CanovA prende il comando – Intervista a Michele Canova

Canova Level One

Michele Canova è un raro cervello di ritorno, accompagnato da mani, curiosità e modulari nel suo viaggio da Los Angeles a Milano. Ormai dieci anni fa, a fronte di un successo nella scena nostrana quasi inarrivabile, CanovA ha deciso di partire per la West Coast e misurarsi con la cultura musicale americana.

Ecco che dopo una replica internazionale dello spettacolo italiano, lo stimolo di una scena rinnovata e di una generazione interessante, che abbraccia ogni genere e ne estrapola un ritornello, lo convincono a rientrare e prendere in mano la situazione.

Così, con in mezzo la pandemia, nasce l’EP Level One, con le prime 7 tracce da nome principale del produttore padovano, di cui 5 inediti e le già pubblicate Sorpresa con Nayt e Benedetto l’inferno con Rosa Chemical e Gianna Nannini.

L’EP di CanovA raccoglie collaborazioni inusuali – Intervista

Gli ospiti in studio sono vari, dalle star come Fibra e Giorgia, ai membri del team fisso, che varcano le porte tra le quinte con una compagnia niente male. Ciò che vuole CanovA in fondo con questo EP è stupire e far cantare, ci è riuscito con voi?

Il giorno prima dalla sua pubblicazione Rapologia ha deciso di fargli alcune domande in più sul suo percorso, sul mondo dei producer e dei songwriter e sui sound del futuro.

Buongiorno, è un grandissimo piacere poterti intervistare! Volevo iniziare, prossimi all’uscita del tuo EP Level One, chiedendo come ti senti. É una sensazione diversa rispetto alle uscite da produttore a cui sei solito?

«Guarda, sono contento. In effetti sì, è una sensazione diversa, non tanto perché si tratta di canzoni e quindi di cose a cui tengo molto sia che siano mie, sia che siano di artisti che produco o per cui scrivo canzoni, però è bello vedere il proprio nome per una volta. É come se avessi curato anche aspetti che di solito non curo, non so tipo la grafica con i miei collaboratori. Perciò devo dirti che è una bella sensazione, sono contento e lo rifarò!»

A proposito di rifarlo, per quanto riguarda il piano di pubblicazioni avevi detto che avresti rilasciato un singolo ogni due mesi da gennaio.

«Certo, ed è proprio quello che farò, in futuro. C’è quell’idea lì, però ora essendomi appena trasferito a Milano dopo 10 anni a Los Angeles non è stato facile. Prima sarei dovuto tornare qua ogni mese per un servizio fotografico nuovo, mentre ora è più semplice soddisfare l’esigenza di unire i pezzi a cui abbiamo lavorato nell’ultimo anno. Sicuramente farò questa cosa, darò un ritmo costante, anche perché la musica di oggi se non la fai uscire abbastanza vicina a quando è stata scritta si perde un po’ di feeling.»

E tu come combini questa necessità di pubblicare ad alto ritmo con le tue esigenze artistiche?

«Quando produco per altri artisti è a loro discrezione; certo, nella mia testa sarebbe bello se il pezzo che produco per Rosa Chemical, piuttosto che per Tiziano Ferro, uscisse istantaneamente. Soprattutto per la nuova generazione di artisti, per cui quello che dicono è veramente collegato alla vita di oggi. Quando invece posso decidere io, proverò, anche se non è detto che ci riuscirò, ad avvicinare la scrittura alla release.»

Questo EP come andrà a combinarsi con l’album, se un album-compilation è effettivamente il punto d’arrivo del progetto?

«Tecnicamente non lo sappiamo ancora, ma non penso sia difficile fare uscire vari singoli e aggiungerli mano a mano oppure potremmo fare diversi capitoli. L’importante per me è creare e fare nuova musica, poi per come unirlo ne troveremo mille di idee belle.»

Passando ai collaboratori del progetto, chi è che ti ha intrigato o sorpreso di più?

«Ci sono dei collaboratori dietro le quinte, che sono stati in qualche modo il trait d’union di tutte queste canzoni, cioè gli autori Vincenzo Colella (uno dei due Lacray), Alessandro Pacco che è poi Ormai e duetta pure con Fibra e Giorgia, e Leonardo Zaccaria, che in questo EP non è davanti, ma dietro le quinte come autore di tutte le canzoni. Poi ci sono gli artisti che hanno deciso di collaborare, tutti molto disponibili, a partire da Giorgia che ha dato l’idea di fare un disco: 4 o 5 anni fa insistette perché io facessi un disco, dicendo che sarebbe stata la prima a fare una canzone e in effetti è stata la prima a registrare la sua voce. Poi ci sono collaborazioni inaspettate, ad esempio di Nayt conoscevo la discografia, ma non lo conoscevo di persona. É stato un incontro fortuito grazie alla Sony l’estate scorsa, in cui mi fece sentire tutte le canzoni che compongono Doom, ascoltai Sorpresa e gli chiesi subito di poter fare una versione alternativa con lui in studio, arricchendola di una strofa, uno special e altre cose. Lui subito si è buttato, che non era scontato non avendo mai fatto sessioni con altre persone e avendo sempre solo collaborato con 3D come produttore e autore. Infine la coppia più impossibile con Rosa e Nannini, nata in studio dopo il giorno di sessione tra me, Nannini e De Gregori per fare Diamante. Feci sentire Polka per provocare Gianna, lei invece si è gasata subito e ha chiesto di incontrare Rosa: in quella giornata dalle 11 alle 16 è uscito Benedetto l’inferno

Visto che li hai nominati, ci presenteresti meglio Ormai e i Lacray?

«Durante la pandemia una delle tante reazioni che ho avuto all’isolamento pandemico è stata creare una casa discografica, che si chiama Canova Rec ed è distribuita da agosto 2021 da Universal, il cui presidente Alessandro Massara ha aderito subito senza se e senza ma. Ho firmato un roster dai 5 ai 7 artisti, il numero cambia a seconda del tipo di pubblicazioni, ma almeno 5 sono fissi. Tra i quali si trova Ormai, che è un rapper, ma definirlo così è quasi sminuirlo, è un poeta che scrive testi bellissimi e che prima faceva parte di una band, gli Inquietude, con cui era stato a X Factor nelle prime puntate di qualche anno fa. Io l’ho conosciuto perché il mio a&r di etichetta, sempre Vincenzo Colella, mi ha fatto ascoltare dei suoi brani e io sono subito impazzito, per cui l’ho firmato l’anno scorso e abbiamo un percorso di 4 o 5 singoli, ma ne usciranno tanti altri in futuro, già a settembre ce ne sono due pronti. Invece Leonardo Zaccaria è un autore di Sony ATV e ho deciso di firmarlo da artista, infatti siamo già usciti con alcuni singoli. Lui ha avuto la fortuna di collaborare con Amici già da due edizioni, per cui ha scritto i brani di Luigi Strangis, di Deddy e di LDA, tra cui i più importanti come Il cielo contromano per Deddy e Muro di Luigi. Questo lavoro gli ha dato un po’ di cassa di risonanza e ora sta lavorando addirittura in licenza con Universal, per cui io sono la casa discografica, ma lui è pure in licenza con loro. I Lacray invece sono artisti che ho deciso di far firmare direttamente in Epic, per cui li produco io, ma sono artisti in cast Epic. Sono già usciti con due singoli, ma dopo Level One hanno già diverse canzoni in cantiere. Vengono tra l’altro da Pratola Peligna, un posto con pochissime persone e si sono dovuti inventare tutto, compreso lo studio di registrazione per i primi provini: il loro producer principale è Ugo Evangelista, loro coresidente, e durante la pandemia in un garage hanno costruito uno studio di registrazione vero e proprio, seguendo i miei consigli, e i primi dieci provini li hanno registrati lì. Perciò forza di volontà mille, che poi è quello che conta in questo lavoro. Inoltre Canova Rec ha due nuovi artisti, entrambi diciottenni, che non ho ancora rivelato, uno ligure e uno romano e a settembre arriveranno delle belle novità. Un ragazzo si autoproduce, mentre l’altro scrive delle melodie incredibili e ha un modo di performare con la voce e sul palco molto interessante.»

Parliamo di Rap e Hip Pop o più Pop?

«Allora in realtà ho già fatto una release con uno, Chaze, ragazzo romano diciottenne che si produce e scrive tutto da solo, ed è stile canzone italiana con momenti hyperpop più estremi, mi piace molto questa sua apertura. L’altro ragazzo si chiama Crazy Polo, non ho ancora rivelato niente e ne sentirete parlare a settembre.»

Sono molto curioso di sentirli. Le collaborazioni dell’EP invece, in cui eri tu a condurre i giochi, sono state diverse rispetto a quando magari devi seguire di più l’artista, partendo da una sua visione?

«Allora, sì è stemperato tutto negli ultimi anni: ora il lavoro in team vince. É vero che ho un’esperienza trentennale e perciò mi permetto di intervenire se vedo che una sessione di scrittura sta deragliando, per esempio perché ci si è concentrati troppo sulla strofa e poco sull’inciso. Per la produzione mi faccio sentire magari quando manca una linea di suono comune sul disco o quando la stesura delle canzoni non è a fuoco e a 45 secondi dall’inizio non è ancora avvenuto l’inciso. Per il resto mi fido molto del mio team, imparo molto dal mio team, che sono tutti ventenni. Perciò va bene dare una linea, però è fondamentale ascoltare: io a cinquant’anni ho bisogno di imparare dai giovani.»

Noti delle differenze particolari tra quando sei in studio con un artista hip hop e quando lavori con un artista pop/indie o altro?

«Magari si concentrano su aspetti diversi del fare musica: l’attitude è più importante per un rapper, mentre la melodia conta di più per un indie. Però alla fine della giornata si rimane sempre con una canzone in mano, anche partendo da punti e momenti diversi tutti vogliono avere una hit o comunque qualcosa che vorrebbero subito ascoltarsi in macchina. Ecco quella sensazione di ascoltarsi a ripetizione una canzone appena usciti dallo studio è bellissima e purtroppo non succede sempre; una canzone bella si scrive in media una volta su dieci se sei fortunato, però quella ti ripaga per le dieci volte che non l’hai scritta. Ossessionarsi per una canzone che hai scritto tu è impagabile, volerla perfezionare il giorno dopo, volerla cesellare, ecco la passione per un continuo refinement è fantastica.»

Torni sempre all’inglese per spiegarti, che cosa ci puoi dire del riscontro con Milano dopo 10 anni di scena losangelina?

«Ci sono sempre meno differenze. Sono andato via con grandissime discrepanze, non c’era ancora questo modo di lavorare nel 2010-2011, cioè sessioni di 5 ore con diversi topliners e songwriters per collaborare ad un’idea comune di canzone. Ora sono tornato e tutti lavorano in questa maniera; ti dirò di più, essendo madrelingua e avendo lavorato per tanti anni nell’industria musicale italiana mi fa molto piacere arrivare e trovare un aggiornamento in una lingua e musica che conosco a menadito. Torno più eccitato di prima.»

In questa scena rinnovata, dal tuo punto di vista di produttore quali sono i suoni e i generi più futuribili per te? Prima accennavi all’hyperpop, pensi di avventurarti in stili simili o anche in campi più sperimentali come quelli di Arca o Dorian Electra?

«Bellissima Arca, pensa che l’altro giorno ho visto per caso che una delle mia prime sottoscrizioni su YouTube è stato il suo canale, quando c’erano questi video shock col fondale di un unico colore, in cui non capivi chi era, cos’era, cosa faceva. Io sono sempre stato appassionato delle nicchie, perché dalle nicchie negli anni ’90 e 2000 si creava poi il nuovo fondo mainstream. Ora che il mainstream inteso come pop tradizionale lo odiano tutti, la forza sta nell’avere delle nicchie che in qualche modo si aprono verso l’inciso e la canzone, senza però farsi veramente trascinare. Perciò tutto ciò che è crossgenre funziona, che sia hyperpop con l’inciso e mi vengono in mente gli 100 gecs e tutto ciò che Dylan Brady produce, perché ha anche un orecchio pop. É vero che usa sempre suoni estremi hyperpop, però c’è sempre qualcosa che ti ricanti; ecco dove c’è qualcosa da cantare io mi gaso. Pure KayCyy, che ha fatto con Gesaffelstein quel primo pezzo (OKAY! ndr)e quello per me è il futuro, cioè comporre una base techno e metterci un ragazzo di colore che rappa e trova pure quell’inciso in cui si svuota tutto mi ha spinto ad ascoltare il pezzo mille volte. Io mi stanco della ripetizione di un genere, mi sono gasato per 8 anni per la trap, ma ora il gioco si è rivelato per quello che è, a livello di beat. Invece quando vedo che qualcuno usa degli elementi di un genere per fare qualcosa di diverso, io lì impazzisco. La figata non sta in un genere, ma nell’incrocio di generi.»

In questo incrocio di generi, che artisti vedi intraprendere una strada simile?

«Nayt. In Italia Nayt si è naturalmente aperto verso la canzone, sia con Sorpresa, sia con Paraguai, ma ho sentito certe cose in uscita con cui mi piacerebbe aiutarlo, lui e 3D, nonostante siano già fortissimi insieme. Lui secondo me ha quella cifra stilistica, ma anche etica, fuori dalla musica, di onestà che può portarlo a fare cose pazzesche. Ce ne sono altri: ho lavorato di recente con Olly, ragazzo ligure anche lui, che ha firmato di recente con Sony ed è crossgenre, cioè vorrebbe fare rap ma con una linea pop più aperta. Inoltre ha un team di videomaker intorno a lui che gli permette di creare molto. Insomma, ho lavorato con tanti e non vorrei lasciarne molti fuori. Ho lavorato con Palmitessa e secondo me lei può fare molto di più in futuro, perché io la conosco da sempre come autrice, ma ha anche una voce bellissima, una delle voci di donna più belle in Italia.»

E se ti chiedessi verso l’America?

«Appunto KayCyy, ma veramente tante cose, produttori e artisti che mi piacciono. C’è il ragazzo che lavora tantissimo per Ultra Records, un produttore che fa pezzi strumentali. Guardando tra i miei like, ora sto andando tantissimo con Glaive, che è figlio dell’emo trap ma facendo anche hyperpop con questo finto suonato e le chitarre distorte negli incisi mi fa impazzire. Joji poi ora è un caso mondiale, ma ha cominciato con la 88rising e venivano nel mio studio, per cui l’ho conosciuto lì. Che poi lo conoscevo già, perché sai che ha cominciato come comico-fenomeno internet e io ero già un fan, poi quand’è venuto in studio pensavo fosse semplicemente uno che gli somigliasse, invece sul registro delle presenze c’era il suo nome. Ci siamo visti diverse volte, era appassionato del modulare alle mie spalle e mi chiedeva sempre a cosa servissero tutti i cavi e tasti intorno. Lui è fortissimo nello scrivere, nelle melodie e ha un timbro vocale bellissimo.»

Come producer invece quali sono i primi nomi che ti vengono in mente, quelli che stanno delineando gli orizzonti musicali?

«Sempre quel ragazzo di cui non ricordo il nome e Dylan Brady. Tra quelli che ho conosciuto di persona c’è un ragazzo olandese di nome Avedon, che produce per tanti, tra cui Justin Bieber. Mustard ovviamente, con cui ho diversi amici in comune. Ho conosciuto anche Tank God, che però dopo Rockstar di Post Malone non ha fatto molto.»

In questi ultimi anni in Italia si sono visti tanti producer album, ricordiamo Mace, Don Joe, Sick Luke, i 2nd Roof, DJ Slait e altri, come mai diresti che si sta sviluppando questa tendenza? Dato anche che in America non c’è un movimento corrispettivo.

«In America, e anche in Inghilterra, ci sono sempre stati i producer album, per cui ora non si vede né un calo, né un picco. Se pensi anche al produttore dei Gorillaz, lui è stato uno dei primi a proporre il suo prodotto e considera che ha preso in affitto uno degli studios dei Sunset Sounds in cui stavo a Los Angeles. Secondo me succede perché il produttore ha la possibilità di collaborare con molti più artisti e apparire in molti più dischi rispetto ad un artista. Se va bene un artista esce con 10 canzoni all’anno, mentre un producer con 50/60. Il suo nome, soprattutto se è negli Spotify credits o nei profili di artista, è quasi più in vista degli artisti stessi; è quasi un passaggio naturale con l’industria digitale, passare dagli anni ’90 in cui i producer erano sconosciuti eccetto i 4/5 più famosi, a ora che diventano dei brand sonori, traducendo l’appeal in dischi. Sono contento che sia così, perché tanti ragazzi se lo meritano, pensa anche a Tha Supreme, che in realtà è un artista, pensa a Mace, che è sempre stato un selector prima di tutto, un DJ bravo a scegliere i suoni e in effetti i suoni del suo disco sono bellissimi e tutti in linea. Pure il disco di Sick Luke ha una linea, che poi è il suono di Sick Luke che unisce tutto quanto.»

Seguendo il concetto di fil rouge stilistico, dove pensi che ricada nel tuo EP? Qual è il sound di CanovA?

«Io sono figlio di un’altra generazione, in cui negli anni ’90 bisognava inventarsi e arrangiarsi facendo un po’ di tutto. La gente mi dice che ho un suono ed è sicuramente figlio di tutta la musica elettronica che ascoltavo, dell’uso di tanti synth modulari, analogici e pure molti plug-in. Ma ho anche la capacità di adattarmi facilmente a molti generi diversi, appunto per l’esperienza degli anni ’90, dell’essere venuto da Padova, dalla provincia, durante la prima grande crisi discografica, quella di Napster, quando il CD era finito e i budget ridotti dell’80%. Ho dovuto imparare a suonare, mixare, produrre, registrare le voci, per cui direi che sono duttile, ma comunque nell’elettronica sta il mio suono.»

Allo stesso modo dei producer, pensi che pure i songwriter potranno ricevere più credito e riflettori?

«Sta già succedendo. Ad esempio con Spotify io sono il primo italiano ad essere entrato nel loro programma “written by”, in cui il mio nome è evidenziato e se lo clicchi arrivi ad una pagina con tutte le mie ultime canzoni, successi e cose varie. Penso sia una cosa fantastica: mettono loro lo spotlight sugli autori. Ancora di più rispetto ai producer, un team forte di autori, pensa a Davide Petrella e Federica Abbate, scrive venti o trenta hit in qualche anno, per cui il loro nome è sulla bocca degli addetti e il prossimo passaggio è che sia sulla bocca delle persone comuni. Sto pensando di fare qualcosa in questo senso, magari su YouTube, che porti luce su questi punti, mostrando il processo creativo.»

Immagino che avrai lavorato ampiamente come songwriter nel tuo disco.

«Certo, sono anche songwriter in tutte le canzoni, ma conta il lavoro di gruppo, infatti pure gli altri del team sono presenti in tutte le canzoni come autori.»

Dei cinque inediti quale ti ha soddisfatto di più o a quale sei più legato?

«Mi hanno soddisfatto tutti, perché sono stati creati in concerto con l’artista in studio di registrazione. Ognuno è figlio di quello che nasceva in quel momento: Maria con Tredici Pietro nasce da questa voglia di reggae, era agosto 2021 e avevamo tutti caldo, quindi c’era voglia di parlare dell’estate a Milano. Forse sono più affezionato all’ultimo che ho chiuso, Squarciagola con Carboni e i Lacray, perchè mi ricordo bene il processo creativo con le tastiere e mi piace ascoltarmelo. In Sorpresa c’è qualcosa di magico, quella canzone e quell’inciso, ma è tutto Nayt che ce l’ha portata così, facendomi venire i brividi. Come mi vengono i brividi ogni volta che ascolto la strofa di Fibra, in cui parla del tempo che ha aspettato e dei dischi che ha buttato. Quel pezzo l’abbiamo scritto prima del suo disco e la mia idea era di farlo diventare un teaser, però tra release date, spostamenti e io che vivevo in America non siamo riusciti a farlo avvenire.»

Riguardo le prossime collaborazioni, puoi anticiparci qualcosa sugli ospiti?

«Non posso dire nulla, ma nemmeno io so ancora quando usciranno, sicuramente diventeranno più ritmate, magari un appuntamento mensile, sfruttando il fatto di essere qua a Milano.»

Invece c’è qualcuno con cui avresti voluto creare un brano e con cui purtroppo non sei riuscito a organizzare?

«Ce ne sono tanti con cui ci siamo detti di collaborare e poi non l’abbiamo fatto. Di una cosa sono contento: tanti artisti della nuova generazione in qualche modo mi conoscono e mi rispettano e questa cosa mi piace tantissimo. Perciò ne vedremo delle belle in futuro, perché cerco un po’ più queste collaborazioni, poi arriverà in futuro il pezzo con Jovanotti e Tiziano Ferro, ma voglio tentare più l’inaspettato. Tutto parte dalla mia curiosità, pensa soltanto che pazzo quando dieci anni fa al top del mio successo e con milioni di copie vendute ho preso e sono andato a Los Angeles, in un mercato che era competitivo 150 volte in più di questo. Era una follia. Tornando indietro penso all’incoscienza, eppure è anche il motivo per cui torno ora a Milano, perché sono eccitato di fare questa cosa. Voglio prendere una nuova generazione di artisti per mano e aiutarli, questa cosa mi gasa.»

Ringraziamo ancora Michele Canova per l’intervista e speriamo che aiuti questa generazione ad uscire dagli schemi.