«L’album è una barca che va e prende quello che succede» – Intervista a Gemello

Gemello

Venerdì 21 Gennaio verrà pubblicato La Quiete, il nuovo album di Gemello a due anni di distanza da UNtitled.

Abbiamo avuto la fortuna di poter ascoltare il disco in anteprima e di poter parlare direttamente con il suo autore, che ci ha raccontato aneddoti e curiosità sulla sua genesi ma anche sui tempi del Truceklan.

Di seguito trovate ciò che ci siamo detti, senza filtri. Buona lettura!

La Quiete: un cerchio perfetto che nessuno ha disegnato – Intervista a Gemello

La Quiete è un altro ottimo album che non fa altro che confermare il talento tuo e, anzi, dimostrare quanto ancora  tuabbia da dare alla scena hip-hop e alla musica in generale. Questo disco esce a due anni di distanza da UNtitled, due anni in cui la scena e il mondo  sono cambiati moltissimo. Come hai vissuto questo periodo di pandemia e come è cambiato il tuo approccio alla musica e alla vita?

«È stato un periodaccio. A parte le costrizioni, stare da solo a casa, non poter cantare dal vivo e tutte le disgrazie annesse, io ho cercato di fare il mio percorso e distaccarmi. Dal punto di vista psicologico è stato difficile ma anche un purificazione. Una rinascita di me. Essendo attivo su più fronti, l’idea che fosse tutto fermo mi ha un po’ ricaricato.

Tutti i miei dischi hanno questa sorta di “cool down”, questo lasso di tempo che intercorre tra un disco e l’altro. Non è tutto immediato, non c’è un disco ogni anno, perché, a parte il lavoro dei quadri, mi piace immagazzinare vita, emozioni e portarli nel disco, che per forza di cose diventa autobiografico. Credo che questo sia comunque l’approccio di quasi tutti gli artisti o almeno la maggior parte.

La cosa che mi è mancata di più in questo periodo è il contatto, la libertà di incontrarsi. Sotto un altro punto di vista, professionalmente, quelle poche volte che ci incontravamo facevamo tutto, tipo timelapse. Tutto quello che dovevamo fare. Andavamo a bere, cazzeggiavamo e chi chiudevamo a lavorare, in questa casa al Circeo, dove poi è nato il cuore del disco. In questa casa a picco sul mare, a settembre, tutti quanti avevano i loro cazzi e i loro problemi. Però ci siamo chiusi, professionalmente, io ho raccontato loro il mio disco e loro mi hanno fatto ascoltare le musiche. Così abbiamo trovato la quadra giusta per scacciare i pensieri o le cose personali e usare tutto quello che ci era successo per canalizzarlo in un disco. Devo dire la verità: è stato strano. Inconsciamente sapevo che stavo facendo la cosa giusta, però nell’immediato mi sentivo sempre un po’ trascinato e per scaramanzia non mi voltavo mai in dietro. Tutto quasi senza rendermi conto.

Anche i featuring sono nati così, come parte di un viaggio che non è stato deciso a tavolino o preimpostato. È stato frutto di incontri, che ci hanno portato a realizzare delle canzoni insieme, come un cerchio perfetto che nessuno ha disegnato. Quando si tratta del proprio lavoro o del mio in particolare, tutti hanno questa sorta di istinto di sopravvivenza, di survival instinct: fai quello che vuoi, anche se non te ne rendi conto. Come tutti gli album è stato alla fine come una storia d’amore complicata, che però alla fine è sbocciata».

Quindi La Quiete è da vedere come un viaggio unico, che inizia e finisce tutto in una volta? Perché in occasione dell’uscita di UNtitled, ci avevi parlato di un nuovo inizio della tua vita artistica. La Quiete dobbiamo vederlo come un seguito di quel percorso artistico? Oppure si tratta di un capitolo a parte?

«È sempre la mia vita. Non segue i canoni di UNtitled che è stato un disco di tipo diverso. Questo è un disco più libero, come sono più libero io dal punto di vista formativo, musicale, psicologico. Per forza di cose è un continuo, perché è sempre parte della mia vita, i miei dischi, le mie cose. Però non è allacciato a niente.

Come nei rapporti con le persone o l’amore, ci sono questi reset ogni tanto. Chiuso un capitolo se ne apre un altro e ogni volta si crede di aver guadagnato consapevolezza e di sapere quello che non si vuole. Poi alla fine ti ci perdi, non capisci più niente e devi ricominciare da capo. Così come nelle cose importanti, i rapporti, i lavori (soprattutto quelli artistici che muovono la coscienza, la pancia la testa), alla fine sono tutte le scelte sono necessarie ma non sono troppo ponderati o aggrappate a qualcosa di vecchio. È normale, che io sia io. Però è sempre un capitolo nuovo. Quindi la risposta, di base, sarebbe “Sì, è un capitolo nuovo, però allo stesso tempo non tralascio neanche quell’altro”. È una barca che va e prende quello che succede e cerca di farlo in modo più libero possibile. Infatti in questo disco mi sono cimentato in cose che non avevo mai fatto, piuttosto che scegliere basi diverse, conoscere gente, farmi aiutare…

Io poi sono fortunato, perché conosco gente che fa anche generi diversi. Quando mi serviva un ritornello, stavo da Gazzelle, e me lo faceva stando alla finestra come fosse la cosa più facile del mondo. Piuttosto che farmi dare una base da Neffa. Sempre grandi soddisfazioni e occhi da bambino, guardando quello che realizziamo noi artisti. Perché, per quanto ci conosciamo e ci vediamo, mi stupiscono sempre la naturalezza e la semplicità con cui si lavora, con disorganizzazione ma con professionalità quando escono le cose. Ed è tutto talmente bello mentre succede, che non hai voglia di guardare l’orologio oppure guardarsi indietro o contare quante tracce sono state fatte. Ti travolge e ti fai trasportare da questa cosa ed è figo. Per questo penso che difficilmente mi passerà la voglia di fare questi viaggi, di fare questo lavoro, di scrivere, di mettermi in gioco: con le deadline, le richieste dell’etichetta che ti chiede certe cose, la gente che sta lavorando ad altri progetti e devi aspettare…. Però alla fine è riuscito come volevo. Sono contento, non vedo l’ora che esca, che lo possiamo portare dal vivo, cantare e che tutto torni in una semi-normalità».

Dicevi quindi che per realizzare questo disco: hai preso una casa in affitto e vi siete chiusi dentro per lavorare assieme?

«Si, come ormai fanno tanti. Di base serve per staccarsi un attimo da tutto. Abbiamo preso questa casa al Circeo, al faro, a picco sul mare, in cui nonostante la malinconia, il “tutti a casa”, i dubbi di partire a settembre, che era un periodo un po’ di transizione, ci siamo chiusi, perché il lavoro nostro era di portare a casa delle canzoni. Il tutto però con quell’armonia e quella tranquillità del gruppo, mantenendo sempre la professionalità. Perché di fatto è un lavoro corale: io ci metto il nome (anche se poi ci sono i nomi anche di chi ha fatto le produzioni e i musicisti). È stato molto figo, lavorare per settimane intere ad una cosa e staccarsi da tutto. È un bel privilegio!»

Io rimango sempre molto colpito dal tuo modo di scrivere, con le figure che riesci a descrivere. Nella scorsa intervista ci avevi parlato di questo tuo sguardo, con il quale vedendo una cosa o un oggetto, riesci a creare tutto un film e a descriverlo tramite metafore. Questa tua scrittura la coltivi durante il tempo, prendendo spunti qua e là oppure i testi sono nati da zero una volta chiusi in questa casa? Avevi delle cose già abbozzate?

«Io nella casa ho portato tutti i miei due anni sulla schiena e ho appoggiato il sacco con tutto quello che c’era dentro. Emozioni positive, negative, felicità, tristezza, abbandoni, conquiste o esperienze nuove. Chiaramente non è che la formazione è stata fatta lì. Nella casa è stata una cosa professionale, perché ci siamo messi a lavorare, nonostante tutte le cose esterne e i problemi di tutti. Però chiaramente ognuno ha portato lì le sue emozioni, le sue musiche, le sue idee. Io ho portato lì i miei scritti, qualche cosa l’ho anche scritta lì.

Io ho questo approccio, come dici te, quasi infantile, sono molto sensibile. Che ne so, vedo un bonsai e mi sembra un baobab gigante. Ho delle sensazioni e delle cose che mi piace anche enfatizzare. Nonostante io sia uno che viene dall’underground, sono uno affascinato dalla natura, la terra, il fuoco, il mare, il vento… sono costanti che io sento e che mi piace raccontare. Ognuno poi ha i suoi scrittori e i suoi film preferiti: attinge da tutto senza voler attingere. Quando lo riversi però per quanto provi a spiegarlo, sono sempre parole tue. C’è il tuo zampino, è una cosa che non controlli, ma lo accogli. Per me è così in ogni disco, in questo sicuramente.

Per maturazione mia, il lavoro, per i musicisti, per le scelte che abbiamo fatto o ho fatto, sicuramente è stato importante anche scartare, accorciare delle cose, accorciare dei testi, togliere dei suoni, farlo un po’ più minimale, un po’ più corto e leggibile, nonostante io passassi da una cosa ad un’altra per immagini, come mi piace fare. Anzi, come io faccio. Perché io sono fatto così.

Mi sono messo a cantare i ritornelli. Perché ho detto “Un ritornello già me lo ha fatto Coez: questo adesso chi me lo canta?” e mi sono messo io a provare di cantarlo, con il tipo alla tastiera che mi faceva intonare la nota. Ho dovuto chiamare Gazzelle per chiedere un parere. Mi fa “abbassa di un tono” e io “che vuol dire?” (ride, ndr). Io poi sono fortunato, perché siamo tutti così ed è divertente. Uno magari che fa Indie mi chiama per chiedermi come si rappa e viceversa, io chiedo aiuto per cantare. La forza di tutti e che sappiamo fare un po’ di tutto. Ed è anche bello provare a fare le cose nuove, però con dei canoni, dei maestri e degli amici dietro che ti dicono sinceramente “è una merda” piuttosto che “è bello, è nelle tue corde”.

Così come è bello, se vado a casa di Ketama a sentire il disco suo nuovo che mi dice “c’è sta base che non ho usato, usiamola noi…”. Io gli ho detto, “stupendo, spacca!” poi lui scrive il ritornello in stile mio. Allo stesso tempo, se io devo fare un ritornello o un featuring a Holden, a Carl Brave o a qualcun altro, lo faccio a stile suo. Si dà e si prende. Io mi metto nei suoi panni, magari faccio una cosa un po’ più nelle loro corde: mi metto in gioco con i loro giochi. E loro viceversa con me magari fanno una strofa un po’ più cupa, un po’ più come sono io. È un gioco che non ti annoi mai di fare».

Dal punto di vista musicale, hai qualcuno che ti piace ascoltare?

«Io spazio molto. Ascolto ovviamente rap, trap, hip-hop, pop, heavy metal. Io sono molto appassionato di musica, sono un collezionista e sono passato attraverso tutti i diversi gironi di musica e ho cercato sempre di prendere il meglio. Ho girato con persone che mi portavano a vedere i migliori concerti. Ho avuto il privilegio, grazie al mio lavoro come artista, di non avere orari fissi e ho potuto permettermi di vivere e seguire al meglio certi concerti. Però non posso dirti di avere dei pilastri fissi. Perché tutt’ora, se nella playlist mi parte la canzone di The Streets (che era un inglese dei tempi…) risento ancora adesso delle sonorità che sono moderne, nonostante fossero dei pezzi del 2000. In contemporanea io ascolto di tutto. Per questo che ho chiamato il disco “La Quiete”. Perché mi sono partiti e ho detto, madonna che periodo che era. Quindi è anche un omaggio a loro, che sono una parte di me anche se non sono rap. Sono scelte che fai, non troppo ponderate. Anche dettate dal fatto che un nome al disco bisognava darlo… Io avevo pensato appunto a La Quiete, ho provato a scriverlo a penna: era una parola che non avevo mai scritto in vita mia. Poi ti perdi: “La quiete, la quiete, la quiete… Che vuol dire la quiete? La quiete, che bomba. Voglio ricordare a me stesso, questo è il mio disco, il mio titolo”. Che poi sticazzi, posso scegliere il titolo che voglio.

Mi ricordo invece, quando ero più piccolo, che ero alle prime armi (no, non lo dico che poi Nanni Moretti si incazza), che anche per i quadri mi immaginavo di dare dei titoloni, con dei nomi da mitomane e invece adesso sono finito così. Anche il disco UNtitled, un minuto prima che scadesse il tempo: “come si chiama sto disco?” “Eh, non si chiama. Chiamiamolo UNtitled”. Non perché mi avessero rotto i coglioni, ma perché alla fine la parola UNtitled fa capire come ci sia di più rispetto alla presentazione di un disco. Non serve per forza un titolo di impatto, che ti faccia sgranare gli occhi. Anche il mio nome, Gemello. “Perché ti chiami Gemello?” Eh, perché ho un fratello gemello, da piccolo mi chiedevano tutti “Sei Andrea o Lorenzo?” e dopo un po’ è diventato per tutti, “Ciao Gemello, bella Gemello, grande Gemello”. Non è che me lo sono scelto.

Uguale per il disco, il titolo non me lo voglio scegliere. O se lo scelgo è una decisione presa lì per lì. Come raccogliere un fiore piuttosto che un altro, prendere una via piuttosto che un’altra. Una scelta poco ponderata. Inconsciamente in realtà è una cosa super-ponderata. Chiaramente tu vuoi mettere in mezzo la quiete, poi la tempesta. Poi di nuovo la quiete. Poi pensi al gruppo La Quiete, cazzo che bomba. Poi la quiete mia: il disco più maturo, un po’ più pop, un po’ più Indie, un po’ più melodico, un po’ più in grado di essere assorbito senza soffermarsi troppo: la roba che magari passa in radio e anche la musica è importante, non solo le parole. Ragiono molto di istinto».

Cambiamo argomento. Guardando la tua discografia solista, abbiamo visto come ci sia un buco di ben 8 anni. Dopo Non parlarmi d’altro, del 2006, abbiamo dovuto attendere fino al 2014 per Niagara EP…

«Sì, in mezzo c’è stato solo In The Panchine 2 che era un disco collaborativo. Non parlarmi d’altro era un disco con i sample di The Notwist, che neanche c’è su Spotify. Senza distribuzione… che era proprio cult così!»

Grazie a Dio è stato ristampato in vinile, perché è una perla!

«Si, si lo so… Però riguardo a quel periodo, non è che abbia un ricordo preciso. Era un po’ in stallo la cosa. La musica rap era legata a una serie di amici che poi si sono un po’ slegati. Chi perché è andato a Milano, chi perché lo hanno incarcerato, chi perché aveva la donna e la famiglia. A me l’idea che non doveva più essere una cosa divertente, così come era nata, ma doveva essere un lavoro mi metteva ansia e tristezza. Magari ho fatto qualcosa, brani o collaborazioni. Però ho pensato ad altro. Ho pensato ai quadri, ho fatto altre cose, ho vissuto un po’ anche da solo senza gli amici e ci siamo un po’ persi. È per quello che non c’è stato nulla per un po’… Niente di premeditato».

Quindi in quel periodo ti sei concentrato maggiormente sui quadri?

«Sì, ho fatto la mia vita, ho fatto i quadri. Andavo a fare surf, ho riallacciato i rapporti con mio fratello… Non ti dico che è stato necessario, però è stato così. A vedere i numeri, sembra che sia stato un tot di anni senza fare niente. Invece il tempo è volato. La causa principale è che in quel momento non mi divertiva e avevo voglia di fare altro. Perché per me è sempre stato divertimento. Poi mi sono ricordato: ci siamo un po’ riuniti, la situazione si è un po’ tranquillizzata tra tutti quanti e mi è tornata la voglia di farlo. Poi 5 anni dopo, il rap era esploso.

Ai tempi miei mi dicevano: “Cosa vuoi rappare, mica sei americano? Cosa vai a fare con la tavola da surf a Santa Marinella, mica siamo in America!” E io dovevo dire, “Guarda che è figo, ci sono 3 metri di onde! Il rap in Italia è figo!” Sicuramente in America c’è la cultura, ma anche noi siamo incazzati! Il rap nasce perché la gente è incazzata! Poi noi abbiamo i riferimenti dei film di Corbucci, di Mario Bava o di Pasolini. La metrica che esce sicuramente è diversa, però è molto bello, molto neo-realista. Una cosa di nicchia, ma è una parola forte, anche noi abbiamo delle cose da dire: non è che sono incazzati solo quelli!

Poi quando è esploso il rap, tutti a dirmi “Eh Gemello, tu che lo facevi? Senatore del rap! Grande, In The Panchine è culto!” Ma noi non lo facevamo per il culto, lo avevamo fatto e basta.

Quindi ho ripreso a farlo prima che ci fosse questo boom del rap e ho detto: figo! Anch’io mi faccio prendere da un’etichetta, ho voglia di provare, di sperimentare, di prendere dei musicisti e fare il disco mio, di dedicarci del tempo, perché i rapporti con gli altri si sono un po’ riavvicinati. Qualcuno si era perso, qualcuno è rimasto. Ciascuno ha fatto la sua strada, però sempre con consapevolezza che venivamo tutti dallo stesso crew e ci andava di farlo. Scusa, ho parlato un’ora…»

No, no, anzi, hai già risposto alle prossime domande che volevo farti. Anzi, proseguendo: all’epoca del Truceklan in giro per l’Italia, c’era questa consapevolezza che stavate facendo una roba importante?

«No. Lo sapevamo che la roba che facevamo era figa, perché la facevamo soltanto noi, perché ci facevamo noi stessi i film, da piccoli andavamo tutti quanti ai rave, eravamo tutti belli scappati di casa ognuno di un quartiere diverso, ognuno aveva la sua identità e faceva la sua cosa. Però di certo non avevamo budget o programmi. Facevamo la nostra cosa, perché ci piaceva. Come a scuola, ti piacevano i Metallica e andavi in giro con gli amici tuoi, tutti vestiti di nero, tutti incazzati ad ascoltare la musica, a suonare.  Sapevamo fosse figo, anche perché dal vivo spaccavano. A livello di flow, di rime, facevamo strofe lunghe e incazzate, avevamo fiato. Ciascuno aveva il suo stile ma seguivamo tutti quanti una cosa nostra. Però non sapevamo chi cazzo eravamo. Non sapevamo che avevamo lanciato dei messaggi forti, che eravamo entrati nel cuore di un po’ di gente. Poi erano periodi in cui c’erano 10 persone sotto al palco. Comunque eravamo amici di tutti quanti, anche a Milano… Erano periodi fuori di testa, disorganizzati, ma era bello così. Senza pensare di essere chissà chi.

Poi ognuno è uscito da solo per i cazzi suoi con la sua forza, la sua storia, la sua roba, sperimentando, facendo cose nuove, conoscendo gente, mettendosi in regola con la SIAE, con le etichette, facendo i conti con una realtà nuova in cui ancora ci piace stare. Ancora diciamo la nostra perché abbiamo fatto il Vietnam e ci piace giocare ancora con le armi che sono la penna, il computer e ci piace ancora sputare rime, cantare dal vivo, fare le nostre canzoni sempre con la nostra attitudine, ma anche con una maturità in cui ci piace sentire le cose nuove, mettere in mezzo giovani o cose diverse…»

Pur avendo lo stesso background di Noyz e soci, con cui ti abbiamo visto collaborare anche nell’ultimo disco, il tuo stile è completamente diverso. Rispetto all’immaginario cruento e crudo descritto dal Truceklan…

«Quando facevamo il Truceklan e In The Panchine ce lo avevamo un po’ tutti. Eravamo tutti nella stessa barca dell’hardcore, del disagio, del punk. Poi dopo aver fatto In The Panchine, ho voluto tirare fuori anche l’altra mia voglia, di inserire le canzoni del post-rock. Ho fatto Non parlarmi d’altro con la base dei The Cure, con i sample dei Notwist. Mi piaceva anche quel genere lì, quindi mi piaceva mettermi in gioco anche in altro. Quindi era Gmellow la parte con cui sono nato, più spontaneo, con cui ho fatto In The Panchine e Gemello, la parte un po’ più conscious, più me nell’altro lato mio. Perché ero da solo. Da solo, finisci per raccontare quello che vedi da solo, quando sei con gli altri, vedi le cose in un’altra maniera. Avevo necessità di fare pure quello. Ma senza stupire nessuno.

Quelli sono dischi fatti in 500 copie, che adesso chi ce li ha se li vende a 500€ perché sono dischi che abbiamo impacchettato a casa, con Noyz e gli altri con la colla di pesce che neanche si vendevano nei negozi. Li davamo così, di nascosto. Io di certo non sono quello “diverso” dal Truceklan. Sono un outsider perché mi piaceva cazzeggiare con loro e fare la cosa nostra e anche a fare la roba mia. Vedermela con me stesso, fare le mie canzoni, perché avevo anche quel lato lì e volevo farlo uscire.

Che poi si è visto con il tempo, che anche quella cosa lì, con un filone diverso, ha avuto un suo seguito. Ci sono pischelli che sono nati ascoltando quella roba, con quel genere di testi un po’ più incasinati come i miei e ho avuto bei riscontri. Gente che prima di diventare famosa mi diceva, “Sai Gemello, io ho quella canzone lì che mi ha dato tanto”. Io a mia volta ascoltando loro prendo delle cose. C’è sempre una sorta di dare e avere, una sorta di chioccia. Come lo sono stati con me i Cor Veleno o i Colle Der Fomento o la scena americana, viceversa è un dare e avere.

Di base non mi reputo uno diverso dal resto del Truceklan. Io sono sempre loro, però ho anche quest’altro lato che mi piaceva far emergere. Mi sembrava forzato continuare a farlo da solo, perché poi il “Capitano del Brutal” era Emanuele Noyz. Io ho sempre portato avanti la cosa mia, senza scordarmi quanto era divertente farlo. Quindi facciamo ancora i pezzi che adesso usciranno: Zombie 3, giocare a fare i pezzi incazzati con Mostro su una base di Sine “tran-tran-tran”, a fare le rime un po’ in inglese un po’ in italiano, poi continuo a fare le cose mie. Insomma, tutto quello che sono io. Il mio passato, il mio presente, il mio futuro che non rinfaccerò mai. Sarò incasinato, sicuramente, ma sono così».

Quindi possiamo sperare di rivedere su un palco o su un disco il Truceklan al completo?

 «Mah sì, mai dire mai! Queste cose qua di business ce le hanno proposte mille volte: vi paghiamo il tour etc., ma se poi tra tutti noi, non c’è quel feeling basta che uno sia un po’ strano e non ci va a nessuno di farlo senza di lui. E poi siamo presi dai nostri cazzi, dal nostro lavoro, singoli, non è che ci sia tutto sto tempo. Poi le cose belle succedono, non si sa mai…»

Si, infatti immaginavo… Ma siete in buoni rapporti tra di voi?

«Sì, sì, certo, hai voglia! Però poi lavorare insieme è un’altra cosa. Però sai, quelle cose là, sono diventate culto perché non avevamo deciso di farle. Mettersi per forza a riunire la banda, fare una cosa forzata, alla fine rompe i coglioni, anche se poi ci si diverte a beccarsi. Se succede, è perché deve succedere»

Volevo chiederti un’altra cosa sul disco nuovo: visti i featuring, in questo disco come anche in altri progetti precedenti, vediamo una prevalenza di artisti di Roma. È una cosa mirata per l’importanza della città di Roma?

«In realtà è abbastanza semplice. È che per fare i featuring devi uscire con loro. Quindi bere una cosa, uscire assieme, ascoltare le loro cose, loro sentono le mie. Con sto cazzo di Covid, io non potevo andare a Milano o mandare il materiale. Io avrei anche voluto fare le canzoni con Marietto, con Tedua o con altri. Però se loro stanno a Milano o a Genova o dove cazzo stanno, io non posso andarci. Devo mandargli un’e-mail con la canzone, lui mi deve mandare indietro la strofa… Non viene la stessa cosa. Non è quello che voglio. A me piace poi che il ricordo della traccia sia una cosa di contatto che abbiamo fatto insieme.

Quindi di base, stando a Roma, ci siamo beccati con gente di Roma. Stiamo a Roma e facciamo tra di noi. Quando si potrà, andare in giro, mi piacerà anche sperimentare cose con altri! Questa disco è una barchetta, che non poteva uscire dalle boe con questo Covid, in cui abbiamo fatto salire a bordo quelli che stavano qua in zona e non sono potuto andare più avanti. Ma non perché io volessi la mia squadra, il mio team tipo Hunger Games. Siamo dovuti stare un po’ limitati per questo. Però c’è il futuro e spero che la barchetta possa andare oltre le boe e divertirmi anche con altri».

E chi sono gli artisti del resto d’Italia con cui ti piacerebbe collaborare o qualcuno giovane che ti piace?

«Io trovo brillanti un po’ tutti. Poi alcuni me li ascolto di più, altri di meno. Io sono ancora totalmente preso dalla musica e vado in fissa con i dischi che ascolto. Anche dei meno giovani: mi ascolto il disco di Marra, il disco di Guè che sono dei pilastri. Se dovessi andare a Milano uscirei con tutti, con molti sono già uscito: con Rkomi, con Tedua… che sono poi tutti amici. Mi piacciono da morire ancora quelli che hanno fatto la storia. Ancora oggi, quanto cazzo spaccano i dischi della gente senior. Perché? Perché hanno fatto il Vietnam, perché hanno dei super contenuti, perché anche se ti leggono la lista della spesa spaccano il culo. Quindi applausi. Ma è proprio la loro voce, che ce l’hai dentro e te la ricordi. Come la Volvo di mio padre, sotto casa quando mi veniva a prendere. Io ancora adesso se sento il rumore di una Volvo penso sia mio padre. Sono cose che hai dentro, nel cervello, che ti hanno cresciuto».

A fianco ai nomi più mainstream tipo Coez, Gemitaiz, Carl Brave, Ketama, Franco126, che sono più famosi anche per il pubblico del rap, ci sono comunque altri artisti, magari non altrettanto noti agli ascoltatori della scena hip-hop italiana: i Complemento Oggetto, Kinder Garten, Esseho, Holden… come li hai conosciuti?

«Sono artisti un po’ diversi, alcuni conosciuti tramite Thaurus, altri Bombadischi… È sempre gente che ho conosciuto e che mi piaceva da morire la prospettiva loro: come cantanti, come musicisti, come attitudine e come amici. Sempre con la metafora della barchetta ci siamo trovati a sentire delle cose. E siamo andati in fissa. Poi ci siamo beccati e ci siamo detti: “figo, sto pezzo facciamolo assieme!” Mi piace così. Non voglio fare lo scouting. Siamo noi, siamo amici, chi è arrivato dopo chi è arrivato prima. Non ho mai dovuto pensare se scegliere uno o scegliere un altro. È nato così. Come sedersi al banco a scuola con una persona con cui hai parlato a ricreazione. Non la conosci, ci hai parlato ma non sai niente della sua storia. Sai che è una brava persona, che ti piace professionalmente la musica che fanno e basta. Follower o non-follower non mi interessa. Mi piace, abbiamo gli stessi gusti musicali su una serie di cose. Le canzoni che mi hanno dato spaccavano e le ho volute inserire nel disco e lavorarci insieme».

Il tempo a nostra disposizione ormai è finito. Un’altra domandina al volo, una curiosità: In The Panchine 2 lo vedremo mai in vinile?

«Eh cazzo… Sai, che noi siamo 4 disadattati, dobbiamo ancora trovare le cose e vedere un attimo di organizzarci. Però perché no, Ci dobbiamo provare! È che sai, adesso con i vinili in Italia, occorre aspettare 6 mesi per averli. Però, tempo permettendo faremo uscire tutte le cose storiche, perché no!»

Grazie mille a Gemello per il tempo a noi dedicato con questa intervista: non ci resta che aspettare venerdì 21, per godere insieme del nuovo disco di Gemello: La Quiete!

Nel frattempo facciamo un ripasso con il disco scorso!