«C’è bisogno di fare innamorare la gente del rap e non dei rapper» – Intervista a Toni Zeno

Toni Zeno

Una lunga intervista con Toni Zeno, per conoscere meglio uno dei ragazzi che più ci stanno dando soddisfazioni negli ultimi anni.

Se ci seguite da tempo, avrete notato quanto cerchiamo di spingere questo talento della provincia di Messina e il motivo è semplice: tra quelli che sono arrivati nei nostri radar, è indubbiamente uno dei migliori dal punto di vista lirico e tecnico, perciò ci siamo impegnati fin da subito a farlo arrivare a più persone anche attraverso le pagine del sito e i post della pagina.

Un paio di settimane fa siamo stati su Zoom una sera, per più di un’ora e mezza, a parlare del suo rap, di quello di uno dei suoi rapper preferiti di sempre (Cali), della fede religiosa ma anche calcistica e di molto altro ancora. Per ovvie ragioni, non abbiamo riportato ogni singola parola, ma speriamo che attraverso questo scambio di battute possiate apprezzare maggiormente Toni Zeno, uno dei rapper che ci è venuto sempre naturale elogiare nei nostri vari approfondimenti. Buona lettura!

Dalla religione al rap, dalla strada alla strada: l’intervista a Toni Zeno

Partiamo dal disco, DIES IRAE, in particolare dalla prima traccia, Pidditta. Anche se l’hai già raccontato in una storia Instagram, magari non tutti l’hanno vista, quindi te lo chiedo lo stesso: chi è questo Nino di cui parli?

«Nino è lo zio di un mio amico, che tra l’altro è qui ora con me in un angolo, sta in silenzio per evitare di fare bordello (ride, ndr). Suo zio era una persona “molto famosa” fra noi ragazzi in paese, proprio perché era costantemente nella piazza principale, vicino tra l’altro al passaggio delle scuole. Era una persona molto buona, gentile, rispettosa di tutti. E stava sempre sullo scalino della piazzetta a cantare ‘O Sole Mio quando c’era il sole, Scende La Pioggia quando pioveva. Insomma, è un bel ricordo, una bella sezione di memoria che ci riporta a cose che, magari, come periodi di vita non sono le nostre migliori fasi, ma ci riportano comunque a una zona di comfort mentale. Parlarne non è stata una scelta che punta a estendere il mio pubblico in termini di comprensione, però è fatta strettamente per noi e spero che arrivi alle persone anche di fuori. Poi il “Nino Nino” è spontaneo perché letteralmente quando passavi per le strade del paese ti capitava di sentire da lontano Nino che cantava. Adesso senti letteralmente solo sirene che passano da mattina a sera, fra ambulanze e cose varie che non voglio nominare. È solamente una piccola foto, niente di più».

È anche questo il bello del rap, no? Poter raccontare le storie di chi magari dopo un po’ sarebbe scomparso nella memoria di qualcuno…

«Assolutamente, è uno dei principi primi per cui lo faccio. Quella piccola cazzata che ho scritto oggi nella storia è molto sentita. Anche la citazione a Marra non è casuale, abbiamo letteralmente altri santi, altri miti, altri eroi. E non sono fatti di successi, traguardi e cazzate varie, ma di quello che lasciano alle persone. Di conseguenza è bello per noi farci il flash, ricordarcelo e va bene così. È il piacere di fare il rap per fare rap, stop».

Ed è bello per chi come me sta a circa millecinquecento chilometri di distanza e grazie alle tue parole riesce a conoscere parte di una paese con dinamiche e realtà totalmente diverse.

«Sì e poi una cosa che è molto particolare nel nostro retaggio, è che noi non abbiamo vincitori e, quindi, le nostre storie non parlano quasi mai di gente che è riuscita a vincere, da un certo punto di vista. Cambiare questa narrazione con le loro storie, penso che possa realmente fare la differenza».

Il tuo modo di scrivere, secondo me, permette veramente a tante persone di immedesimarsi. Una scrittura che forse hai leggermente modificato come approccio nella seconda traccia del disco, Merce di Scambio, dove sbaglio o è la prima volta che ti sentiamo utilizzare l’autotune in un modo così marcato?

«In un certo senso sì, non mi ero mai slanciato in una scelta del genere, almeno non con uscite ufficiali. Ho fatto qualcosa nel disco con Aleaka dove c’era un po’ di tune ma parliamo veramente di inezie rispetto a queste. Merce di Scambio è stata immediata come scrittura, ma è stata anche un piccolo parto nella scelta di farla uscire. Ho detto più volte: “minchia, ma lo faccio o non lo faccio?“. Poi alla fine ero sotto per il pezzo che mi son buttato e ho detto: “lo faccio, che cazzo me ne frega!“. Secondo me è forte e quindi va bene così».

Quindi se tornassi indietro lo rifaresti uguale?

«Assolutamente. Secondo me è una delle cose migliori che ho fatto!»

Ci sta quando uno sperimenta, fa qualcosa di leggermente diverso, magari anche all’interno di un singolo brano. Qui infatti c’è la parte più melodica con l’autotune, ma la tua rappata serrata ce l’hai piazzata comunque…

«Sì, io poi sono un super fan di French Montana, non è che te lo posso negare. Quando ho sentito quel beat ho detto: “Carlo, questa è proprio roba alla Harry Fraud, io devo obbligatoriamente fare lo stronzo su questa strumentale, non mi posso mettere a fare la rappata convenzionale“. L’ho quindi studiato in maniera non dico capillare, ma mi sono proprio divertito a cercare di fare qualcosa di diverso, pure perché non ti nego che nell’ultimo anno tutti i miei ascolti sono convertiti su tutt’altro, di conseguenza era normale e naturale cercare un attimo di svariare con i beat di Carlo Ragazzo che, tra l’altro, lo consentono un sacco, cioè secondo me hanno una versatilità incredibile perché sono assolutamente dei colpi di fino».

Ma allora quanto ti sei incazzato quando French Montana ci ha illuso con l’uscita del suo disco?

«No, vabbè, non mi incazzo più, figurati. Tra l’altro sono anche indietro con le uscite di circa un anno, letteralmente di tutto quello che è uscito fra America e robe varie. Però nell’ultimo anno ho letteralmente ascoltato qualsiasi cosa che potesse un attimo farmi svariare dal rap, ero saturo mentalmente. Mi si passi il termine, io sono proprio autistico per questa roba. Di conseguenza cammino con le barre degli altri in testa, con le mie, diventa una malattia. A un certo punto ho proprio bisogno di tagliare con la musica».

Quindi hai ascoltato altri generi?

«Anche, sì, come ad esempio quelli messi sotto contratto da JAY-Z, gli Infinity Song, io vado pazzo per queste cose fatte bene. Come anche James Blake, Lil Yachty con il disco nuovo e totalmente diverso dal suo passato. Insomma, ho cercato di ascoltare un po’ di roba che mi cambiasse il mood e Merce Di Scambio penso che sia un netto riflesso di questa cosa».

Assolutamente riuscita. Secondo te, quindi, potresti rifare in futuro pezzi di questo tipo?

«Io vado molto per ispirazione della musica. Quello che mi comunica il beat, se c’è da metterlo, io lo metto. Per me è puro estetismo, se suona bene va bene, lo lascio, altrimenti non mi interessa. Ci sono altri pezzi dove ci ho provato, lo sentirai a breve, nei prossimi mesi…».

In Merce di Scambio, tra l’altro, affermi che campi di quello che scrivi: a cosa ti riferisci?

«Sì, lo dico in termini esistenziali. Adesso che il rap è diventato parte integrante della mia esistenza in termini effettivi, lavoro anche per fare sì che questa cosa sia un reddito costante. Comunque, tra concerti, dischi, roba varia, sai benissimo che gli introiti del rap non sono niente di significativo finché non stipuli contratti. Grazie a Dio l’unica cosa di cui mi fregio, e penso che sia l’unico motivo per cui voglio rappare, è che non ho mai avuto bisogno del rap per fare soldi nella vita. Quindi il rap è quello che cerchiamo di amplificare fino al punto che diventi la fonte di guadagno principale, ma non è neanche dovuto, perché al mondo ci sono miliardi di altre fonti di guadagno molto più remunerative del business del rap in Italia. Di conseguenza, penso che uno debba essere sveglio e guardarsi intorno e capire quali sono poi le priorità esistenziali. Questo è la base dell’intelligangsta, come direbbe qualcuno meglio di me».

Speriamo che lo capiscano anche tanti giovani…

«Serve solo attitudine al sacrificio nel fare le cose e capire che ogni persona che incontri è un’opportunità sotto ogni aspetto. Io personalmente, come tantissimi dei miei amici, pensiamo a lavorare da quando abbiamo tredici/quattordici anni, chi anche da prima, chi poco dopo. In sostanza siamo gente abituata comunque all’arte dell’arrangio, come si suol dire. Secondo me, nella vita se sei troppo dipendente da qualcosa e dal punto di vista del business diventa la tua unica fonte di guadagno, metti che a un certo punto quella cosa la esaurisci: non non va manco più bene…»

Chiaro, bisogna avere una visione “imprenditoriale”, riuscire a costruirsi attorno altre cose, interessi, sbocchi, perché chi te lo dice che potrai sempre aver futuro in quello che stai facendo?

«Ma tu mi ci vedi ancora fra vent’anni a fare pezzi rap sul boom bap per i prossimi ragazzini?! No, io devo campare tranquillo, non che mi voglio ritirare, ma fra vent’anni faccio i dischi col flauto come André 3000 e me ne sbatto il cazzo» (ride, ndr).

Cambiamo ora argomento. È da tempo che ci tenevo a farti questa domanda, perché ogni volta che ascolto qualcosa di tuo, c’è sempre un riferimento alla religione. Nel tuo rap c’è tanta fede, ci sono le tradizioni della tua terra. Volevo chiederti, quindi, qual è il tuo rapporto con la fede? Come mai è così presente nei tuoi pezzi?

«È una domanda che comporta una risposta molto lunga. Allora, io sono molto fedele dal punto di vista della cristianità, non tanto del cattolicesimo, espleto meno la funzione del cattolicesimo ma, ecco, mi piace tanto la cristianità. Sono un mega fan di Gesù Cristo come si può notare anche dai miei progetti. Io ho letto e studiato abbastanza testi sacri per essere abbastanza, diciamo, coinvolto da questo punto di vista, più che ideologicamente, è proprio un discorso strettamente legato alla fede e di conseguenza me la prendo tantissimo con Dio (ride, ndr). Nei pezzi mi viene automatico parlarne, perché il nostro retaggio è sempre vincolato dal fatto che ovunque vai ci sono chiese e processioni. Fa parte di noi, è un linguaggio della zona, in un modo o nell’altro. Io poi lo porto un pochino all’esasperazione, lo capisco, ma il riferimento esce in automatico ed essendo “mia materia” mi dà un sacco di riferimenti e materiale costante. È un gigantesco libretto di istruzioni, tutto qui».

Mi viene spontaneo chiederti allora cosa ne pensi del Christian Rap: lo ascolti?  

«Secondo me il Christian Rap è molto denigrato. Nel senso, ci sono effettivamente tanti rapper che la portano sull’esasperazione della narrazione divina, però ce ne sono altri che colgono i riferimenti in maniera figa, applicandoli al linguaggio di strada e a dei beat interessanti. Ricordo che da ragazzino c’era un pezzo dei Beautiful Eulogy che un socio mi aveva passato e che si chiamava Anchor, dove c’era questa strofa incredibile che cita tipo tutti i libri di San Giacomo: la stra consiglio. Ovviamente non è un pezzo trap, non è un pezzo dalle ritmiche veloci, è un pezzo tipo pianoforte a dama nera ma è molto significativo per chi cerca i testi nei pezzi. Conosco poi Eluzai che produce molto bene negli Stati Uniti, con roba lo-fi applicata al Christian Rap. Guarda, non ti dico che è la mia corrente di matrice, perché io purtroppo vengo dall’esatto opposto del Christian Rap ma mi piace applicare il retaggio. Ci sono dei testi secondo me in alcuni casi scritti molto bene. Però ti ripeto, l’applicabilità sonora è un’altra cosa: se mi chiedi se nelle playlist ho brani Christian Rap oppure Pusha T non ti posso dire bugie» (ride, ndr)

E ti era piaciuta la svolta cristiana di Kanye, quando ha iniziato a fare Jesus Is King ecc, ecc.? 

«Purtroppo sono una mega groupie di Kanye. Per me il suo disco migliore è The Life of Pablo. Ok, forse è una bestemmia, ma da questo puoi capire che sì, mi è piaciuta la svolta cristiana. Ovviamente in termini di liriche secondo me un pochino ne ha risentito, ma per la produzione è sempre Kanye West e può fare letteralmente il cazzo che gli pare. Domani fa un disco con l’ukulele e va bene per me, non sarò lì a dirgli “ah, minchia, no, non lo fare“».

Chiudiamo con Kanye la parentesi religiosa e dedichiamoci un attimo alla tua provincia, Messina, perché la sto conoscendo anche grazie ai tuoi testi. Me ne vuoi parlare un po? Come è la scena rap lì?

«Guarda, è un discorso molto lungo e articolato anche questo, cercherò di essere il più sintetico possibile. Ci tengo a precisare che per me la Sicilia è casa, è il posto più bello del pianeta Terra. Ovviamente ha un sacco di contraddizioni e la provincia di Messina non si esime da questo. L’altro giorno parlavo proprio con EliaPhoks (di Palermo, ndr) di quanto la contrapposizione tra i nostri due mondi sia bella perché comunque loro sono prettamente sull’ambiente, proprio street in un contesto molto crudo da un certo punto di vista; noi siamo in un contesto un po’ più borghese, ma in una città nella provincia, che non ha filtri ed è abbastanza amalgamata. Io dico sempre, per scherzare, che dove ha messo mano Dio è pazzesco – vedi lato mare, spiagge, è veramente incredibile – dove invece ci abbiamo messo mano noi si vede la differenza. Se non ci fosse il mare, te ne renderesti subito conto, ecco. Messina è un posto considerato dai siciliani “la provincia babba“. Anche il suo dialetto è un po’ denigrato perché più vicino all’Italia e di conseguenza più italianizzato, mentre il dialetto siciliano è a tutti gli effetti una lingua. È comunque un posto dove da un certo punto di vista capirai che non c’è neanche troppa salvaguardia da parte dello Stato, con tante cose lasciate a se stesse e parlo proprio di aspetti basici della vita, come le scuole. Poi a differenza delle grandi città come Roma, Milano, Torino, Bologna, non esistono eventi e non esiste un amalgama culturale. L’ho visto con i live: culturalmente non c’è tantissima gente interessata in Sicilia. Anzi, magari è molto interessata, ma non c’è la confluenza negli eventi in diversi punti perché sono poche persone sparse in diversi centri e arrivare ad esempio a Palermo è già una faticaccia. Come l’altra sera, quando sono andato a Palermo per sentire Nex Cassel, mi sono fatto tre ore e mezza di strada e sono letteralmente duecento chilometri. Capisci quindi che le infrastrutture non sono delle migliori e così magari i ragazzi non hanno proprio la massima disponibilità nell’avere un approccio diretto al rap. Siamo cresciuti in un ambiente dove non è che il rap ce l’ha portato qualcuno. Io avevo otto o nove anni, ero al lavoro con mia mamma che lavorava per una signora in un laboratorio di pelletteria, il figlio ascoltava il rap e faceva il writer e di conseguenza mi è arrivata la botta nella mussa (in faccia, ndr). Se non ci fossero stati i writer, non avrei avuto l’accesso a quella tipologia di cultura, capito? Poi magari in giro per strada beccavi dei ragazzi vestiti larghi, ti riconoscevi subito e si diventa in poco soci di una vita. È quindi un giro semplice. Nelle città, magari trovi più agglomerati, su Palermo ci sono ovviamente tutti i ragazzi che spingono da Elia, Rage, Joe, c’è veramente di tutto. Su Catania c’è L’Elfo, Wild Ciraz e altri. In Sicilia c’è veramente grande qualità, però il movimento risente del fatto che quando si può spostare tanta gente qui giù da noi viene spostata solamente da quei tre/quattro nomi e di conseguenza anche le organizzazioni faticano a puntare sul sul rap. Quando abbiamo fatto i live con MRGA abbiamo avuto questa sensazione perché tipo da Roma in su abbiamo visto che la risposta era immediatamente diversa, ma non per la quantità di persone ma per una questione di creare l’agglomerato, ecco».

Ma se potessi verresti su anche tu, come tanti fanno, a Milano per provarci con col rap o è una cosa che almeno al momento non ti passa per la testa?

«Guarda, io su Milano ho vissuto già per due anni, tra il 2017 e il 2019, poco prima che scoppiasse il Covid sono sceso. Ero lì per lavoro principalmente, perché venivo da Bologna che non mi aveva entusiasmato e volevo un po’ cambiare ambiente, creare connessioni diverse e salire su Milano. Allora, allo stato attuale delle cose ti dico onestamente non è nei miei piani e nei miei progetti, anche se so che sarebbe un toccasana, perché ogni volta che salgo su letteralmente con una chiamata mi connetto con un sacco di gente e abbiamo modo di lavorare. Di conseguenza ti dico che ci penso ogni tanto, mi faccio questo viaggio, ma non ambisco a salire lì per fare il rapper di giù che è salito a Milano, perché poi la mia narrativa sarebbe completamente da cambiare sotto un certo punto di vista, Non che mi spaventi questa roba, ma semplicemente dico: la mia vita è qui e le cose che devo cambiare le devo cambiare qui. Devo riuscire col rap a crearmi un certo giro di cose perché alla fine dei conti, come dico sempre ai ragazzi, tutti i rapper in Italia sognano di fare quattro soldi con queste merdate per finire a comprarsi una casa al mare e stare in pace, Ecco, già quello step l’ho abbattuto in termini di esistenza, quindi non voglio stare lì a sconvolgere completamente delle dinamiche esistenziali in favore di una cosa che a livello economico non mi crea troppa differenza. Poi la produttività per me è la base, io cerco sempre di essere iper operativo, di creare la connessione, ma al momento andare a vivere fisso a Milano no, magari un paio di mesi all’anno sì…»

A Milano ci sei salito anche per MRGA immagino. È doveroso chiederti come hai vissuto quel periodo con loro…

«MRGA è un capitolo fondamentale della mia esistenza. Non lo vincolo solamente alla musica, perché avere a che fare con i ragazzi è sempre un piacere e un onore. Cioè, veramente, sono i miei preferiti in Italia,  sono persone che seguo anche da prima, come Pin, Elia, Gioielli. La loro è “la chiamata in nazionale” perché per me è significato avere la constatazione del fatto che non stavo correndo a vuoto e che quello che stavo facendo era incanalato, in un certo senso, nella maniera giusta. Secondo me, e spero anche secondo gli altri, rappresenta qualcosa di grosso per il giro del rap in Italia, più che per il semplice lascito dei dischi, ma proprio per la cultura, perché ha riportato al centro il discorso di fare le cose in un certo modo e di non vincolarsi al fatto che devi uscire dagli studi multimilionari per fare le cose per bene. Gionni Gioielli, che saluto e gli voglio sempre un grandissimo bene, nella sua follia sarà sempre un visionario nel progettare i dischi, in ogni ambito. Ognuno lo può discutere quanto cazzo vuole ma io ho il massimo rispetto, per me è un discorso proprio viscerale, come anche di Blo/B, di Fabio e di ognuno dei ragazzi. La produzione è stata importante in questi anni e di conseguenza vederla finire non è mai una cosa che ti piace. Però ti ricordo che anche Marco Van Basten a un certo punto ha detto guarda più di così queste caviglie non le posso mungere, quindi non ha senso se non posso giocare a quei livelli. E poi dico sempre: nella vita mai dire mai. Come dice Blo/B “si è piantato un seme, non è che il fiore è morto“, capito? Da questa cosa escono altre situazioni che sono state di nuovo un punto di partenza e di rinascita. Siamo sempre in contatto ogni giorno e in ogni momento, è naturale…»

E per te come è che è nato questo percorso assieme a loro?

«Quando è uscito Azimut mi ha scritto Blo/B e mi ha detto “guarda, stiamo facendo Pray For Italy, questo è il beat, fai la strofa“. Io gasato come un bambino sono arrivato tipo a trentadue barre e mi sono detto “minchia, forse ho esagerato“, però l’avevo già registrata e ho detto “questa è la strofa, dove la vuoi tagliare, tagliala!” e alla fine l’hanno tenuta».

A proposito di beat, tu hai fatto un disco interamente prodotto da Gioielli e uno interamente prodotto da Aleaka: due produttori diversi, due sound diversi, che mettono in risalto in maniera diversa il tuo rap. Immagino quale sarà la tua risposta, però magari mi sorprendi: con quale dei due ti sei trovato meglio?

«Con entrambi sono stati processi naturali, non c’è qualcuno con cui ti trovi meglio, qualcuno con cui ti trovi peggio, anzi, ti dirò di più: con Ale il processo per creare il disco è stato sanguinoso perché scriverlo è stato sanguinoso, come penso si possa sentire dalla “opera”. Di conseguenza ti dico che lavorare con entrambi è mega facile perché ti danno del materiale già ottimo e di conseguenza, come gli dico sempre, la grossa percentuale del lavoro la fanno loro, perché io mi affido molto alla musica, a quello che sento. Devi pensare che a Gioielli Gruppo di famiglia in un interno gli è stata mandata su un type beat Griselda e, dopo meno di un’ora, lui mi ha girato il beat che adesso tu senti nel disco: l’ha fatto ispirato solamente dalla mia rappata, si è messo lì e ha fatto tutti i tagli sul momento. Stessa cosa Ale per alcune dinamiche del disco, come Il Metodo, dove ci sono tutti i cambi: io magari rappavo e lui nel mentre faceva i cambi dei beat. Per me è un sogno a prescindere, perché sono cresciuto ascoltando la loro roba, capito? Quindi avere l’onore e la fortuna di collaborare con le persone che poi stimi non ha paragone. Lo stesso con Il Torsolo: all’epoca gli mandai il pezzo così per puro gioco, perché avevo sentito le robe di Al Divino e Tha God Fahim prodotte da lui e mi son detto: “ma questo nome è troppo italiano per essere roba di fuori“. Alla fine cazzo, era proprio lui e anche nei prossimi mesi lo vedrete. Non voglio fare spoiler, ma il grande regalo di questa cosa è che mi sta mettendo in contatto con le persone che musicalmente – e di conseguenza a livello umano – mi hanno formato sotto un certo senso. Quindi l’approccio è tutto naturale, non c’è nulla di costruito. Ti dico quasi che gli artisti con cui sono cresciuto è come se li conoscessi di persona. Quando li conosco, infatti, non variano poi troppo da come me li immaginavo perché umanamente riesco già a cogliere i tratti in cui siamo simili e quelli in cui invece siamo completamente opposti. Poi ci sono sorprese, ovviamente, ma è un onore e un piacere avere la possibilità di scrivere sui loro beat, è pazzesco, neanche nei miei sogni più reconditi».

Per chiudere il capitolo beat, volevo parlare del pezzo con Murcielago, mi ha sorpreso trovarti lì.

«Io sono di solito uno che rompe molto i coglioni perché, come ti dicevo, devo stare lì a conoscere la gente. Murcielago mi ha scritto per una connessione diretta e c’è stata l’intercessione di Montenero, che per me è un fratello maggiore, anche perché mi ha accolto in MRGA come se fossi tipo il suo vicino di casa che ha visto nascere e crescere e di conseguenza gli posso solo volere bene. Se lui mi dice vai sul sicuro, io sono stra tranquillo. Poi Murci mi ha passato il beat ed era una cosa veramente spacchiosa da quel punto di vista. Sapevo già che il pezzo era costruito diversamente, non era un pezzo solamente col mio ritornello e le mie strofa, dunque mi ha chiesto questo contributo e ho accettato senza problemi, mi ha fatto piacere. Alla fine faccio le cose perché mi piace farle e mi ispirano: per La Mano Di Sinatra così è stato».

E magari, grazie agli altri nomi coinvolti nel brano, ti ha fatto arrivare magari a qualcuno che prima non ti conosceva, no?

«Guarda il mio circolo social non è troppo largo, ho molti più ascoltatori che follower, grazie a Dio. Dal che si denota che per tanti forse la mia musica è molto più importante delle mie fotografie e questo per me è la cosa più importante perché faccio musica e non faccio fotografie. Quindi il focus è centrato. A me fa sempre piacere perché comunque ti ripeto, mi piace creare un contributo che sia di livello, indipendentemente da quanto allarga il giro. Anche se questo brano credo non lo abbia ampliato troppo, sono sempre contento: tutto fa brodo, come diceva il saggio» (ride, ndr)

Dal brodo tiriamo fuori qualcosa di caldo, ossia il tema del cosiddetto underground in Italia: come lo vedi tu?

«È un discorso controverso, Io voglio rompere questa corrente, perché secondo me bisogna smettere di fare questa estrema distinzione tra mainstream e underground. C’è proprio il bisogno di distinguere solamente roba fatta bene e roba fatta male. Stop. Lo so che quando ne parlo nelle storie sembro incazzato e lo sono magari nel momento, però allo stadio attuale della situazione, secondo me quello che è l’underground – che chiamo così per convenzione – è un grosso giro di artisti indipendenti e piccoli che si stanno impegnando per fare un sacco di roba di livello molto alto. Se poi mi dici la vendibilità del prodotto rispetto al mercato, io ti dico che va creato un aspetto formativo dove viene messa al centro la cultura e non i rapper e quello che guadagnano. Di conseguenza c’è il bisogno di nuovo naturale, come dico in Lazzaro, di fare innamorare la gente di nuovo del rap e non dei rapper, perché tutto il punto culturale sta lì, non c’è bisogno di filtrare i contenuti. Io stesso, quando ho sentito la prima volta i Co’Sang nella mia vita, sono andato a leggere ogni testo e a cercare di capire cosa dicessero in napoletano, non ho aspettato che traducessero in italiano i loro pezzi. Lo stesso ho fatto con i rapper di ogni nazione quando il suono mi ispirava, spinto proprio da una matrice culturale della cosa: quando ti interessa il suono e ciò che viene da dentro, c’entra poco tutta la sovrastruttura delle foto, di come si è vestiti, di con chi fa il featuring, su che evento compare e tutte ste cazzate. Quindi ti dico semplicemente, basta dire underground e mainstream: c’è roba fatta molto bene e c’è roba fatta molto male».

E tra questi due opposti, secondo te, è aumentato il divario o si sono un po’ avvicinati come qualità? 

«C’è un sacco di gente che proprio ha aumentato il livello della qualità delle produzioni e del rapping che, secondo me, non è tanto scarso come vogliono far passare o come c’è qualcuno che punta a denigrare dicendo che non esistono certe situazioni. Io ho la fortuna di collaborare con un sacco di ragazzi che fanno robe che per il rap fino ad ora ci eravamo sognati. La cosa bellissima della parte indipendente di questo mercato è che in un modo o nell’altro c’è davvero la tazza di the per ognuno, quindi ci sono i presupposti per ritornare a uno stadio culturale della cosa dove ognuno davvero si può affezionare a un certo tipo di suono, a un certo tipo di matrice. È importante anche che chi ascolta e ha il compito di diffondere, per esempio, riviste giornalistiche e addetti al lavoro mainstream – perché lì sì che esistono distinzione tra addetti ai lavori del mainstream e dell’underground – capiscano che non si può fare finta che determinate cose non ci siano. Un giornalista deve comunque attenersi al fatto e immagino debba fare una cronaca effettiva di quello che accade. Dunque è importantissimo per la cultura riportare tutto ciò al centro, senza tutte le cazzate superficiali, ma con cose un po’ più concrete da quel punto di vista. Bisogna rimettere proprio l’arte al centro, fare capire che tutti questi ragazzi si possono tranquillamente fare il rap in Italia da indipendenti senza avere il bisogno dei conti. Griselda è un esempio chiaro di tutta questa roba. I ragazzi prima di arrivare a lavorare con le major, hanno avuto dieci anni di gavetta, letteralmente, dove si sbattevano per il merch e si autoproducevano tutto. Ora, ovviamente i numeri non sono gli stessi con cui si rapportano nel pubblico americano, d’altro canto però è vero che qui ci sono tantissimi ragazzi che puntano a fare le cose a un livello più alto di quello che puoi trovare oggi in etichetta, anche a livello visivo, estetico, pratico. Che poi non ci riescano per una questione di mezzi che magari il disco non è registrato come se fossi a Los Angeles, è un altro discorso: te ne sbatti semplicemente il cazzo. Io ho tracce di Luchino Visconti registrate nella Lancia con i finestrini chiusi. Le cose escono se devono uscire e la gente ci arriva: è importante che chi le deve filtrare a un pubblico più ampio non si concentri solo su quello che già tutti sanno».

Quindi veramente delle tue session di quel disco sono registrate in macchina?

«Sì, sì, assolutamente e si sente, penso. Sia Gioielli che Tosses ci avranno buttato sangue, perché ho proprio intere strofe registrate in macchina. Forse, addirittura, tutta Gruppo di famiglia in un interno è stata registrata in auto e lo si può sentire tranquillamente».

Tra l’altro ne hai girate di auto, tra Lancia Delta, Renalt Clio, Fiat Punto e tutte le altre che nomini nei pezzi…

(ride, ndr) «Sì perché mio padre è un meccanico e ha la passione dei motori, corre nei rally a tempo perso quando ne organizzano uno ogni quindici anni qua dalle nostre parti, e di conseguenza i motori in zona sono una forma di di malattia. Io ero quello meno affetto, ma più crescevo e più l’avvicinamento era inevitabile. Tra l’altro, Lancia Delta era letteralmente la prima macchina che mio padre aveva quando io sono nato, per questo il riferimento era proprio vincolato da quello. Tutte comunque macchine scassate, schifose, quelle della classe operaia» (ride, ndr)

Ti faccio l’ultimissima domanda, perché è da più di un’ora che stiamo parlando e avrai anche le tue robe da fare. Prossimi progetti? So che stai lavorando a robe nuove e un po’ l’hai confermato prima…

«Sì, sì, mi dispiace solamente che quest’anno abbia dodici mesi, perché ho così tanta roba da far uscire che ci sono proprio pochi mesi a disposizione per buttare tutto fuori come si deve. Vabbè, dico solo quello che già si sa, per non creare aspettative di alcun tipo: sto lavorando con ThinkFast con Armani Doc e Garelli per fare una cosa simpatica insieme e studiarci un bel lavoretto. Siamo qui in orbita. Poi ho diverse tante altre situazioni, ma non mi fare dire nomi, cose, che poi porta sfiga. Quindi vado piano. Ti dico solo che se il Signore mi assiste ho realizzato un sogno proprio adolescenziale, quindi bello, non vedo l’ora…»

Pure noi. Tenete d’occhio Toni Zeno. È fottutamente forte.