Il valore della cultura Hip-Hop nella break dance: ce lo racconta MX

MX BREAK DANCE

Dopo Bboy Snap, ho fatto quattro chiacchiere con MX, un amico, una persona che mi ha stimolato a crescere artisticamente, ha dimostrato di poter trasformare una passione in un lavoro, ha viaggiato per il mondo, ha vinto di tutto e nonostante questo resta una delle persone più umili che conosca.

Buona lettura!

La nostra intervista a MX

Che cosa è cambiato da quando hai iniziato ad oggi? E non parlo dell’evoluzione dei passi in se ma dell’approccio alla danza delle nuove generazioni…

«Ad oggi è cambiato molto, posso dire che è praticamente tutto diverso e ci sono ovviamente dei pro e dei contro. Il cambiamento più significativo è che quando io ho iniziato, quando io ero ragazzino, ci si sentiva parte di una grande famiglia perché la danza Hip Hop, il breaking, la cultura Hip Hop non era di massa, non era di moda e quindi ci si conosceva un po’ tutti, ci si sentiva uniti, ci si sentiva uniti dalla stessa energia ed era un modo di comunicare con chi aveva la tua stessa passione. A quei tempi si era considerati dei pazzi, girare sulla testa, ballare in quel modo, fare quello che facevamo e quindi se incontravi qualcuno che aveva la tua stessa passione ti sentivi legato in qualche modo, come se fosse parte della famiglia. Adesso l’approccio è diverso, questo senso di famiglia si è perso e soprattutto i ragazzi di oggi possono accedere ed imparare tantissimo in poco tempo, il livello tecnico si alzato tantissimo, ma allo stesso tempo sono meno attirati dal lato culturale, c’è meno propensione a scoprire il valore della cultura che c’è dietro alla danza, ai passi e soprattutto al capire le altre arti che fanno parte dell’Hip Hop. Oggi è tutto molto settorializzato, chi balla pensa solo al proprio stile. Siamo arrivati al punto che molti ballerini pensano al proprio stile senza sapere niente degli altri stili di danza. C’è chi balla Hip Hop e magari sa poco niente di breaking, che è assurdo perché il breaking è la prima danza Hip Hop. Ma ancora meno di popping locking e tutto quello che rientra sotto l’ombrello della street dance. Come dicevo, c’è poca propensione a scoprire la cultura Hip Hop. Di contro invece si è alzato di molto il livello della danza, ci sono molte più informazioni, è tutto più veloce, ci sono molte più possibilità di imparare e soprattutto ci sono molte più possibilità lavorative. Ai miei tempi era impensabile, tutto era molto più lento e per per accedere a certe informazioni passavano mesi se non addirittura anni».

In molti siamo riusciti a trasformare una passione in un lavoro, lo rifaresti?

«Questa è una bellissima domanda. Quando iniziai ad allenarmi seriamente, quindi parliamo di metà anni 90, era impensabile vivere di danza hip hop intesa come Breaking o danza Hip Hop in generale. I ballerini professionisti erano ballerini con un background di danze accademiche. Erano loro a lavorare in tv, in spettacoli teatrali, in musical. Non c’erano esempi di ballerini professionisti provenienti dalla strada, dalla cultura Hip Hop. Io feci di tutto per far si che la mia passione si trasformasse in un lavoro, andando contro familiari, parenti ed amici. Ma con tanta determinazione e tanto allenamento accadde, complice il fatto che stessero cambiando le cose. Mi spiego meglio. L’Italia ha sempre guardato ciò che succedeva in America, li si accorsero che il breaking e l’hip hop potevano essere inseriti in spettacoli, in videoclip, in musical o a teatro. La mia generazione fu fortunata a cavalcare una moda che stava nascendo. Andammo a fare audizioni, provini per poter lavorare in musical o TV. Nel 2001 la mia passione diventò il mio lavoro. Furano anni di grande esperienza che non rinnego assolutamente. Mi permisero di viaggiare per il mondo, di conoscere altri ballerini, professionisti, altri stili di danza, soprattutto quelle accademiche, di apprendere il modo di lavorare dei coreografi e dei direttori creativi e ringrazio me stesso perchè ho fatto tutto questo con molta curiosità, ciò mi ha permesso di ampliare il mio background e di portare il mio stile in quei contesti. Dopo tanti anni, parlo del mio punto di vista, sentivo che c’era qualcosa da cambiare nella mia vita. Da tre anni a questa parte, dalla pandemia, ho fatto in modo che la danza non fosse la mia unica fonte di sostentamento, mi ero stancato delle dinamiche lavorative della danza. Ho amici e colleghi che lavorano a tempo pieno in questi contesti e sono contenti di farlo, io personalmente mi sono stancato, come posso dire, mi sono accorto che il più delle volte questi lavori ti allontanano dall’arte. Ovviamente e giustamente, da una parte, se una cosa è commerciale, bisogna avere a che fare con i numeri, con i soldi e purtroppo quando si guarda questo di solito ci si allontana dal lato artistico. Quindi io in questo momento della mia vita ho voglia di ballare per me, di tornare a ballare ed essere creativo come quando ero un ragazzino e tutto questo non era ancora il mio lavoro. A livello lavorativo ora scelgo solo cose che mi interessano e mi fanno star bene. Non scendere più a compromessi. Lavorando sul mio progetto SUOS, il mio brand di abbigliamento street wear, mi ha portato ad acquisire skills nuove, una tra queste il marketing. Grazie a questo ho iniziato a lavorare per l’ufficio marketing di ATIPICI, che è una catena di negozi street wear che conta una ventina di punti vendita».

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Double Struggle ha vinto di tutto: qual è il ricordo più importante che hai con loro?

«Ti direi proprio le origini. Double Struggle è nata da un viaggio a New York con Sparta. Avevo deciso di fare un viaggio, di stare tre mesi a New York, per farmi forse l’esperienza artistica più bella della mia vita. Quando decidemmo di dare vita a questa crew per noi non era importante lo stile di danza dei membri, ma era importante l’attitudine, la mentalità. È sempre stata una crew di ballerini provenienti da stili differenti: dal breaking, dall’Hip Hop, ma anche popping and locking soprattutto, dall’house, insomma non importava cosa facevi, ma come lo facevi. Tornammo da New York ispiratissimi e gasatissimi con un bagaglio di esperienze incredibili, dai block party, agli allenamenti a Brooklyn con i Bboys, alle serate House, ai concerti. Tornammo carichissimi con l’intenzione di coinvolgere altri ballerini che stimavamo e che comunque erano nostri amici. Questo è uno dei momenti più belli per me. Ovviamente abbiamo fatto negli anni una valanga di esperienze, mille viaggi, tanti momenti di vita vissuti assieme. Dalle Jam più underground, ai palchi mainstream di MTV, della Rai, di MediaSet, dalle cantine al Festival di Sanremo. La cosa più bella è che abbiamo vissuto tutto questo assieme. Siamo già arrivati alla seconda generazione, ci sono ragazzi giovani, dai 20-27 anni, che rappresentano la nuova generazione dei Double Struggle. La vecchia generazione ha praticamente superato i 40 anni, c’è una grande differenza di età, alcuni potrebbero essere veramente nostri figli, ma la cosa bella è che ci ispiriamo a vicenda. Sperando che un domani loro tramandino i valori della crew».

Quando ti ho conosciuto ballavi solo breaking, si diceva: “Lui è un BBoy!”. Poco dopo hai iniziato a ballare anche Hip Hop e Riky Rock, un giorno ad una battle dove eri in giuria, disse: “Master non è un Bboy, è un artista, chiamarlo Bboy è riduttivo”. Se non avessi iniziato a ballare Hip Hop credi che avresti ottenuto le stesse cose?

«Ringrazio Riky Rock che è uno dei miei migliori amici. In realtà io mi sono sempre sentito un bboy come mentalità, come attitudine. Negli anni 90 quando mi innamorai nella cultura Hip Hop e la definizione Bboy veniva utilizzata anche per chi aveva una mentalità Hip Hop, non solo per chi ballava. Non era raro sentire nella canzoni MC definirsi bboy, stessa cosa per dj o writer: un esempio nostrano l album di Ice One si è chiamato Bboy Maniaco. Per me ballare prima Breaking e poi Hip Hop dance è stata un po’ un’evoluzione naturale, ho sempre amato il funk e i breaks ma ho anche sempre amato la musica Hip Hop e quindi l’evoluzione è stata naturale. Amare la musica Hip Hop è stato il motivo per cui mi sono appassionato anche della danza Hip Hop. Tu mi chiedi se avessi ottenuto le stesse cose. Non lo so, ma sicuramente anche qua c’è stato un allineamento di astri. Sono la terza generazione per quanto riguarda il breaking ma la prima di Hip Hop dance come lo intendiamo noi oggi. Prima della mia generazione di Hip Hop dance in Italia c’era un’altra generazione di ballerini, di Electric Boogie molto avanti per quei tempi, parliamo degli anni 80 e parliamo di una generazione di ballerini che si spiravano a ciò che vedevano nei film americani e devo dire che in Italia c’era un ottimo livello. L’Electric Boogie è stato un po’ l’anello di congiunzione tra il breaking e l’Hip Hop dance, questo anche in America. A New York, i ragazzi copiavano ciò che vedevano al soul-train, dagli Electric Bugaloos che ballavano popping, ma non avendo nessun tipo di conoscenza, ripetevano i movimenti sbagliando, facendo hitting con le spalle, cominciando a fare wave and hit, mantenendo il rocking del toprock, sopra la musica electro-funk. Capo su tutti, Afrika Bambaataa, che era proprio l’autore dell’evoluzione. Quindi a New York per una decina di anni prende forma questo stile di danza chiamato poi Electric Boogie. Musicalmente, appunto tra il Breaks è la musica Hip Hop, c’è l’electro-funk e l’electric boogie, poi il tutto diventa Hip Hop. Il fatto di essere stato tra i primi in Italia ad inizio anni 2000 ha aiutato anche a livello lavorativo, perchè se qualcuno aveva bisogno di ballerini di Hip Hop chiamava noi. Il fatto che io venissi dal Breaking mi ha aiutato a creare un mio stile che comprendesse anche la parte a terra, io ho semplicemente preso le basi del Breaking e inserite nella mia danza Hip Hop secondo la mia visione. Questo mi ha aiutato sicuramente dal lato artistico, facendo in modo di essere riconoscibile. Credo che quindi se non avessi iniziato a ballare Hip Hop non avrei ottenuto le stesse cose».

Hai una famiglia, un bimbo stupendo, una moglie un brand di abbigliamento, corsi di danza, organizzi eventi…se potessi tornare indietro nel tempo cosa cambieresti del tuo percorso.

«Guarda non cambierei niente perchè, quando ti metti in gioco, quando esci dalla tua zona di comfort e provi a fare qualcosa di nuovo sicuramente, a prescindere da come andrà, imparerai qualcosa di nuovo. L’esperienza è una cosa fondamentale, ti permette di ampliare conoscenze, skillz, tutte cose utilissime. Ciò che ho appreso nel mondo dello street wear ha influenzato il mio mondo della danza, della comunicazione, diciamo che è tutta un’energia che cambia forma, ma è sempre la stessa energia, una cosa influenza un altra. Il mio approccio alle mie varie attività è sempre stato uguale, con la stessa mentalità, sia nell’organizzare un evento che per il mio brand SUOS. Conosco altri grandi professionisti che provengono dalla nostra cultura Hip Hop: beh, diciamo che loro sono riconoscibili e diversi da tutto quello che c’è in giro. Mi accorgo di chi arriva da questo campo, perchè se anche fanno un lavoro distante dalla cultura hanno la passione, la stessa fame la stessa energia che caratterizza un Bboy o una Bgirl. Voglio approfittarne per fare i props alla mia famiglia, sono grato di avere un bimbo cosi meraviglioso ed una moglie cosi fantastica. Ne sono davvero grato. Detto questo non cambierei nulla del mio percorso».

MX break dance hip hop dance

So che sei una persona sempre alla ricerca: cosi ci possiamo aspettare da te nei prossimi mesi?

«Ci sono diversi progetti che ho in mente, un paio dovrei realizzarli davvero. In primis con SUOS, vorrei che diventasse più di un semplice brand di abbigliamento, ma che fosse un veicolo per trasmettere i bellissimi valori della danza Hip Hop o comunque della Street Dance. Che sia ispirazionale, che insegni ai ragazzi a trasformare il negativo in positivo e quindi a dare sfogo alla propria creatività e alla loro espressione tramite la danza. Vorrei organizzare eventi con lo scopo di far crescere la scena e di comunicare sempre più questi valori, non solo online ma anche offline, di insegnare non tanto la danza perchè ci sono già tantissime scuole di danza e bravissimi insegnanti, ma cercare di trasmettere un certo tipo di mind set per far si di ottenere risultati tramite l’impegno, il sudore e far capire l’importanza di allenarsi per poter ottenere risultati a prescindere dal tuo settore e dalla tua passione. Vorrei che SUOS non fosse appunto solo un brand di abbigliamento ma che fosse un punto di riferimento e un mezzo per comunicare questi valori. Mi rendo conto che è una sfida ardua, ci vorrà del tempo, ma sono sicuro che farà la differenza».

Hai voglia di dare un consiglio a chi ti sta leggendo e vorrebbe iniziare un percorso con la danza?

«Mi sento di dare un paio di consigli. Uno a chi ha appena iniziato, vorrei dire che nella vita ci sono già tanti problemi, la vita ci mette sempre alla prova con dei momenti critici: ecco la danza deve essere un momento di divertimento di sfogo di espressione di piacere, non deve essere un motivo di ansia, soprattutto ansia da prestazione o paragone con altri ballerini. É un arte che va fatta bene, con impegno ma deve essere comunque qualcosa di divertente, piacevole: uno perchè si apprende meglio e due perchè deve essere una forma di espressione. La sfida è con noi stessi non dobbiamo sentirci giudicati o paragonarci a ballerini più bravi, l’unico paragone che dobbiamo fare è con noi stessi. Un altro consiglio mi sento di darlo a chi balla da più tempo. Non serve solo essere bravi ma è necessario essere differenti, avere uno stile originale, personale unico diverso da tutto ciò che c’è già, perchè se anche tu balli bene, molto bene, ma sei simile a un altro ballerino, ad un altro artista, la gente si ricorderà sempre dell’originale. Mi impegnerei a ricercare qualcosa di mio, valorizzando i pregi che si hanno. Ognuno di noi è fatto da pregi differenti ed è questo che ci rende unici. Puntare su quello e cercare di innalzare quelle qualità e farle diventare il tuo punto di forza».

Come spiego la differenza tra Hip Hop e Breaking?

«Fanno parte della stessa famiglia: il Breaking è come se fosse la mamma e il papa e l’Hip Hop dance il figlio o la figlia. Senza la nascita della cultura Hip Hop non sarebbe nato il Breaking e di conseguenza l’Hip Hop dance. Cosi come un figlio ha delle somiglianze con il papà e la mamma stessa cosa accade per l’Hip Hop dance, ha delle base provenienti dal breaking ma ha anche delle caratteristiche sue. Come capire le caratteristiche differenti? In primis la musica: il Breaking nasce sopra i breaks, l’Hip Hop dance nasce dalla musica Hip Hop. L’Hip Hop dance ha come base principale il rocking e il bounce. Tutto può diventare hip hop mantenendo questa base, tu puoi metterci del popping, del breaking, ma anche afro o quello che vuoi, l’importante è che le “hip hoppizzi”. Il Breaking invece ha un tipo di groove direttamente ispirato al funk, serrato, sono importanti i footwork gli steps e per ovvi motivi musicali l’Hip Hop dance è più rotondo, ha movimenti più allungati e fluidi, questo perchè la musica influenza i movimenti. Sarebbe un errore ballare su un beat di J Dilla con la stessa attitudine di un Bboy. Altra cosa il breaking nasce ai block party come risoluzione per le faide tra gang, quindi la sfida è una componente fondamentale. L’Hip Hop dance nasce nei club, viene dalle danze sociali, quindi si c’è la parte di sfida ma è più un modo per ballare assieme, nel club vai per divertirti per ballare con le persone, la parte aggressiva di solito viene messa da parte e tirata fuori solo in alcuni momenti, non dico che non ci sia la sfida, ma non è la cosa predominante. Direi che queste sono le differenze principali, anche se in 50 anni di hip hop molte cose sono cambiate e bisognerebbe fare un approfondimento molto lungo».

Ringraziamo MX per il tempo dedicatoci.

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