Pablonorex ci spiega L’insostenibile Leggerezza Del Rapper

PABLONOREX

È disponibile sulle principali piattaforme di streaming  L’insostenibile Leggerezza Del Rapper, il nuovo album del rapper italo-uruguayo PABLONOREX.

Il disco è stato realizzato per La CROCE – etichetta che fa parte di Right Combo Mastas’ Entertainment – ed è distribuito da Believe.

Da un libro a un disco: ecco L’insostenibile Leggerezza Del Rapper di Pablonorex

Partendo da un’opera di Milan Kundera, scrittore, poeta, saggista e drammaturgo francese di origine cecoslovacca che ci ha lasciati lo scorso anno, Pablonorex ha dato vita a un album originale e studiato in ogni suo dettaglio, a partire dal concept.

Siamo in un momento storico in cui, nonostante il successo che sta ottenendo rispetto al passato, la figura del rapper in Italia non è ancora definita del tutto. C’è – e probabilmente sempre ci sarà – molta confusione al riguardo. Pablo ha voluto contestualizzarla proprio all’interno della nostra società, mischiando varie influenze musicali e chiamando con sé alcuni ospiti: Drimer, Ciopi, Eta Freeghy, Scream, Lukas Fronza, Lord Hazy, Corvo Rupert e DJ Slego.

Per saperne di più, gli abbiamo fatto qualche domanda:

Il titolo del tuo nuovo album richiama chiaramente il romanzo di Milan Kundera. Qual è stata l’ispirazione dietro questa scelta di titolo e in che modo si riflette nel contenuto e nel messaggio del tuo lavoro?

«Il richiamo è sicuramente quello del libro di Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, e in un certo senso il romanzo stesso è stato d’ispirazione. Cercavo il modo per legare una serie di argomenti che con Mirko (ETA FREEGHY) volevamo trattare, ma non mi andava di buttare giù pezzi tanto per fare scrittura fine a se stessa unendoli solo col titolo. Avevamo anche raccolto una serie di beat da vari produttori per capire che direzione prendere musicalmente, ma senza trovare una quadra. In quel periodo, durante i preparativi di un trasloco, mi è passato per le mani il libro di Kundera che avevo letto anni prima. Non ricordandolo perfettamente l’ho sfogliato per cercare di recuperarne il ricordo. Già vedendo la legenda e i titoli dei capitoli mi è tornato alla mente un pensiero che avevo avuto anni prima, cioè che togliendo dalla legenda il primo e il secondo capitolo (che poi si ripetono) sembra di leggere dei titoli di canzoni, come fosse la tracklist di un disco. Ho provato a vedere se portava a qualcosa e quindi l’ho riletto nei giorni successivi e ho cercato in internet trattati e approfondimenti. Ho trovato nel libro dei punti di contatto con alcune idee che avevo in testa, per esempio la tendenza dei personaggi all’autoanalisi critica che mi è più che familiare come artista; la storia d’amore ( o le…) complicata sia dalle personalità dei protagonisti, che dal contesto politico-sociale mi ricordava molto del rapporto che spesso i rapper (underground soprattutto, ma non solo) hanno con la propria musica. Non volevo fare un trattato sui rapper dall’alto di un piedistallo, però avevo voglia di approfondire la loro (nostra) parte umana come se il disco effettivamente lo fosse. La struttura di romanzo-saggio usata da Kundera mi è sembrata un approccio interessante. Mi ha permesso di distaccarmi dal classico modo di concepire un disco Hip-Hop senza allontanarmi dalla freschezza del linguaggio diretto che il rap ha per nascita. Credo mi abbia permesso di dare un concept di fondo ben definito e una struttura che desse coerenza al progetto, lasciando al contempo una certa libertà nell’avvicinare temi teoricamente distanti tra loro».

L’album è definito un concept album che esplora la dualità dell’uomo dietro l’artista. Qual è stata la tua visione nel creare questo lavoro e quali sfide hai incontrato nel portare avanti questo tema attraverso la tua musica?

«La sfida principale è stata trovare il filo conduttore di tutto e poi scegliere quali aspetti caratteriali ed emotivi mettere in risalto dell’uomo e dell’artista per dare una panoramica abbastanza ampia dell’universo in continuo fermento che c’è in noi, senza dare l’impressione di saltare palo in frasca e non avere una direzione. Oltre alla dualità uomo/artista ho cercato di collocare il rapper nella società e di dare a quest’ultima la possibilità di capirlo un po’ di più. Dietro alla maschera da rapper (o a volte da star) si cela sempre una persona. Come tale unica. Partendo dal concetto che non può esistere un individuo uguale all’altro, non dovrebbe nemmeno poter esistere un rapper uguale all’altro, o un rap stesso uguale all’altro. Questa società invece ci sta portando sempre di più alla standardizzazione e portando dei modelli da seguire (anche nella nostra musica) che siano standard perché quelli funzionano. Vorrei capire, funzionano per chi? Non certo per l’umanità delle persone. Per quanto riguarda la musica non è funzionale per la crescita degli artisti né tantomeno del pubblico che li ascolta. Se poi parliamo di rap è un controsenso standardizzarsi. Ci sta seguire un filone del rap che sentiamo vicino o ci rappresenta, ma non fotocopiarlo. La fotta dovrebbe portarti a farlo tuo ed evolverlo a modo tuo, plasmarlo, non farti plasmare. Dovremmo avere la forza di far uscire il nostro carattere e il nostro vissuto, per questo motivo ho sentito l’esigenza di scavare nell’animo dei rapper. La nostra forza è proprio quell’insostenibile leggerezza dell’essere: umano, persona, rapper. Finora il mercato ha puntato molto verso una direzione fotocopia/figurina, giustamente per stare nel gioco molti hanno dovuto adeguarsi (è anche più facile) e c’è da dire che anni fa era l’unica piccola speranza di emergere con la nostra musica. Se ci pensate non tutti si sono standardizzati, soprattutto non tutti quelli che ora sono mainstream. C’è chi di che di gavetta ne ha fatta tanta e ingoiato grossi rospi ma che ora sente la libertà di fare le cose come avrebbe sempre voluto. Loro hanno una grossa responsabilità, ma non vanno lasciati soli. Ognuno di noi può fare la sua parte. Credo che il momento storico richieda il nostro intervento, il momento lo permette. Forse è ora di riprenderci una credibilità come artisti e la libertà di essere diversi uno dall’altro e non essere etichettati da “uanagana” tutti uguali che dicono le stesse cose, nello stesso modo. Il parallelismo col momento storico della nostra società è abbastanza facile, per attuare dei cambiamenti la spinta deve venire dalla base».

Ci sono diverse influenze musicali nel tuo lavoro, tra cui blues, jazz e funk. In che modo credi che queste influenze abbiano arricchito il tuo sound e come le hai integrate nel contesto del rap, diciamo, più classico?

«Creo che se si parla di rap classico non si possa prescindere dal citare blues, jazz e funk. Campionare questi generi musicali è un fatto culturale nell’hip hop, le influenze di queste culture musicali sono state fondamentali per la nascita e la crescita dello stesso e di conseguenza anche del rap. L’idea musicale del disco è comunque sempre stata quella di partire da un gusto classico e cercare di evolverlo. È il motivo per cui abbiamo cercato beat da vari produttori per trovare il giusto tappeto su cui creare e adagiare i testi. Più o meno nello stesso periodo in cui mi è capitato di ritrovare il libro di Kundera ed esplorarlo ci erano arrivati dei beat da Menevolt e ci erano piaciuti subito, tanto da iniziare a buttare giù qualcosa su uno di essi e chiedergliene altri. Avuta l’idea del concept è stato naturale pensare di lavorare solo con lui per dare una coerenza di suono al progetto. La sua disponibilità nel lavorarli insieme e di inserire delle cose suonate ad hoc unite al suo gusto nel produrre ha poi giocato una chiave di svolta fondamentale».

Le collaborazioni sono un elemento significativo nel tuo nuovo album, coinvolgendo una varietà di artisti. Come hai selezionato i tuoi collaboratori e in che modo pensi che abbiano arricchito e arricchiranno il tuo percorso musicale?

«Collaborare e confrontarsi con gli altri è molto importante per crescere ed evolversi, secondo me il confronto è fondamentale nella musica come nella vita, stimola e arricchisce, soprattutto quando è pulito, quando trovi chi ti dà la sua opinione o il suo punto di vista senza maschere, secondi fini, se viene fatto in modo sincero senza la pretesa di farti cambiare opinione Ho voluto collaborare con artisti di cui ho grande stima, però per me è fondamentale la persona. Ho cercato quelli con cui avevo già un rapporto stretto sia musicalmente che personalmente o con cui volevo approfondirlo. Il disco è molto personale e servivano persone che si mettessero in gioco, non che venissero a fare semplicemente un featuring, ma che creassero una canzone assieme a me. Per ogni canzone serviva quella persona, quella penna, quella sensibilità ed esperienza. Ognuno di loro ha messo un tassello fondamentale per la realizzazione del disco e di questo li ringrazio infinitamente. Ne approfitto ma permettimi di citarli tutti da ETA FREEGHY, Lord Hazy, Ciopi, Drimer, Scream come rapper, a dj Slego per gli scratch nel finale de L’insostenibile leggerezza del rapper, Lukas Fronza (Dj Lucas) per la strofa finale prodotta e suonata con la tromba ne L’Oblio a Corvo Rupert che ne Il Retaggio ha intrecciato la sua chitarra con le strofe, sottolineato il ritornello e performato un finale ad hoc per la canzone e per l’album stesso. Avevo in mente di collaborare con altri, ma non c’è stato tempo e modo o non avevo il pezzo giusto in cui chiamarli a partecipare. Ci sono altri artisti che già conosco bene personalmente e che vorrei arricchissero nel prossimo futuro il mio percorso musicale. Ad esempio mi spiace molto non avere nel disco Ares Adami per citartene uno, ma rimedieremo 😉 ; con Zampa, Jap e Paggio siamo amici da tanto e abbiamo già collaborato spesso negli anni e credo che sarebbe il momento di rifarlo; sicuramente aggiungerei OTHELLOMAN che mi ha seguito e mi sta supportando pazientemente in tutto il percorso di uscita e promozione e che ha creduto in questo progetto da quando gli ho fatto sentire la prima prova di master, con lui è dai tempi di NETCREW che non collaboro in una canzone, ma anche qua c’è da rimediare. Vorrei collaborare e conoscere vari artisti di qui in avanti, oltre a questi citati. Ho ancora tanta voglia di musica, vera, schietta e fatta bene, se qualcun altro sente questa esigenza e vuole farmi un fischio, parliamone…»

Come credi che le tue radici culturali abbiano plasmato il tuo approccio artistico e il tuo stile musicale?”

«Credo lo abbiano fatto ma non direttamente. Sono nato in Uruguay ma quando ci siamo trasferiti in Italia ero molto piccolo. Sicuramente mi sono trovato fin dall’infanzia sempre a metà tra due paesi e le loro culture, mai del tutto in linea da nessuna parte. Credo di aver cercato da sempre inconsciamente di crearmi delle radici. La musica rap, ma soprattutto avvicinarmi alla cultura hip hop, mi ha dato un senso di appartenenza che mi ha aiutato piano piano a prendere sicurezza, a creare dei legami che tuttora sono indissolubili e durevoli negli anni. Quella grande famiglia che gli altri avevano e che per me era distante, e incolpevolmente assente, me ne hanno fatta creare una tutta mia, anche se non fatta di legami di sangue; ho trovato il mio spazio, un luogo in cui nessuno poteva permettersi di dirmi che io fossi forestiero (“foresto” come si dice in dialetto da ‘ste parti). Da lì, un pezzo alla volta si è andato ricomponendo il mio puzzle fino a trovare una certa serenità. Ci sono voluti anni, sia chiaro, e non con grandi batoste, ma ora so chi sono, da dove vengo e dove voglio andare, che non è poco. Crescendo a metà fra due mondi poi in realtà si finisce per avere una visione più ampia della vita e questo mi ha aiutato e mi aiuta tuttora, non è solo un ostacolo, è una peculiarità che ho sempre sfruttato. Sentivo e sento forte il legame con l’Uruguay e lo testimonia la garra con cui affronto le cose, anche se qua in Trentino non sempre è stata presa nel verso giusto. Allo stesso tempo adoro Rovereto e viverci, crescere in un posto a misura d’uomo aiuta se sai sfruttarlo come campo base da cui partire a scalare e per tornare a riposare dopo le fatiche della salita. Anche la provincia hai i suoi lati positivi 🙂 . Tutto questo inevitabilmente si trasmette nel modo di affrontare la vita e di conseguenza plasma anche il lato artistico. Non ho mai voluto somigliare a qualcuno, ma ho sempre cercato la mia identità anche musicalmente, il modo di distinguermi. Il nome della nostra crew, Altropianeta, nasce proprio dal concetto di sentirsi su un pianeta diverso da quello degli altri e quindi affrontare le cose in modo differente. Non l’ho inventato io ma Ega della Zonablu, ma mi ci sono sempre rispecchiato e ci sono molto legato».

Grazie a Pablonorex per queste belle risposte, tanto argomentate e approfondite quanto rare in questa tipologia di contenuti..

Potete ascoltare il suo ultimo album, L’insostenibile leggerezza del rapper, al link di seguito: