In occasione dell’uscita del suo nuovo singolo, Un Medico Mi Ha Fatto Ammalare, con la collaborazione di Dutch Nazari, Carlo Corallo ci ha generosamente concesso un’intervista.
In collegamento da Copenaghen, dove si trovava, sotto lo sguardo di un corvo che lo scrutava in modo minaccioso, il rapper ragusano ci ha fornito considerazioni e riflessioni argute e profonde a partire dal racconto del singolo, che se avrete la pazienza di leggere, troverete nell’intervista che segue. La smaniosa e vorace ricerca delle parole contraddistingue, assieme all’innata abilità dello storytelling, la sua scrittura, ma la cura nella scelta delle parole caratterizza, oltre ad uno spigliato senso d’analisi, anche le sue argomentazioni in un confronto dialettico.
Oltre agli ascolti e alle influenze musicali e alle considerazioni sul singolo, dall’intervista sono emerse anche riflessioni sull’incidenza dello status professionale sulle nostre vite e ragionamenti circa la società che ci circonda. Ringraziamo ancora Carlo per la disponibilità.
Carlo Corallo si racconta – Intervista
Dato che sei fresco di uscita del nuovo singolo Un Medico Mi Ha Fatto Ammalare, ti chiederei di parlarcene. Come è nato il pezzo?
«Il singolo si ispira ad un fatto realmente accaduto, ad una relazione che ho avuto con una ragazza che fa il medico e che ha rappresentato la prima relazione nociva della mia vita. Non avevo mai sofferto così tanto e in maniera incontrollabile, in un certo senso. Questa relazione è stata uno stratagemma che ho adoperato per riflettere, in generale, sugli status e sull’effetto degli status sulla nostra vita. E anche soprattutto al di fuori del mondo del lavoro, perché molto spesso gli status derivano dalle nostre professioni, da ciò che facciamo, ma che però poi sfociano nella vita di tutti i giorni. E quindi facciamo valere quello che rappresentiamo a livello lavorativo sull’altra persona, spesso prevaricandola e permettendo al lavoro di coprire una parte troppo eccessiva della nostra vita, lasciandoci anche poco tempo per vivere una relazione come dovremmo, a pieno».
Hai risposto in parte anche ad un’altra domanda che vorrei farti, perché un verso che mi ha compito del singolo è quello in cui fai riferimento al fare a gara a chi ha il miglior lavoro, quindi allo status che assumiamo. Credi che il contesto, l’ambiente, sia universitario che lavorativo, e non solo, creino una sorta di distacco e inaspriscano l’umanità?
«Si, ti rispondo ancora perché ci tenevo a dire un’altra cosa. È chiaro che la società è più competitiva già dal punto di vista didattico, quindi dagli anni dell’università, soprattutto per quanto riguarda alcuni indirizzi, alcune discipline. Spesso il medico, per il mestiere e gli studi che fa, è portato a razionalizzare la figura dell’essere umano e per questo motivo forse si distacca, mettendo quasi un muro di natura scientifica, che è sacrosanto in ambito lavorativo, ma che poi viene riportato anche nella vita di tutti i giorni. E quindi, nell’analizzare le emozioni di una persona che ti sta accanto, porti con te questo muro, questo distacco, quasi come se ti stessi rivolgendo ad un paziente. Magari lo compatisci per i suoi problemi ma per cui non ti intristisci, c’è sempre quel distacco dato dall’ambiente lavorativo. E questa cosa, voglio dire, si riflette anche nel mondo del rap, cioè non è un’esclusiva del mondo dei medici. Non voglio usare quest’intervista come momento per parlare male della persona che mi ha fatto scrivere questa canzone, anzi voglio dire che questa situazione mi ha aiutato a riflettere anche su me stesso. Come sempre nella mia vita ho preso spunto dalle cose che mi succedono per riflettere anche sui miei errori e su ciò che succede a me, e noto che anche nel rap c’è questa predominanza dello status che viene fatto valere. Ci sono tantissimi rapper che si autocelebrano e che fanno un largo uso dei privilegi dati dal loro status».
Nell’articolo uscito sul sito, che ha accompagnato l’uscita del singolo, mi son permesso di dire che tu sei un po’ l’unione tra l’Hip Hop e l’indie (sia per le tematiche d’amore che per l’attitudine). Ti ci ritrovi? O ti infastidisce, data l’abitudine che c’è, secondo molti artisti, ad assegnare etichette? E soprattutto, che ruoli senti di ricoprire nella scena rap di oggi?
«Allora, più che rap indie, il mio rap potrebbe essere definito cantautorale, come lo definiscono in molti, e come dimostrato secondo me dai primi due album. Magari sì, questo singolo ha più un’apertura verso ciò che ci si aspetta da un cantante indie, so che è più playlist friendly, con questi ritornelli un po’ aperti e con questo ritmo funk, però una cosa che mi ha contraddistinto è stata sempre la vicinanza al cantautorato. Quindi sì, rap cantautorale è sicuramente più giusto, anche perché il fulcro delle mie canzoni sono i testi, che alla fine son un elemento più del cantautorato che dell’indie. L’indie ha sempre tralasciato il valore dei testi a favore di una sorta di astrattezza, quasi futurismo, del linguaggio, mentre il cantautorato si è sempre basato sui testi, delle volte a discapito della melodia. E quindi sì, la mia musica è più assimilabile a quello. Nella scena mi considerano parte di quell’insieme di rapper cantautorali che riguarda Murubutu, Rancore, Dargen D’Amico (fino a prima di Sanremo), Dutch Nazari stesso; anche se lui e Willie Peyote hanno fatto un po’ più un’evoluzione in chiave più fruibile per tutti, ma senza sacrificare il valore dei testi. E forse anche Caparezza è uno di questi rapper che è riuscito a veicolare contenuti molto profondi all’interno della forma rap».
Dato che l’hai citato, e l’hai ospitato nel singolo, come è nata la collaborazione con Dutch Nazari?
«Con Dutch siamo diventati amici proprio nel periodo in cui io stavo soffrendo per questa relazione appena finita, e quindi era la persona che, meglio delle altre, poteva sapere e capire il mio mood di quel periodo, e quindi poi imprimerlo nella canzone dal suo punto di vista, parlando a sua volte delle sue esperienze. In generale, è un artista che ho sempre stimato; quindi da un lato era la persona giusta al momento giusto, dall’altro è un artista che ascolto da tanti anni. Mi ricordo che Jenin fu il primo pezzo a farmi innamorare della sua scrittura e ho sempre apprezzato la parte di Dutch più cantautorale, più da scrittore, rispetto a quella melodica, che comunque è bellissima e arricchisce la sua musica, però io sono un po’ un nerd delle parole. Quando scopro un rapper che ha delle abilità in questo senso me ne innamoro, mi innamoro della sua musica. E quindi ci tenevo tantissimo a collaborare con lui. Poteva capitare già all’interno dell’album Quando Le canzoni Finiscono, nel brano Natura Umana, però lui voleva anche fare una strofa rappata, e non solo cantare il ritornello. Quindi questo brano è stato ottimo per accontentare entrambi».
A proposito di collaborazioni, come nasce quella con Peppe Occhipinti, con cui collabori spesso, ed ha curato anche l’artwork di questo singolo, e che tra l’altro è anche il grafico di Rapologia?
«Peppe Occhipinti è un ragazzo di Comiso nella provincia di Ragusa che ho notato qualche anno fa. L’ho visto distinguersi all’interno della fauna dei grafici e dei designer locale e quindi ho deciso di commentargli un post, non ricordo, e ho scoperto lui fosse fan. E quindi ci siamo visti, siamo diventati anche amici, ci vediamo ogni tanto a Ragusa. Insomma, gli voglio bene, è un ragazzo giovane che può dare tanto e può avere voce in capitolo per quanto riguarda progetti in ambito nazionale, e non solo locale. Quindi, quando posso metterlo sul piedistallo lavorando per le mie grafiche, per quanto riguarda il lettering più che altro, cerco sempre di coinvolgerlo».
Un processo in atto, che è iniziato con Quando Le Canzoni Finiscono ma che in realtà prosegue anche con l’ultimo singolo, è la mutazione del suono. Perché l’evoluzione verso questi suoni più soul/jazz? E conseguentemente una domanda su quelli che sono i tuoi ascolti, se hanno influito.
«Sicuramente si, i miei ascolti, al di là del cantautorato italiano, sono i rapper che più danno importanza al testo.. basti pensare a Kendrick Lamar, J.Cole; in Italia Dargen, Rancore, Murubutu, il primo Ghemon, Willie Peyote, Dutch Nazari. Caparezza stesso, in parte, anche se non è forse quello che mi rappresenta di piu, però ne apprezzo i testi. E poi mi piace un sacco di altra musica: dal blues al jazz, mi piace Sufjan Stevens, che è un cantautore americano bravissimo, mi piace Tame Impala, gli Arctic Monkeys, dei quali trovo veramente valido l’ultimo disco. Quindi i miei ascolti non si sono mai limitati al rap e spero questo si senta. Spesso la batteria tipica del rap, il boom bap, la batteria in quattro quarti, mi fa sentire un po’ incatenato ad uno schema metrico sempre limitato e limitante, che è legato ad un genere. Quindi ho deciso di spaziare con pezzi come Izakaya jazz interlude, all’interno di Quando Le Canzoni Finiscono, in cui sono totalmente libero e decido di rappare proprio jazzando, variando la metrica ed anche il tempo della parte rappata. L’evoluzione del suono è stata, non solo una conseguenza diretta dei miei ascolti, ma deriva anche da un lavoro di gruppo. Io lavoro con un team, che è One Shot Agency, e che è appunto la mia agenzia, che è riuscita a sgrezzarmi, in un certo senso. Quando ho iniziato a rappare facevo delle canzoni che duravano 5 minuti, senza ritornello, erano dei monoliti invendibili e inutilizzabili nel mercato musicale di oggi. E loro mi hanno detto ‘hai un bel timbro, se ti eserciti puoi cantare’, e da lì ho imparato a scrivere i ritornelli e a cantarmeli, e mi diverto pure. Pensa che in Can’tAutorato, che era il mio primo album, c’era una canzone dove dicevo ‘vorrei fare canzoni senza ritornello che la gente ascolta in silenzio ..’, ed era quasi un mio rifiuto verso questa forma. Poi per fortuna sono maturato, sono cresciuto. Mi accorgo che scrivere un bel ritornello non è vendersi, ma riuscire a fare il mestierante, aver padroneggiato il mestiere del musicista, che deve saper fare anche questo».
Sarei comunque curioso di ascoltarli quei monoliti. Quando Le Canzoni Finiscono aveva un filo conduttore, un concept, che era la fine. Un Medico Mi Ha Fatto Ammalare racconta la fine di una relazione. La fine che ritorna. Non so se c’è ancora un collegamento con l’album precedente. Ma perché la fine? Perché Questa esigenza di raccontarla? E perché hai scelto di descriverla con la figura di Antonio Ligabue?
«La fine è un tema che ho scelto perché ho iniziato a scrivere quel disco durante il Covid. Era molto difficile trovare un’ispirazione perché si stava chiusi in casa, e quindi l’unica cosa che avevo intorno a me era la fine, in tutte le sue sfaccettature: la morte, la fine della quarantena, la fine dell’equilibrio che c’era prima. Ho cercato di informarmi su tutte le sfaccettature della fine nella società odierna e anche nel passato, e di trovare degli espedienti per parlare di questo tema senza rendere l’album noioso e monotono. Quindi ho cercato di trovare aspetti molto diversi della fine: per esempio, Izakaya jazz interlude parla della fine della giornata lavorativa, che è una fine positiva, mentre Storia Di Antonio parla del pittore che muore senza essere capito, invece Il Capofamiglia parla della morte in senso puramente fisico, che però non ha una connotazione per forza negativa, infatti c’è grande cinismo, c’è grande razionalità, non c’è la disperazione per la morte di un padre.
Per quanto riguarda Storia Di Antonio, io porto sempre questo brano ai miei concerti anche perché è importantissimo fare un ragionamento circa l’individualità degli ascolti. Oggi siamo un po’ vittime delle playlist, della sintesi e dell’algoritmo e quindi soprattutto i ragazzi giovanissimi non riescono a creare un vero e proprio gusto musicale che sia avulso dalla moda, e Ligabue invece è l’opposto di questo. Ligabue è un personaggio che è troppo spesso escluso dal mondo didattico della storia dell’arte italiana, quando secondo me sarebbe importantissimo studiarlo. Perché, per gran parte della sua vita, è stato considerato lo scemo del villaggio ed era così isolato, così escluso dagli altri concittadini, da dover parlare con gli animali. Lui trovava sfogo urlando ed emulando i versi degli animali, che poi sono diventati il suo primo vero e proprio soggetto in grado di farlo diventare quello che poi tutti conosciamo. Ligabue ha ottenuto la fama solo negli ultimi anni della sua vita ed è morto poco dopo senza avere neanche controllo dell’amore. Alla fine è morto da solo nella struttura dove era ricoverato, e l’amore è stata una fiamma molto flebile nella sua vita. Quindi, fare questo tipo di ragionamento è assolutamente educativo per una generazione vittima della moda, vittima della sintesi e che non è abituata a sviluppare la propria individualità».
Rimanendo sulla fine, quando ti ascolto, avendolo anche tu citato, mi viene in mente Xavier Dolan, che immagino ti piaccia e quindi ti chiedo anche perché ti piaccia tanto. Non so se hai letto l’ultima sua dichiarazione in cui dice che vorrebbe ritirarsi perché è stanco di fare film che nessuno vede. Al posto di Xavier Dolan, smetteresti anche tu di far musica?
«Ti rispondo con una battuta: io sono lo Xavier Dolan del rap Italiano, faccio dischi che non ascolta nessuno. Credo che la carriera di un creativo che basa tutto sulla cultura e sull’importanza delle parole, spesso contorte, sia assimilabile più a quella di uno scrittore che a quella di un trapper, e quindi è normale che uno scrittore ha bisogno di più opere, di più tempo per farsi conoscere. Però ti assicuro che quel rapporto che si crea tra il creativo, che non ha mezzi termini e da tutto sé stesso, senza filtri, e parlo di filtri inerenti alla commerciabilità, e il suo ascoltatore, è un filtro che ha un valore storico, e quindi è molto più importante di milioni di ragazzini che ascoltano il trapper perché è la moda del momento. Io ho un progetto grande per la mia carriera, che è molto difficile da scalfire per questo motivo. E l’arte in generale deve essere affrontata così, quando non è nazional popolare. Infatti, al di là di Xavier Dolan, ci sono tantissimi registi che sono stati capiti dopo tantissimissimo tempo. Basti pensare, legandomi al discorso di Ligabue, a Giorgio Diritti (il regista del film su Libague, Volevo Nascondermi, con Elio Germano). Lui, credo, fine a 55 anni ha lavorato in banca, ma amava il cinema. Ha lasciato il lavoro ed ha chiesto un finanziamento enorme per girare il suo primo film che si chiama Il vento fa il suo giro, e da lì ha cambiato vita. Quindi non vedo le tempistiche del calcio o della trap applicate all’arte».
Tornando al singolo, chiude un cerchio o anticipa qualcosa nel futuro?
«Più che chiudere un cerchio, anticipa musica nuova. Anche ad ottobre ci sarà una nuova uscita, che però non riguarda propriamente un mio progetto e che non posso anticipare. Ma tornerò a dare continuità a livello musicale. E ovviamente sto lavorando ad un nuovo disco, anche perché sono affamato di parole e di concetti e ho ancora 28 anni. Quando Le Canzoni Finiscono mi ha dato la sicurezza, la self confidence, per capire che la mia musica è seguita ed apprezzata. Ora ho bisogno di fare un passo ancora in avanti, ma più che a livello di fama, che poi è una conseguenza, e che per me non è neanche il fine ultimo, è quello di sperimentare, è una sfida con me stesso. Ci sarà un disco, c’è ancora tantissimo da dire e da fare».
Una cosa che emerge in ogni tuo pezzo è la tua terra d’origine, la Sicilia. Che rapporto hai con la tua terra?
«Con la Sicilia ho un rapporto d’amore e odio, perché la amo da un punto di vista geografico e invece non mi sono mai trovato bene a livello sociale, neanche con i miei coetanei. Mentre per quanto riguarda le generazioni precedenti, ci trovo una sorta di folklore, tradizionalismo, che va anche affrontato con l’analisi e quindi ha senso, mi affascina. Dal punto di vista geografico, è il luogo che più di tutti mi dà ispirazione, perché è ricco di controsensi, è ricco di equivoci e imprevisti e la poesia che tutti noi scrittori cerchiamo di controllare, di possedere, è spesso generata dall’ingenuità, dagli sbagli, dagli errori. Alla fine la poesia cos’è? Un errore positivo, un artefazione della realtà positiva, una bugia che fa bene e quindi la Sicilia è incredibilmente funzionale nello svolgere questa attività».
Recentemente hai scritto un saggio sul tema del ghosting per il Manifesto del Cambiamento a cura di Giovanni Caccamo. Hai individuato tre cause, scusami se banalizzo, del fenomeno: la divinizzazione dell’Io, il carattere consumistico delle relazioni interpersonali, e le nuove finestre di dialogo, ovvero i social network, con cui i giovani intraprendono il dialogo con meno impegno, sapendo che l’interlocutore è facilmente sostituibile, da cui emerge la frenesia, oltre che la sintesi. Provocatoriamente potrei dirti sia che l’individualismo prospera con il capitalismo e sia che il consumo e la frenesia, e quindi la sintesi, siano anch’essi facilmente associabili al capitalismo. Quindi, ciò che tu hai sviscerato, individuando tre cause, io sto cercando di banalizzare, individuandone una generale, ovvero la nostra società odierna capitalistica. Secondo te è causa di questo fenomeno?
«Secondo me, la sintesi non è assolutamente legata al capitalismo. La sintesi è un riflesso della mancanza di cultura, a cui in parte il capitalismo sicuramente contribuisce. Ma ti assicuro che il capitalismo esiste da molti più anni rispetto a TikTok. E questa società, che ora è ultracapitalistica, sta vivendo il dramma della sintesi, che è una cosa di cui la gente non si rende conto. E non è del tutto legata al capitalismo. È molte volte legata all’ignoranza, alla mancanza di istruzione e di dialogo tra le generazioni, che sono dei temi che non hanno nulla a che vedere con l’aspetto economico. Anzi, più stiamo sul web, più spendiamo, e quindi secondo me, in un certo senso, va anche all’apposto. Ma è la formula che più si adatta alle nuove generazioni che, appunto, hanno un enorme problema di attenzione che è dato dalla fruizione di nuovi formati, che ci rendono più comodi ma che ci permettono di sostituire anche l’essenza di quello che facciamo. E il capitalismo è il grande paesaggio, lo sfondo di questo dramma. Devi immaginare questo dramma come un incendio, un’apocalisse e il capitalismo sono le montagne che bruciano sullo sfondo. Non è un unico tema, e ti assicuro che c’è tanta gente molto sensibile sul tema del capitalismo, ma anche su tanti temi inerenti uno sviluppo etico della civiltà, che però viene intrappolata, irretita dalla sintesi e che quindi si macchia pure di ghosting e di tutti gli altri problemi legati ad essa. Come dicevo nel saggio, la soluzione è appunto l’istruzione».
Dal tuo testo, Maurizio Cattelan ha creato un’opera. Com’è stato? Immagino sia stato un piacere.
«Sono stato onorato da questa cosa, stimo molto Cattelan. La provocazione fa parte del rap e non esiste il rap senza provocazione. Anche nella sua forma più adulta e poetica, comunque ha sempre quel piglio che porta l’ascoltatore a farsi delle domande. Tant’è che il rap politico in Italia ha fatto da apripista a tutti gli altri sottogeneri, come anche il mio, che infatti sicuramente ha un tono più maturo e letterario, ma comunque conserva una scintilla di critica sociale, che si vede proprio perché fa parte dello spirito di questo linguaggio. È stato un onore vedere l’opera rappresentata sotto un’altra veste dal punto di vista dell’arte figurata, ed è stato bello mischiarsi tra il pubblico della mostra e le guide museali per capire che significato gli avessero dato e che spiegazione dessero. Sia io che Cattelan è come se fossimo stati coordinati, abbiamo toccato gli stessi punti nella nostra idea di ghosting. E quindi sì, è stato assolutamente un onore, e poi Cattelan è un gigante».
Se ancora non l’avete ascoltato, di seguito trovate il link di Un Medico Mi Ha Fatto Ammalare, l’ultimo singolo di Carlo Corallo.