Due chiacchiere con Hyst

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Abbiamo avuto il piacere di realizzare un’intervista a Hyst, uno degli artisti più particolari ed autorevoli della nostra scena.

Quando ascoltai per la prima volta “Adesso scrivo” di Hyst, la bellezza di cinque anni fa, un rapper mi venne subito in mente: Common, probabilmente l’esponente più conosciuto del cosiddetto conscious rap. Non mi era capitato di pensarlo per nessun altro artista italiano e mai avrei creduto di poter trovare, in un certo senso, il “Common italiano”, ma con Taiyo (il suo vero nome) mi venne naturale. Chiaramente è un paragone totalmente soggettivo e discutibile – e forse inutile – ma da quel momento cominciai ad ascoltare con una minuziosità incredibile i brani del rapper della Macro Beats, trovandoci uno spunto in più ad ogni nuovo ascolto.

Poco tempo fa è uscito Korea del nord“, il suo nuovo brano, non propriamente un singolo estivo bensì una traccia di pungente e sarcastica, oltre che tecnicamente e musicalmente impeccabile.

Abbiamo intervistato questo carismatico artista. Ecco cosa ci siamo detti:

Qualche tempo fa, effettuando una ricerca online sul tema delle seconde generazioni in Italia, mi sono imbattuto in un paper quale si parlava di un convegno fatto in un’università romana, un po’ di anni fa, nel quale figurava anche il tuo nome come relatore. Ad oggi, in un’attualità politica senza dubbio particolare, in assenza di una legge sullo ius soli e contemporaneamente con l’avvicinamento ancora più importante alla musica – mainstream e non – di artisti di seconda generazione, dove credi potrà andare il nostro Paese e la nostra scena rap?
«Il Paese andrà dove deve andare… cioè affanculo. Scherzo. Andrà verso un’integrazione faticosa ma ineluttabile. Quest’era di destre xenofobe populiste è destinata a concludersi, tra un po’ di anni, così com’è cresciuta. È un ciclo che si ripete, d’altronde nella Francia di Le Pen è sorta la trap francese, elemento che è poi diventato caratterizzante di una cultura e trasversale al gruppo sociale che l’ha originata. In questo periodo il mondo è vittima della narrazione multilaterale del conflitto di civiltà, le destre populiste vincono ovunque, dagli Stati Uniti all’Inghilterra a diversi Paesi europei, fino all’Italia. Tutto nasce da un piano ben congegnato che 20 anni fa ha iniziato a tessere questa fiaba per bambini spaventati, l’uomo nero musulmano, il terrorismo, salvo poi scoprire che talebani e Isis sono creature dei servizi americani associati a quelli arabi ecc. Quando questi nuovi poteri avranno esaurito l’appeal, le cose si normalizzeranno un po’, anche se la disparità di ricchezza rimarrà e quei Paesi saranno sempre visti con sospetto. Ma la gente imparerà a convivere, come già accaduto con filippini, cinesi, rumeni e via dicendo. Queste correnti politiche sono mode. L’unico timore è che prima di normalizzarsi passino per momenti estremi, ma anche questo fa parte dei corsi e ricorsi storici. Il rap è più o meno indifferente a queste dinamiche, soprattutto quello mainstream, che per sua natura non ha la capacità né l’interesse a prendere parte attiva al discorso politico».

La tua “Autostoppista di me stesso” la considero, senza esagerare, una delle migliori canzoni di sempre del rap italiano. A riascoltarla oggi potrebbe esser tranquillamente scambiata per una traccia realizzata negli ultimi mesi piuttosto che sei anni fa, strizzando un po’ l’occhio (almeno secondo me) a quell’immaginario rap-indie che sta avendo tanto successo. Col senno di poi hai mai creduto che alcuni tuoi lavori (compreso questo pezzo) avrebbero potuto o dovuto ottenere un riscontro maggiore?
«Potuto sì, senz’altro, ma so anche che io non ho mai fatto gli sforzi necessari per raggiungere pubblici più ampi. Da una parte perché sono una persona con un’ambizione commerciale molto limitata – non faccio corrispondere il mio successo economico con la mia realizzazione umana – dall’altra perché sono un artista semplice, o forse troppo complesso… e mi rendo conto che la fase promozionale, quella che segue la realizzazione di un contenuto, non mi ha mai appassionato. Di norma io sono soddisfatto quando l’opera ha senso in sé, non ho bisogno che sia legittimata dalla moltitudine per conoscerne il suo valore intrinseco. In “Korea del nord” parlo anche di questo quando dico che “faccio paura”, intendo dire che un uomo che trova legittimazione e compiutezza in se stesso non è corruttibile, e questo spaventa molti. Oggi, che credo di aver raggiunto una competenza sufficiente, la mia attenzione inizia a spostarsi ai meccanismi promozionali semplicemente perché sono un’altra zona dello stesso gioco, che finora non ho preso in esame, ma che può essere altrettanto divertente da essere padroneggiata».

Come è nata “Korea del Nord”? Cosa dobbiamo aspettarci dal futuro di Hyst?
«Hahahhaha, appunto… “Korea del nord” nasce dal voler giocare di contrasto, cosa che ho sempre amato, e dire qualcosa di profondamente hardcore con un tono e un sound, e anche un’estetica, totalmente in contrappunto. L’equazione 1 a 1 che per dire una cosa tosta bisogna mostrarsi tosti è banale, lo si può fare ogni tanto per gioco, ma non rappresenta la mia determinazione. La mia confidenza è tale che posso esprimerla senza alzare la voce, cosa che è tipica in realtà di chi è un po’ insicuro. Dal futuro dovete aspettarvi tutto. Intendo dire che ho finalmente abbracciato e dato un senso al mio essere non etichettabile. Ci ho messo un bel po’ ma alla fine ho capito che il mio modo di fare arte è Jeet Kune Do, ovvero il sistema di combattimento di Bruce Lee. Bisogna interiorizzare tutte le tecniche (tutti i flow, tutti i sound) e poi lasciare che l’anima si esprima nel modo che le è congeniale. Solo così esiste garanzia di un’espressione onesta e libera. Bruce Lee diceva “i miei avversari, con i loro stili codificati, perdono contro di me non perché io sia necessariamente più forte… ma perché loro fanno un combattimento, mentre io sono il combattimento”. Ecco, questa è la mia ambizione. Essere la musica. Capisci che fare due spicci, in confronto, è un’ambizione molto infantile».

Cosa ne pensi della cosiddetta nuova scena? C’è qualche nome che apprezzi?
«Certo, moltissimi. Partiamo dal presupposto che la trap o qualsiasi altro “nuovo stile” non è che una combinazione di bpm e soluzioni ritmiche o vocali che si ripetono. Come nella pittura in alcuni periodi, in alcuni Paesi, gli artisti decidono di convergere verso un numero limitato di soluzioni, per poterle esplorare in profondità. A volte questa cosa dà vita alle cosiddette “mode” e chi le cavalca non necessariamente sta più facendo ricerca. Ma questo è normale. Non c’è nulla di offensivo nelle soluzioni tecniche della trap o nell’autotune, che è un plug-in come un altro. Quello che mi sta piacendo molto è che i più attenti stanno lavorando all’unisono a uno stile di scrittura diverso da prima, meno lineare, destrutturato, per certi versi più simile alla poesia che alla prosa. Lo trovo affascinante e mi viene voglia di misurarmi con queste idee. Mi piacciono moltissimi della nuova generazione: Warez, Axos, Ernia, Dani Faiv… boh, la lista è molto lunga. Vedo chiaramente che chi ha già incorporato le lezioni del rap precedente e ha iniziato presto a cimentarsi con la novità sta realizzando cose molto fresche e interessanti. Detto questo, in sincerità, non faccio moltissimo digging… non ascolto ogni traccia che esce, quindi di sicuro mi sono perso dei pezzi».

Possiamo ancora parlare di Blue Nox oppure è una realtà che non esiste più? In che rapporti sei con i suoi componenti?
«Non saprei dirtelo, onestamente. Io certo non la vivo più come prima. Sono in buoni rapporti con tutti ma la frequentazione è diminuita drasticamente per un’infinità di ragioni. Certamente mi dispiace ma credo sia anche un processo organico».

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Hai collaborato con tuo fratello Jesto alla creazione del suo disco. Credi che il nostro Paese capirà il suo album o che lo apprezzerà solamente nel modo più superficiale ed ironico?
«Non saprei risponderti. Mio fratello ha sempre avuto il difetto di essere troppo avanti rispetto al pubblico. Smette di fare la trap ora che la trap è il genere che va per la maggiore perché si è già stufato, capisci… ed è sempre stato così, fin dal “primo ed ultimo disco”. Per quanto mi riguarda, Jesto è tra i migliori, se non il migliore, proprio per quella combinazione allucinante di leggerezza e profondità che per me è il succo dell’Hip Hop, e anche perché ciò che fa lo rispecchia profondamente, e questo non gli ha portato sempre e solo benefici. La cosa bella è che il pubblico che si è costruito ha un rapporto con lui che va molto oltre le mode. E questo è di per sé un risultato fondamentale».

Ricordo che partecipasti al celebre contest “Captain Futuro”di Esa e in una barra dicevi “l’etichetta se non vende i dischi chiude bottega/ l’underground campa d’amore quindi cazzo gliene frega”; cosa ne pensi del suo addio al rap? Ha sicuramente le sue motivazioni ma da fuori non ti sembra una sconfitta di chi fa un certo tipo di musica, come se l’amore di cui parli fosse terminato?
«Sì, la vivo abbastanza come una sconfitta anche se, frequentandolo quotidianamente, conosco in profondità le sue ragioni e le condivido. Potrei dire che Prez è stato vittima di una dinamica che purtroppo accade spesso. L’eccessiva apertura e generosità ha fatto sì che la gente si sentisse legittimata a dare per scontato il suo impegno e la sua presenza. Come accade per quell’amico che tu sai che è sempre lì e per questo non gli dai l’attenzione o il rispetto che invece chiaramente si merita. Se fosse stato un calcolatore e un cinico avrebbe potuto costruirsi un’aura di leggenda intoccabile ma avrebbe fatto torto al suo lato umano inclusivo ed onestamente generoso. Quindi penso che tutto sommato questo tragitto sia stato inevitabile. Dall’altra parte c’è il fatto che ora il Prez si sente attratto da altre manifestazioni della sua arte, quindi di fatto per lui questo è solo un periodo di trasformazione».

Per te sarà sicuramente difficile sceglierne uno solo, considerando la tua professione, ma qual è il tuo film preferito?
«Facilissimo. “Grosso guaio a Chinatown”. Pensa bene agli elementi di cui è costituito quel film. È praticamente il mio ritratto».