Maggio e Tanca ci raccontano I nostri fallimenti.
Un tassista ai limiti del mutismo e una Milano più trafficata del solito per lo sciopero dei mezzi. Queste sono le due premesse che mi accompagnano – in senso metaforico, ma soprattutto letterale – verso Quarto Oggiaro, dove mi aspettano Maggio e Tanca, da pochissimo fuori con l’EP I nostri fallimenti.
C’eravamo sentiti e cercati per un po’, in mezzo a orari stringenti e tempi dilatati, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. È proprio Stefano, Tanca, ad aspettarmi fuori ad un gigantesco e moderno edificio della zona nord-ovest della città. Roberto, Maggio, è già lì, impegnato da tutta la giornata in shooting per il lancio dei pop-up store di Asian Fake a Milano e Roma che, dal 10 dicembre per la città lombarda e dall’8 per la capitale, permetteranno di immergersi appieno nel mondo dell’etichetta, tra esibizioni live, collaborazioni ed edizioni limitate.
Dopo un caffè, tra uno scatto e l’altro, ci ritroviamo per parlare dell’EP, di paure, fallimenti e della musica senza confini.
Innanzitutto, come sta andando? Ora (era il 28 novembre, nda) è passata quasi una settimana dall’uscita dell’EP. Sensazioni?
Maggio: «Bene, è figo più che altro perché le persone che c’erano prima sono tutte molto contente, hanno visto una crescita fica, noi comunque ci basiamo anche su chi c’ha visto prima. Poi iniziamo a conoscere più persone anche nei live. Quindi su quello lì bomba, però stiamo ancora lasciando sedimentare le cose per capire cosa succederà tra un mese».
Quindi l’impatto l’avete avuto rispetto ai lavori precedenti, più autoprodotti?
Maggio: «Assolutamente sì, dal primo singolo con Asian Fake si è tutto molto amplificato, vuoi perché abbiamo avuto più mezzi, più persone che ci hanno aiutato a gestire il tutto. Perché poi magari quando sei in due, in casa, magari non conosci neanche bene il lavoro che devi fare, sei un po’ più in difficoltà. Mentre ora come ora abbiamo preso quella che era la nostra forza lavorativa, motoria, nel fare le cose, e l’abbiamo messa da qualche parte, in un compartimento più pratico. Quindi tutto è partito».
Anche con i live siete già partiti, domani siete a Piacenza…
Maggio: «Sì domani è la quinta, quest’estate abbiamo fatto un giretti vari per fare un po’ di rodaggio. Questo è comunque rodaggio, in verità, perché siamo in due ma ora abbiamo anche il nostro amico Giuseppe come fonico, prima non avevamo neanche quello, per cui c’è una terza persona a cui fare riferimento. Io cerco sempre di imparare un po’ di più il mestiere del palco, di gestirlo, poi comunque l’intesa va gestita con lui. Sta andando, cerchiamo di crescere».
Quindi la formazione è voi due più il fonico? E tu sei alla…
Tanca: «Chitarra, live proprio così come lo senti sul disco».
Anche perché, sentendo il disco, si presta molto a un certo tipo di formazione, diciamo “meno rap”, come è il disco.
Tanca: «Diciamo che ci teniamo a fare comunque quello che senti nel disco live. Anche la doppia gliela faccio io invece che metterla nella base».
Maggio: «A me diverte poi, cioè penso che a entrambi diverta fare le cose live, anche per dimostrare a se stessi che quella roba che hai fatto in studio non è artefatta. Vogliamo provare a rifarla anche fuori, perché ci sentiamo un botto contenti quando succede che facciamo un pezzo bene e ne parliamo anche dopo».
Ora veniamo proprio al disco, partendo dal titolo stesso I nostri fallimenti. Pensavo l’altro giorno che la nostra generazione è sempre più sottoposta a prove costanti da quando siamo piccoli. Invece voi, soprattutto nel primo pezzo, sbandierate i fallimenti quasi rivendicandoli. Come è venuta fuori questa cosa? È come se aveste deciso a un certo punto di metterla in musica questa pressione continua?
Maggio: «Penso sia successo molto istintivamente. Anche dell’EP stesso, il concept è stato trovato quasi dopo di conseguenza. Noi abbiamo fatto pezzi per divertimento e poi ci siamo resi conto che potevamo mettere tutto in un concept, l’analisi del fallimento da più punti di vista, più situazioni, sia mentali che pratiche. E poi l’ultimo pezzo è stato l’intro, quasi una summa del tutto. È stato un po’ un esporre con coscienza quello che istintivamente hai già fatto. È una cosa talmente ovvia, quasi come andare dallo psicologo, che viene un botto stigmatizzato da generazioni precedenti, ma lo sai che in verità ci sta. Quindi se io mi voglio sfogare o rendermi conto del fatto che nella vita si sbaglia è inutile che venga la persona X o il pensiero comune a dire che devi fare tutto bene. Devo fare tutto bene dopo che ho fatto anni di gavetta mentale e pratica, poi eventualmente puoi aspettarti quella cosa da me. Tutto lo sbaglio ha portato me a inquadrare meglio e lui uguale, tant’è che sia io che lui veniamo da situazioni diverse, ma comunque abbiamo vissuto i nostri traumi e sbagli, errori magari di altri, ma che comunque abbiamo introiettato in noi. Quindi fanculo».
Anche perché, alla fine, fare gavetta vuol dire sbagliare in un periodo in cui lo sbaglio è più tollerato. Io ho avvertito questa cosa quasi come se fosse un po’ in contrasto con tanta musica rap o urban italiana in cui – al di là dell’aspetto dell’autocelebrazione che c’è sempre stato e che è legato a questa cultura – è come se molti artisti celebrassero l’essere perfetti, intoccabili. Voi come vi rapportate con questa cosa? O non ci pensate?
Maggio: «Noi ci pensiamo, magari all’atto pratico perché è davanti a noi, ma ancora di più non ce ne frega veramente niente, perché tanto comunque è la tua vita e non potrà cambiare la mia. Non è che se tu sei fico io sono fomentato dal fatto che tu sei fico o lo divento di conseguenza. Comunque devi lavorare, sbagliare, farti le pippe mentali, smettere di farle, però prima fartele. Più che altro, secondo me, arrivi a un punto in cui devi pensare più a te stesso, perché guardi tutti gli altri fighi, magari ti piace anche starci accanto, ma quando torni a casa che hai fatto? Niente. Io per 22-23 anni non ho fatto niente, quindi a un certo punto ho detto “È inutile che guardo gli altri, penso a me”. Lui uguale e abbiamo iniziato a pensare alle cose nostre in questa maniera qua. Fortuna è che la cosa magari ha aiutato anche altri o sia interessata ad altri».
Anche come messaggio del non seguire quello che gli altri dicono sia figo, ma trovare la tua strada, magari sbagliando. Latte versato mi fa pensare proprio al concetto di accettare i fallimenti e fare comunque quello che si vuole.
Tanca: «Sì, alla fine noi non celebriamo neanche la perfezione, quanto la soddisfazione di fare quello che vogliamo fare e che ci piace fare. Anche, che ne so, aver fatto un pezzo che suona non voglio dire trap o hardcore, ma comunque abbastanza strumentale, è una roba che è fatta perché ci piace».
Maggio: «Avevamo ascoltato un pezzo emo che ci piaceva in quel momento lì e abbiamo detto “Facciamo una cosa diversa”. Io lo continuerò a dire all’infinito: capita periodicamente che dica “Quanto è figo questo pezzo” e sono i nostri. Perché comunque li ascolto all’infinito in modo da sopperire da solo a quelle mancanze che spesso sono date dal mercato. La fortuna è che magari riesco a fare cose che mi piacciono, perché è difficile poi sentirsi bravo in qualcosa, alla fine devi sempre imparare. Però due pacche sulle spalle ogni tanto per il lavoro che uno fa se le deve pure dare».
Anche come carburante per continuare a macinare.
Maggio: «Sì, nei pezzi io non mi autocelebro, però poi fuori, quando capita con gli amici, me lo dico pure da solo “Ho spaccato”. Perché se no vivi sempre con l’opposto: c’è chi è troppo e chi troppo poco. Io mi rendo conto che a volte devi passare anche per “presuntuoso”, ma anche perché magari il fatto di esser bravo è una cosa di cui sei oggettivamente a conoscenza». Tanca: «È anche quello che dice Orgoglio».
Che per me è significativo che sia l’ultimo pezzo.
Tanca: «Alla fine di tutti i fallimenti c’è l’orgoglio».
Invece dal lato più musicale voi mettete insieme un sacco di elementi diversi, vi rifate al rap come orizzonte – i riferimenti alle metriche lo dimostrano – ma ci sono un sacco di cose che nel rap non si trovano spesso. Invece che alla black music in generale voi vi rifate di più a un mondo punk o emo. Come nasce questa cosa?
Maggio: «Entrambi, senza conoscerci, abbiamo avuto un percorso diverso ma con degli ingredienti simili. Quindi, magari, io nel 2008/2009 mi ascoltavo un botto di screamo o di emo e in mezzo ci mettevo il post-rock, l’elettronica, e mi piaceva un po’ tutto. Anche perché in quel periodo lì non ero proprio dentro al rap, iniziavo a conoscerlo dieci anni fa. A un certo punto ho iniziato a fissarmi più su quello, però dopo anni di formazione diversa. Quindi dopo si è unito tutto. A me piaceva scrivere, le influenze su come rappo vengono più magari da cantanti pop-rock, il rap però è fatto di un’altra cosa. È nato un po’ per caso, un meticcio».
Tanca: «Io la stessa cosa, più o meno ascoltavo post-rock, emo, hardcore, anche perché lo suonavo, venivo un po’ da quella scena lì di piccole nicchie. Poi stando al sud…»
Sì, tutte le nicchie sono “più nicchie”. Oltre a voi, in questo momento in Italia molti artisti mettono nel rap elementi presi da altri generi. Secondo voi questo a cosa è dovuto? Mentre prima il suono era più uniforme, ora arrivano artisti diversissimi e nessuno storce il naso. Secondo voi perché, finalmente, siamo arrivati a questo punto?
Maggio: «Secondo me per una questione legata al fatto che in Italia le cose arrivino dopo. Era talmente scontato che dovesse succedere una cosa del genere, che ci fosse un po’ un’apertura generale, che quando arriva ci sta, ma era ovvio. Dal punto di vista sonoro il rap e la cultura hip hop sono sempre stati contaminati, solo che qui le contaminazioni dipendevano da cosa arrivava da fuori. Anche adesso magari è un po’ così, ma secondo me da tre/quattro anni gli artisti stessi che sono emersi l’hanno fatto più per personalità che per trend. Anche Tedua e Rkomi – quando uscirono ero gasatissimo – magari riprendevano qualcos’altro, però nelle tematiche erano un sacco originali, perciò quello è il click che ha dato il via almeno a me. Mi ha dato un botto una mano credere in questa cosa qua, cioè che potessi portare un messaggio mio, personale, e risultare credibile. Così mi sono messo lì a esercitarmi e a dire “Dai, si può fare”».
D’altra parte, Asian Fake è un’etichetta che si basa tanto sull’avere artisti poco codificabili secondo un genere preciso. Per quanto riguarda la scrittura, invece, due pezzi in particolare mi hanno fatto fare delle domande: Un’altra strofa e Orgoglio. Nel primo fai il parallelo tra la voglia, la noia e la storia, come se stessi dicendo che hai bisogno di una storia vissuta profondamente per scrivere, secondo quell’idea che vuole che gli artisti debbano tenere sempre la ferita aperta per produrre. Ti ci rivedi in questo approccio?
Maggio: «Prima un botto, adesso no, per fortuna. Nel senso che prima dovevo affrontare quel momento specifico, sentirlo vivo e descriverlo. Col tempo, a furia di farlo, per fortuna ho iniziato a guardare le cose anche da fuori, a poterci parlare anche così».
Orgoglio, invece, è una canzone molto personale, come abbiamo detto prima, la più personale del disco. Cosa ti crea pubblicare una canzone del genere? Senti di averla data in pasto agli altri con la paura di cosa ne faranno?
Maggio: «Sì, però io, ad esempio, dico “Manu è venuta a dicembre a Milano a trovarmi”, ma com’è Manu per me è chissà chi altro per quelli che ascoltano, quindi la mia barriera per proteggermi c’è. Per Orgoglio c’è il discorso opposto di Un’altra strofa. Quella l’ho scritta veramente in poco tempo, con meno sentimento dentro, ma volevo prendere dalla noia quello che mancava. In Orgoglio, invece, stavo proprio male, si capisce la differenza. Però, in entrambi i casi, mi piace più pensare che tu ascolti la cosa, più che sono cazzi miei. Sono talmente generici, che poi lì per lì quei gesti comuni non stai manco a pensare a cosa succederà se li dai in pasto agli altri. Lo faccio più che altro perché sono comunque sereno, nessuno potrà attaccarmi, però so che invece qualcuno potrà parlarsi, notare alcune cose. Più che altro perché è quello che mi sono reso conto che accade spesso».
Cioè far sì che attraverso la tua musica qualcuno si riveda in quell’esperienza e ne riesca a far tesoro.
Maggio: «Orgoglio infatti è il pezzo per cui più persone mi hanno scritto di quanto fosse il loro preferito e sono contento più che altro perché all’atto pratico è proprio forte, credo sia il pezzo con meno metafore, è molto quotidiano. Il fatto che una cosa così limpida e priva di sovrastrutture possa piacere non è scontato, perché vuol dire che allora lui ha fatto il beat giusto, io ho parlato bene e se le persone sono contente sono contento per quello. Se funziona, bomba».
Maggio e Tanca funzionano e lo fanno proprio perché si concentrano sugli aspetti della loro vita – ma anche della nostra – che invece non vanno come vorremmo, sui fallimenti, celebrati come concime e non come rifiuto. Hanno saputo prendere il rumore degli ingranaggi inceppati e trasformarlo in musica. C’è voglia di fare e di donarsi alla musica, di usarla nella maniera più autentica possibile.
I nostri fallimenti è un successo già per questo.