Suarez ci racconta il suo Antieroe 3: Roma, cultura Hip Hop e nuove generazioni

Suarez

In occasione dell’uscita di Antieroe 3, abbiamo avuto il piacere di scambiare due chiacchiere con Suarez, rapper romano figlio della vecchia scuola capitolina e membro di spicco del gruppo Gente de Borgata.

Il disco, proseguo della saga Antieroe avviata nel 2015, segna il ritorno sulla scena dell’artista dopo la pubblicazione di Siberia e del secondo volume della saga in questione, rilasciato nel 2015. Come sette anni fa, il nuovo progetto rappresenta senza filtri la vita e le passioni di Suarez, che anche stavolta non abbandona la propria idea di rap, sia nei contenuti che nella scelta dei beat.

Interamente prodotto e masterizzato da Suarez stesso, il disco è stato realizzato senza scendere a compromessi, portando avanti quella che è un’idea ben precisa di una cultura hip hop lontana dalle logiche di mercato e fieramente legata a dei canoni sempre meno rilevanti nel tempo.

Oltre alla genesi e alle peculiarità del progetto, abbiamo affrontato il cambiamento del genere rap negli anni, prendendo sempre come punto di partenza Roma: la città dalle mille influenze che ha cresciuto generazioni diverse accomunate dalla stessa voglia di rivalsa.

La nostra intervista a Suarez

Ciao Suarez! Benvenuto. Finalmente è uscito il tuo nuovo disco, Antieroe 3. Vorrei partire subito in quarta e inserire questo progetto in un discorso più ampio. Ho avuto subito l’impressione che tu abbia voluto tenere in alto e rappresentare i valori di una cultura hip hop ultimamente lasciata un po’ in disparte, sia nello stile che nell’attitudine. A questo proposito, oggi ritrovi quelle caratteristiche che rendevano unico il movimento qualche anno fa?

«Le vedo ancora sicuramente ma molto meno rispetto ad anni fa. Questo è dovuto a un cambio generazionale e a una superficialità generale: un ragazzo che si approccia oggi al genere non si interessa a quello che c’era prima, di conseguenza la cultura hip hop nella musica rap comincia sempre di più a sparire».

Negli anni tra l’altro c’è stata una contaminazione a livello musicale che ha velocizzato questo processo. I ragazzi si trovano di fronte un “mischione” che li confonde

«La parola mischione la uso spesso. Si genera anche per il contorno del contesto musicale. Purtroppo mi sento di inserire tra i “colpevoli” molti portali che definiscono rap una roba che in realtà è pop. È più un problema di comunicazione secondo me».

Come molti sanno, Antieroe 3 è stato interamente prodotto da te. Dal primo istante in cui ho messo play traspare subito un approccio molto classico in questo senso. Le scelte per quanto riguarda le batterie e i sample sono influenzate da album che hai ascoltato recentemente o rimani fedele ai gusti musicali che ti contraddistinguono da sempre?

«Mi sento di definirmi un po’ atipico in questo senso. Parto col dirti che ho cominciato la saga Sntieroe nel 2011 (già ai tempi era autoprodotto) e ho continuato a chiamare antieroe tutti i dischi in cui mi occupavo anche delle produzioni. Ho comunque iniziato a fare beat già nei primi anni 2000, qualcosa anche verso la fine degli anni novanta. Confrontandomi con altri rapper, mi rendo conto di essere uno dei pochi che scrive senza ascoltare il beat. Io invece, quando voglio dire una cosa, mi appunto la rima o la punchline e mi immagino la velocità dei BPM sui quali rappare un determinato argomento. Anche in questo disco per esempio, nel 95% dei casi i beat sono stati fatti dopo.  Per quanto riguarda la scelta dei sample, a me di base piace di tutto. Mi ascolto per esempio un sacco di colonne sonore di film. Difatti mi considero un rapper citazionista, sia nei testi che nelle produzioni: mi ispiro alle mie passioni e non prendo necessariamente spunto da argomenti prettamente hip hop. Nel  pezzo Iron Man ad esempio ho pensato di campionare parte degli incastri dell’armatura di Iron Man per comporre parte della batteria della strumentale».

Il tuo pubblico è composto principalmente da tutti i ragazzi che ascoltavano e ascoltano Gente de borgata, Cor Veleno, Colle der Fomento e Brokenspeakers, gruppi che hanno fatto la storia e hanno creato un certo tipo di attitudine soprattutto a Roma. Se guardi le nuove generazioni rivedi la stessa fame di qualche anno fa? Credi che l’approccio sia totalmente diverso?

«A Roma, per quanto riguarda l’underground, ci sono gruppi che hanno ripreso l’attitudine che abbiamo avuto da sempre. Come approccio di base credo che ci sarà sempre quella “coattaggine”, passami il termine, in senso positivo, anche nelle nuove generazioni. Per quanto mi riguarda non sto ascoltando tantissimo rap romano e rap in generale. Da noi c’è il collettivo Do Your Thang, con cui negli anni sono diventato amico. Tutti molto bravi in quello che fanno e diversi tra loro: ognuno ha la sua identità. C’è un ottimo rapporto per esempio con Panz, l’ho anche fatto recitare nel video di The Punisher. Ci sono altre realtà interessanti come Roma Guasta, che nono sono comunque più giovanissimi. Vedendo e ascoltando tutto, posso dirti che in media solo uno su nove rappa nel vero senso della parola. Molti fanno solo trap, il che non è assolutamente negativo, anzi, ma stiamo proprio parlando di un’altra cosa».

Tu hai sempre avuto un’attitudine hardcore figlia del rap romano. Mi vengono subito in mente i classici della capitale e tutto il rap east coast americano degli anni 90. Ti ricordi qual è stato il primo input che ti ha indirizzato e fatto pensare “A me il rap piace così”? Inizialmente ti influenzava di più il rap nostrano oppure sei da subito andato a cercare in America?

«La prima cosa rap che ho ascoltato è stata tramite uno zio paterno, che mi portò dei vinili degli Onda Rossa Posse e Assalti Frontali.  Non ti nascondo che c’era anche il primo Jovanotti, che nel bene e nel male è stato il primo a portare sotto i riflettori il genere. La prima videocassetta di rap italiano che ho comprato è stata Quel sapore particolare degli Otierre. Per quanto riguarda il rap americano, credo che i Public Enemy siano stati uno dei primi gruppi che ho ascoltato, tanto che comprai l’audiocassetta. Vedevo i loro video e volevo essere come loro. Tornando in Italia comunque l’artista che ho ascoltato di più è stato Lou X: faceva musica contro tutti e non si faceva problemi a lanciare un messaggio, nonostante fosse scomodo nei confronti delle forze dell’ordine e di tutte le cose che non andavano in questo paese. Quello mi dava la carica. Nel rap americano col tempo ho sempre preferito i banger. A livello di beat impazzivo per i synth di Dre ma per il modo di rappare preferivo l’east coast. Diciamo che i miei ascolti sono sempre stati molto vari. Ti posso fare un chiaro esempio nel mio disco: l’approccio è subito abbastanza violento, perché penso anche alle future esibizioni live, ma trovi anche dei pezzi più riflessivi».

Proprio a proposito di live, già prima del Covid negli ultimi anni sono state trascurate le esibizioni dal vivo, quando dovrebbero essere uno dei punti centrali della carriera di ogni artista, dato che la musica dovrebbe essere fatta anche per essere portata davanti al proprio pubblico. Come vedi a questo proposito questo cambio di rotta verso il digitale?

«Vedo gruppi con 130.000 follower con due singoli e neanche un disco. Pezzi con milioni di ascolti con la voce modificata che sarebbero quasi impossibili da rifare dal vivo, o almeno puoi rifarli ma non sembreresti tu. Se sai rappare lo dimostri sul palco. Ensi e Clementino per dirti sono due macchine da guerra».

I primi progetti che hai realizzato sono usciti in momenti totalmente diversi della tua vita. Rispetto al periodo tra i 20 e i 25 anni senti che è cambiato tutto a livello di scrittura? Spesso dopo un lungo periodo di attività iniziano a mancare le idee che ti stimolano quando sei più piccolo. Nel tuo caso come hai vissuto questi anni di transizione?

«Sicuramente, anche per un discorso cronologico, di vita, a 20 anni hai moltissime cose da dire rispetto a uno che ha pubblicato dieci dischi. Hai tutto da tirare fuori. Paradossalmente non hai bisogno di stimoli perché viene tutto naturale. Nel mio caso, le primissime cose nella fascia d’età che dici tu non mi piacciono più molto, anche se ce ne sono alcune che ancora mi rappresentano. Però mi sento di dire che certe cose non cambieranno mai: una è lo scrivere, che per me è proprio vitale, credo che continuerei a farlo anche da vecchio. Poi di base sono uno a cui piace mantenere la propria identità, che posso dire di non aver mai snaturato negli anni. Questo disco infatti mi rendo conto che è una missione suicida. Il messaggio è ed è sempre stato: se vi piace il rap a cui siamo legati potete continuare a farlo così. Poi so di non poter raggiungere un certo tipo di pubblico per via dei contenuti e delle sonorità, ma voglio che la mia musica mi rappresenti al 100%».

Dal primo Antieroe sono passati anni, eppure non hai mai smesso di produrre e scrivere. Se escludiamo la recente pubblicazione di Siberia, come sei arrivato a questo disco partendo dall’uscita di Antieroe 2 nel 2015?

«In questi anni credo di aver rilasciato strofe e beat in almeno 80 progetti. Alla fine del 2016 ad esempio ho prodotto l’intero disco di Supremo 73 poi negli anni ho messo da parte varie strofe per questo Antieroe. Nel periodo di quarantena abbiamo tra l’altro fatto un altro disco con un altro artista di cui non posso svelarvi il nome. Potrebbe anche uscire fra anni. Ovviamente questi due anni di Covid hanno rallentato molto l’uscita di Antieroe 3, per svariati motivi. Ho vissuto il primo periodo di pandemia nel migliore dei modi per quanto riguarda la musica. Scrivevo minimo una strofa al giorno. In seguito ho passato dei momenti difficili dal punto di vista personale che mi hanno totalmente bloccato, ma adesso posso dire di essere tornato. Un anno e mezzo fa Metal Carter mi ha chiamato per farmi entrare nel roster di Time2Rap records, etichetta che mi ha dato modo di far uscire il disco nella maniera migliore senza dover scendere a compromessi, condizione che ho fatto presente da subito».

Foto in copertina di Fred Long