti della storia senza apparire freddi, distanti o noiosi. Abbiamo quindi scelto degli attori che somigliassero alla famiglia Bryant. Tra l’altro lo scouting è stato molto complesso: non è facile trovare in Italia ragazzini di diverse età che somiglino a Kobe o al padre Joe, per il quale fortunatamente abbiamo trovato un ex campione dell’NBA, Linton Johnson, che adesso vive in Italia. Nel fare le ricostruzioni ho fatto uno studio cromatico e sonoro degli anni 80 e 90 in Italia e ho cercato di ricostruirlo, stando attento a utilizzare i giusti suoni e la palette di colori corretta».

Pensi che questo tipo di approccio possa penalizzare il successo mondiale del film? A volte le cose tristi sono quelle che vanno di più…

«Credo che alla fine l’importante è che il film ti trasmetta qualcosa, qualsiasi genere tu faccia. Il problema c’è se realizzi qualcosa che non ti fa sentire nulla. Per ora la reazione delle persone mi è sembrata molto forte, in tanti si sono riconosciuti in quei personaggi, in quegli anni e nel racconto dell’amicizia. Sembra retorico parlare del valore dei sentimenti, ma è proprio questo che ho cercato di fare. Kobe – Una storia italiana per ora è uscito in tutta Europa e mi sembra stia andando bene in diversi Paesi, perché credo che anche fuori dall’Italia in tanti si possano riconoscere».

C’è qualche aneddoto particolare riguardo la produzione del film?

«Tra le tante ce n’è uno: avevo due attori che interpretavano Kobe, uno di 6 e uno di 12 anni. Stavamo girando delle scene su due campi, a un certo punto arriva Linton Johnson e loro sono rimasti folgorati, perché non se lo aspettavano. Credo si siano rispecchiati in lui in un certo senso, avevano degli occhi spalancati. In un’altra scena poi c’era il piccolo Kobe che doveva far finta di dormire, il problema è che si è addormentato davvero per più di un’ora, nonostante il set rumoroso (ride, ndr)».

Avete mai avuto la paura di non riuscire a terminare il documentario, a causa del poco materiale a disposizione?

«Quando fai un film c’è sempre un momento in cui hai paura di non farcela. La cosa importante è essere focalizzati, se si è convinti di avere una buona storia alla fine un modo si troverà, soprattutto se si lavora con un buon team».

Alla fine avete trovato abbastanza materiale: prima di iniziare a lavorare al documentario avresti mai pensato di riuscire a raccogliere così tante e precise testimonianze?

«Per me è stata una sorpresa: io ho una pessima memoria, non ricordo cose di pochi anni fa. Ricordare qualcosa riguardante i miei compagni di scuole elementari mi sembra assurdo. Per fortuna tanti non sono come me e ricordavano molto della loro infanzia. Il fatto poi che Kobe abbia voluto mantenere certi rapporti anche una volta arrivato nell’NBA ha fatto sì che per molti la memoria era fresca, ricordando certe esperienze ogni qualvolta ci si sentiva.

Mi ha fatto riflettere come la conoscenza di Kobe per alcune persone è stata quasi ingombrante nella propria vita quotidiana in termini di metro di paragone. Uno degli intervistati è una persona che ha avuto un grande successo nella propria carriera ma mi ripeteva “sì, ho avuto successo, ma una non ho fatto nulla in confronto a Kobe”».

 

Come hai costruito la colonna sonora?

«Per me era fondamentale avere la giusta colonna sonora. Ho fatto una ricerca importante per capire come potevamo ricreare la musica degli anni 80 e 90 nel film. Con Matteo Curallo (autore della soundtrack, ndr) abbiamo fatto già altri due film – Io, Leonardo e Caravaggio, l’anima e il sangue – per cui abbiamo un’ottima sintonia. Ho coinvolto Matteo dall’inizio e lui mi ha fatto delle proposte. All’inizio è stato difficile perché le basi sonore dell’epoca erano molto scarne, quindi non è stato facile ricreare qualcosa che non suonasse “povero”. Per me era molto importante trovare la giusta atmosfera, in molte scene la mettevo in sottofondo agli attori prima di girare. Abbiamo lavorato per temi, in base ai vari capitoli del film, creando una struttura circolare a livello musicale.

Verso la fine abbiamo capito che forse mancava del cantato e Matteo mi ha proposto un brano di Danomay, Mamba. Poco dopo mi ha inviato però un altro brano, Infallibile, e nonostante avessi già montato l’intro del film con Mamba, ho capito che Infallibile era perfetto.

Secondo me Danomay ha scritto due brani in cui traspare l’approccio Mamba Mentality di Kobe, credo abbia fatto davvero un ottimo lavoro: la cosa incredibile è che ha scritto i brani senza aver visto il film. Se ascolti le tracce più di una volta capisci quanto siano profonde – ma cantate comunque in una maniera fresca – e aiutano il film ad avere la giusta chimica.

Anche a livello di sound design il lavoro è stato importante, non ti dico quanti suoni di palla abbiamo registrato (ride, ndr). Se il film viene visto in tv e non sul telefono si possono apprezzare meglio tante piccole cose che permettono effettivamente allo spettatore di trasportarsi in una dimensione emozionate anche a livello sonoro».