Kaos: l’intervista.

Chi se lo sarebbe mai aspettato di vedere Kaos One su YouTube, in sella a una moto, a raccontare in prima persona alcuni luoghi nascosti dell’Italia ma anche della sua persona: è questo On The Run e ce ne ha parlato lui stesso in un’intervista esclusiva.

Un’ora di chiacchierata dove abbiamo toccato vari argomenti, partendo chiaramente da questo motovlog e arrivando, perfino, a quando ha contribuito a forgiare la scena hip-hop nostrana tra gli anni Ottanta e Novanta. Buona lettura!

Da On The Run agli inizi della sua carriera: l’intervista completa a Kaos One

Imparare a comunicare con il motovlog potrebbe essere un sottotitolo di questa tua nuova esperienza. Già dalla prima puntata, tra l’altro, affermi di non essere mai stato un buon comunicatore. Tolta la musica, infatti, di tue interviste o contenuti simili ne abbiamo avuti pochi. Ho notato comunque molta autoironia durante i vari racconti: si vede che non è una cosa che sei abituato a fare ma mi sembra tu ti sia divertito. Confermi di esserti trovato a tuo agio nel fare questi vlog?

«Sì, perché alla fine ne ho il controllo, dato che registro per delle ore, poi torno a casa e scelgo le parti migliori. Ovviamente c’è tanta roba che scarto, che non mi viene bene. Ogni tanto mi inceppo o qualcuno mi taglia la strada e quindi mi devo interrompere e riprendere il discorso. Faccio quindi una selezione di tutto quello che ho detto e cerco di tirarne fuori il meglio. Però sì, non sono mai stato un grande comunicatore. Non mi ci sento neanche nella musica, sai? Per dirti, se tu hai mai visto qualche mio live noterai che io non è che tra un pezzo e l’altro mi metto molto a parlare. Li faccio tutti abbastanza serrati, uno attaccato all’altro, proprio perché non non ho tanta dimestichezza nel parlare con le persone. Nel corso del tempo anziché migliorarla, questa cosa l’ho forse peggiorata. Me ne sono andato a vivere da solo in campagna, ho sempre meno contatti con la gente e un po’ questa cosa l’ho disimparata. Fare il motovlog mi ha permesso di riprendere questo lato che stavo troppo abbandonando. Alla fine l’essere umano è un animale sociale e io cerco di esserlo in questo modo».

Credi quindi di esserti un po’ sbloccato sotto questo punto di vista grazie a On The Run? Perché appunto la comunicazione, soprattutto nel settore musicale, gioca un ruolo importante, nel bene o nel male, anche con i fan e tu fin dal dall’episodio zero gli chiedi consigli e feedback, rispondi ai lori commenti su YouTube… Ti stai prendendo bene nell’avere un rapporto diretto con i tuoi fan?

«Sì, sì, ci sto provando. Alla fine del primo video l’ho detto che mi sarei impegnato di più ad avere questo dialogo e cerco di mantenere la parola perché penso che sia molto importante anche per me, perché appunto parto con un po’ di di handicap in questa avventura. A partire semplicemente dall’età anagrafica, è un po’ difficile per me rapportarmi con questi strumenti, con questa filosofia dello sharing, del commentare e via dicendo. Però penso che per un progetto del genere sia fondamentale. Poi, appunto, già dalla prima puntata sono arrivati una marea di consigli, di supporto e di spunti di riflessione che io mi sto segnando e nel prossimo giro penso che tirerò fuori. Sebbene sono anni che giro in moto, l’avere dei “passeggeri” per me è nuovo e mi piace quest’idea di avere un rapporto diretto con i fan. Cioè, in realtà avrei potuto averlo anche con la musica, però lì cerco di dire quello che devo dire sopra il beat e aggiungere altro sarebbe un po’ dare delle spiegazioni che non voglio dare: penso che la musica debba parlare per sé stessa. On The Run è proprio un dialogo che voglio avere con la gente e voglio cercare di farlo il più possibile».

Mi confermi, quindi, di averne già registrato un tot di puntate ma sai già che ne farai comunque altre, sfruttando anche i consigli dei tuoi fan?

«Assolutamente. Ci sono ottimi motovlog a cui io mi ispiro e questo è un format che è tanto che è in giro e ha il suo punto di forza nella continuità, nella consistenza e nel progetto a lungo termine. Io On The Run lo vorrei portare avanti più che posso. Ho già registrato un buon numero di puntate, perché ancora sono piuttosto lento e impacciato nella gestione del tutto, perché è un lavoro abbastanza imponente come tempo: c’è da programmare i giri, preparare la strumentazione, andare in moto, tornare, sbobinare tutto, selezionare le parti, montarle, etc. etc.».

E fai tutto da solo, giusto?

«Sì, sotto questo punto di vista faccio tutto da solo. Mi dà una grossa mano Django Music per la promozione e la gestione dei profili social, quelle cose in cui io sono un po’ impedito. La mia volontà è quella di farne uscire uno a settimana ma non sono ancora in grado di fare un giro a settimana, montarlo e farlo uscire subito, per cui mi sono portato avanti con metà stagione e poi cercherò pian pianino di recuperare questo gap diventando sempre più veloce».

La tua compagna di viaggio sarà sempre la tua Harley, immagino: è la tua prima moto o ne hai avute anche altre?

«Io sì, la considero la mia prima moto. Ne ho avuta una da ragazzino ma è durata molto poco, mi sono andato subito a infossare, si è distrutta e da lì in poi sono andato in bici (ride, ndr). Per cui sì, è fondamentalmente la mia prima moto e ce l’ho da una decina d’anni. Ci ho fatto un bel po’ di chilometri però, come ho detto, non avendo un’esperienza pregressa, avendola comunque presa intorno ai quarant’anni, mi manca la cultura della moto, mi manca proprio il background. Non vengo da una famiglia di motociclisti. Nessuno dei miei amici, del mio entourage conosce qualcosa delle moto. Ci tengo a dirlo che non sono un esperto motociclista, sono un semplice amatore. Di vlogger con superbike che fanno delle cose pazzesche ce ne sono e io li seguo, però penso che ci sia posto un po’ per tutti, anche per uno con la concezione della moto come la mia, che è semplicemente turismo. Spero con il tempo di diventare un po’ più bravo ed esperto, alzando di volta in volta l’asticella. In questo ciclo di video che ho realizzato, infatti, all’inizio parto da luoghi vicini a casa, poi pian piano cerco di allontanarmi di più. Per la prossima stagione ho in mente di fare delle cose un po’ più impegnative, vediamo se ci riuscirò…».

Okay ma spero che non ci siano anche in questo mondo i puristi che rompono le palle ai neofiti e tirino pezze al riguardo senza criterio…

«Prima di imbarcarmi in questo viaggio mi sono informato bene e appassionato sui motovlog. Ho visto tutto quello che si poteva vedere o sbirciare su YouTube e poi sono incappato in questi che mi hanno un po’ ispirato, Alcuni hanno dei seguaci molto attivi, sono molto supportati, però c’è anche tutta una fetta di pubblico che farebbe impallidire anche quello hip-hop. È un’attività che ha tantissime sfaccettature, da quello che fa dei giri la domenica a quello che sale sull’Himalaya con l’Enduro. Ci sono tantissimi modi per esprimersi con la moto e poi c’è proprio tutta una serie di affezionati di queste attività che si portano dietro il proprio bagaglio. Un po’ la temo la comunità dei biker, perché c’è tanta gente che fa delle cose mostruose e magari dice “vabbè tu fai dei giretti veramente sotto casa: ma dove vuoi andare?“. Però boh, penso che ci siano anche tantissime persone che magari potrebbero essere invogliati nel vedere una persona come me. Sono consapevole di non essere tanto capace, c’ho pure delle ansie e mi viene ogni tanto un po’ di crisi, perché certe strade, certe robe, non le faccio tanto volentieri perché ho una moto che non è proprio il massimo per andare in determinati posti. Ma magari mi guardano e possono dire: “se ce l’ha fatta lui, ce la fa chiunque, no?».

È bello come in tutti i settori c’è la possibilità che gli appassionati traggano aspetti positivi o comunque utili per la propria vita. Mi sa che li hai tratti anche tu direttamente dalla tua moto: la descrivi come una toccasana, soprattutto nel periodo della pandemia, o quello subito dopo, quando è stata per te una via di fuga…

«Assolutamente. Per me la moto è sempre stata la risposta allo stare in casa, perché il mio lavoro di scrittura è proprio chiudersi e non avere contatti. È concentrarsi tantissimo sui propri obiettivi, anche in maniera abbastanza maniacale, insalubre. Cioè, ci sono dei dischi che mi hanno veramente spezzato per poterli concludere, perché anche in quelle situazioni tendo ad avere un po’ il controllo ossessivo. La moto, invece, mi permetteva di avere questa libertà assoluta, in più mettendoci il vlog di mezzo questa cosa mi prende ancora più tempo, perché appunto quando torno a casa se non devo scrivere di musica, ho un milione di cose da fare, a partire dall’editing. Passo più tempo a editare che a girare in moto e, insomma, mi tiene occupato e per me questa cosa è vitale. Se io non trovo qualcosa in cui avere un punto d’arrivo mi perdo, entro in delle zone d’ombra che oggettivamente non mi portano felicità. E allora On The Run mi tiene veramente sul pezzo, mi impone appunto delle scadenze, degli appuntamenti…».

Avere poi un hobby aggiuntivo, in un luogo che immagino non possa offrire molto come svago come il posto dove hai scelto di vivere tu, penso sia indispensabile. A tal proposito, hai scelto di vivere lontano dalla città, in un paese quasi sperduto. Volevo quindi chiederti: se la tua vita non avesse avuto a che fare con una certa esposizione pubblica e non avessi passato parte di essa viaggiando in giro per i tour, avresti preso comunque una scelta simile?

«Sì, credo di sì, perché in realtà per quanto è tanto che sono in giro e faccio questo lavoro, non è che abbia mai avuto un’esposizione così massiccia da dire “non posso girare per le strade“. Io giro tranquillamente per Bologna, non mi ci caga nessuno e vado tranquillo, non ho una pressione dalla gente o dal mio pubblico. Questa mia scelta non so da cosa sia scaturita: è successa un po’ casualmente e ho trovato una mia dimensione. Mi sono accorto che qui sto bene dopo forse circa un paio d’anni difficili, perché il passaggio dalla grande città a una più piccola non è così immediato e adattarsi alla campagna è un po’ complicato. Credo comunque che questa sia la mia realtà. Non riuscirei a tornare in una grossa città, sarei molto in difficoltà».

Chiaro. E la tua realtà adesso è la moto, assieme all’hip-hop. Sbaglio o al momento, però, c’è poco hip-hop all’interno del tuo motovlog? Eccetto ovviamente i momenti in cui parli della della tua carriera…

«Considera che non è che io mi prepari qualcosa da dire, viene tutto abbastanza spontaneo. Per le prime puntate mi sono concentrato sui luoghi da visitare perché avevo in mente di esplorare soprattutto la zona in cui abito, che offre dei posti molto belli da vedere. Mi interessava all’inizio fare questo tipo di contenuti. Poi ovviamente in mezzo parlo anche delle mie esperienze e della musica. Ci sono più avanti delle puntate in cui l’aspetto della musica sarà predominante. In due/tre puntate vado direttamente ai live in moto e faccio reportage. Per cui la moto è il mezzo che mi porta a fare questi live e durante il viaggio parlo un po’ delle impressioni, delle emozioni e dello stato d’animo che ho mentre vado ad esibirmi e al ritorno uguale. Vorrei fare un po’ una cosa comprensiva di tutto quello che è la mia vita in questo momento. Anche se non avessi le telecamere, andrei comunque a visitare vari luoghi, tant’è che son tutti giri e posti che avevo già visitato, e in più c’è la musica, che spesso si unisce alla moto. Per quanto riguarda quella che ho scelto di usare nei vlog, devi sapere che è frutto di vari tentativi: sono tre/quattro anni che ci provo a fare questi contenuti. Ho più volte resettato tutto quanto e ricominciato da capo per una serie di questioni. Magari poi ne parlerò anche nei video dei vari tentativi falliti: non ero mai contento e ho provato a usare sonorità hip-hop, con basi che magari facevo io o che mi son fatto prestare da amici e colleghi, però non funzionava. Forse perché l’hip-hop è una musica urbana, una musica che porta delle sensazioni di per sé legate al cemento, all’ira, al chiuso. Almeno questa è la mia visione e per certe immagini, secondo me, avevo bisogno di altre sonorità più arrangiate, un po’ più suonate, non urbane…».

Sì, dopotutto il mondo dell’Harley non è solitamente accostato a quello dell’hip-hop. A proposito di musica, se non sbaglio, nella puntata zero di On The Run la definisci un po’ croce e delizia della tua vita e mi ha colpito come affermazione. Vorrei quindi semplicemente chiederti: cosa è stato croce e cosa invece più delizia?

«La musica, come penso qualsiasi altra attività che una persona svolge per gran parte della sua vita, porta con sé due facce della stessa medaglia. Ti porta le soddisfazioni ma ti porta anche altre cose, è inevitabile. In più, andando avanti con l’età, avere un approccio come quello che ho io con la musica, che è molto energetico, dinamico, hardcore, ha un prezzo da pagare e io lo pago appieno, senza sconti. Perciò, la delizia sono le tante soddisfazioni, il riconoscimento, se vuoi anche un benessere finanziario che comunque è relativo. D’altro canto c’è la stanchezza, la consapevolezza di essere sempre più in là con gli anni e sempre meno in salute. In più sì c’è tutta una serie di aspetti psicologici che ho sempre fatto fatica a gestire. Cioè, hai sempre un po’ paura nell’affrontare la gente, il pubblico, di deluderlo, le aspettative diventano sempre più pressanti… È difficile da gestire e io non ti nascondo che nonostante faccio questa cosa da tanto, è diventato un lavoro da una ventina d’anni, prima era solo una grande passione. E quando hai questa ottica, avere una tua filosofia lavorativa di cercare di essere più professionale possibile porta con sé dei prezzi da pagare. Come quando prima di salire sul palco stai male perché non sai se riuscirai a farlo al meglio e, allora, parti con i nervi un po’ logorati e i viaggi cominciano a diventare infiniti. La stanchezza ti porta ad avere anche un atteggiamento mentale sempre un po’ più chiuso e non è facilissimo da gestire in questa parte della carriera».

L’ultimo capitolo della tua carriera musicale è stato Chiodi, per il momento. Cos’è che ti ha lasciato? Non parlo chiaramente di numeri o argomenti puramente legati a quell’aspetto lì. Vorrei sapere cosa ti ha lasciato in termini di sensazioni, emozioni…

«Per me questo disco è stata una sfida perché è nato a cavallo della pandemia. Mi stavo già portando dietro dei problemi e mi ha dato tante soddisfazioni semplicemente perché sono riuscito a farlo. Io non sono la persona giusta per giudicare i miei lavori, non lo voglio fare, credo che spetti alla gente. Io ti posso dire che ci ho messo tutto il bene possibile, avendo paura fin dall’inizio che non fosse sufficiente. Poi è sopraggiunta la pandemia e, insomma, sono riuscito a dimostrarmi che a cinquantadue anni sono ancora in grado di poter fare ancora un lavoro del genere, metterci ancora quello che serve, cioè tutto quello che hai, perché per me è sempre stato così. E poi cosa ti rimane? Niente chiaramente. Una volta che hai dato tutto quanto sei svuotato per un po’ di tempo, sei senza energie, senza più forza, senza più niente da dire. Però sì, sono contento di aver dimostrato di essere ancora in grado di poter gestire un progetto impegnativo come un disco solista. Se un disco lo scrivi e immagini da solo è difficile, ti senti molta responsabilità, anche perché hai una carriera lunga e hai un pubblico che si aspetta molto da te. Allora cerchi di metterci tutto quello che vuoi per non deludere le aspettative».

Chiaro, ti senti vuoto, però magari di sogni ne hai ancora, no? Dopo un album così, dopo tanti anni di carriera, di tour, dopo un motovlog in fase di rodaggio, artisticamente parlando c’è ancora qualcosa che vuoi ottenere o raggiungere? Visto che nel pezzo L’Uomo Dei Sogni affermi che i sogni hanno una data di scadenza.

«È un po’ la summa del discorso che stavamo facendo. Io credo che ogni ogni artista abbia una parabola, ci sono pochi modi gentili di dirlo ma è così. Io credo che il cuore della carriera di un artista sia a due terzi del suo percorso, quando hai ormai passato la fase dell’imparare e dell’accettare e hai quindi imparato, metabolizzato e hai fatto delle riflessioni, guardandoti anche indietro. Secondo me la carriera di un artista se hai dieci/quindici anni di terreno fertile, vanno sfruttati. Io sono oltre quella linea lì, da un bel po’, e non te lo nascondo. Sono in parabola discendente. Quando ho iniziato non era un mestiere, era una passione e la mia intenzione, anche inconsapevole, era l’affermazione, era il dimostrare di essere più bravo degli altri. Oggi invece cerco di lasciare qualcosa di più concreto, di più solido, di più maturo. Cerco di essere lo specchio della mia età e cerco di dare il peso che hanno i miei anni. Tuttavia arriva un momento in cui non ce la fai più, perché hai le cellule cerebrali che si incominciano a deteriorare. Non c’è un cazzo da fare, non sono più quelle di prima e, insomma, non puoi essere sempre in groppa a un toro, prima o poi dovrai scendere, perché il toro è più forte di te».

Il tuo terreno fertile non ha solo superato i quindici anni, li ha raddoppiati, ormai hai più di trent’anni carriera alle spalle.

«Dipende un po’ da tuo punto d’osservazione. Se partiamo da quando cominci a incidere qualcosa sì, perché io ho iniziato negli anni Ottanta, con un percorso nell’hip-hop cominciato anche prima delle registrazioni…».

Hai vissuto quindi più di trent’anni di una cultura che ne ha soli cinquanta, più della metà quindi, e nel corso di questi hai ricevuto attestati di stima di ogni tipo. I più recenti che mi vengono in mente sono quelli di Egreen con il disco Bellissimo oppure Salmo quando hai pubblicato il tuo ultimo album: cosa provi quando li vedi? 

«Ovviamente ne sono orgoglioso, è una roba che ti dà forse più gratificazione di tante altre. Stiamo parlando di artisti eccezionali che hanno portato l’asticella a un livello altissimo che io probabilmente non raggiungerò mai. Questa cosa ti fa davvero star bene, perché dà molto senso anche a quello che hai fatto. È un riconoscimento del tuo lavoro e se lo ottieni da chi è dentro il tuo stesso ambiente ti fa veramente tantissimo bene. Quando poi Egreen mi ha detto del disco, ti giuro, pensavo fosse uno scherzo. Mi si è accapponata la pelle, perché il disco è bellissimo e lui è in una fase della sua evoluzione spaventosa. Queste sono dinamiche che ti danno quelle motivazioni che oggi sono non sono così facili da trovare. Quelli che erano i sogni da ragazzino, io li ho raggiunti due/tre dischi fa: volevo solo riuscire a fare i dischi belli, potenti, che mi permettessero di esprimermi in maniera totalmente libera. Avere ora questi feedback ti dà motivazione per dire “guarda che puoi fare ancora un po’ di più, puoi portare anche tu un po’ più in alto l’asticella“».

E tutto ciò succede all’interno in un’industria rap che negli ultimi anni è esplosa. Nell’esplosione, però, sembra essersi quasi dimenticata dell’underground. Al di là dei discorsi legati al denaro o alle major, la cosa triste è che la maggior parte dei giovani di oggi ignorino totalmente la presenza di un mondo parallelo a quello che loro vedono sui social. Secondo te questo meccanismo sarà irreversibile? O chi avrà interesse nel farlo troverà comunque lungo la strada un certo numero di artisti validi?

«Non lo so. Non tendo mai a fare proiezioni per il futuro, perché lasciano un po’ il tempo che trovano. Non lo so cosa succederà domani, però ti posso dire cosa è successo prima. È successo che un’intera generazione di artisti, secondo me, non è stata supportata da chi aveva l’opportunità per farlo. Intendo media e radio che si sono svegliati nel 2015 scoprendo il rap e ignorando che appunto era una cosa che esisteva già da tanti anni, in maniera anche bella grossa. Adesso non voglio fare i soliti paragoni inconsistenti con gli Stati Uniti, però lì c’è l’Hall Of Fame del Rock ‘n Roll, c’è quella del rap con dei nomi ben precisi. Qui invece si sono dimenticate le origini di questa cosa, si sono dimenticati che esistono dei precursori che hanno portato secondo me la cifra stilistica e hanno lasciato un’eredità. È un po’ triste, perché quando verranno dimenticati totalmente anche personaggi come me o come i miei coetanei, si perderà una parte veramente molto grossa di un’esperienza artistica che io considero molto importante, perché a livello testuale non esiste una musica così completa, variegata e interessante come il rap. La golden age italiana ha delle perle al suo interno, ha letteralmente dei capolavori che non sono riusciti mai a emergere e non è certo un demerito degli artisti. Io ricordo sempre che il disco dei Sangue Misto vendette tremila copie e mi disturba, dai ma com’è possibile? Con tremila copie non ci pagavi neanche le spese dello studio…».

Tempi totalmente diversi. Li ho potuti approfondire di recente leggendo con attenzione il libro Colle der Fomento: Solo amore, dove sono presenti anche alcuni tuoi interventi. Ho trovato interessante vedere appunto come era il mondo in quegli anni, come ci si rapportava anche con i media nazionali e immagino che anche tu provassi riluttanza nel vedere come televisione & co. cercavano di propinare il rap alla gente, snaturandolo…

«In quel momento lì avevo una concezione della musica che era molto di pancia ma poco di testa. Ero un ragazzino, se vuoi anche frustrato, che ci dava dentro di brutto e che voleva solo dimostrare di essere bravo e poco altro. Non ero né una persona né un artista molto maturo e col senno di poi ho anche capito che è sicuramente un talento anche quello di sapersi adattare a un’industria come quella italiana, che ha le sue regole, Noi non ci volevamo adeguare e la differenza sta che appunto alcuni artisti lo hanno fatto e hanno fatto il botto, noi non l’abbiamo fatto e saremo dimenticati (ride, ndr)».

Vabbè dai, dimenticati non credo…

«Ti dirò: io e pochi altri abbiamo avuto la fortuna di poterlo fare ancora. Certo, una fortuna coadiuvata da tanti sacrifici, da tante rinunce ma, ahimè, tantissimi artisti non hanno continuato e si sono dovuti fermare e per me è stata una grossa tristezza. Se vai indietro nella discografia italiana, ci sono tanti posti che non esistono più, tanti artisti che hanno smesso e avrebbero potuto continuare, maturare e diventare dei mostri e lasciare delle cose veramente potenti. È un peccato».

Tempo fa, invece, parlasti di come credi poco nei video musicali, in quanto per loro natura impongono allo spettatore un’interpretazione del brano differente da parte del regista e/o sceneggiatore. Alla luce di questo discorso e anche del fatto che per Chiodi ne hai pubblicati un paio, credi ancora in questo concetto o al contrario, il video potrebbe aiutare a comprendere delle sfumature che altrimenti parte del pubblico distratto non coglierebbe?

«Ho ancora quest’idea. Quando parli, quando usi il linguaggio – che sia una canzone oppure un libro – tu crei delle immagini nella testa della persona che ascolta o legge e ogni testa crea a sua volta una sua visione di quello che tu dai come input. Il video, invece, uniforma questa visione, la rende univoca. Io non è che sono stato critico, mi lasciava solo un po’ perplesso questa scelta di raccontare una storia per immagini, mentre la storia verbale ne raccontava un’altra. Una volta la musica era musica, si ascoltava, punto. Oggi la si guarda, perché se non c’è l’immagine non funziona e non è una critica, è semplicemente un dato di fatto. Quindi ti devi adeguare e anche io ho fatto dei video: alcuni li ho affidati a persone interessate a voler lavorare a questi progetti,  l’ultimo invece ho voluto farlo fondamentalmente io e mi sono fatto aiutare da una regista che lavora nell’industria cinematografica inglese. La parte creativa però è stata mia e l’ho voluto rendere molto didascalico. È stata la prima volta che ho fatto un video che raccontasse per immagini esattamente quello che ho raccontato con le parole. Ad esempio, è stato girato nella stessa stanza senza porte di cui io parlo nella canzone, gli spazi sono gli stessi. È un po’ ridondante come cosa, però mi sono divertito a farlo».

E io mi son divertito un sacco a parlare con te, Kaos. Avrei ancora tante domande ma è da un’ora che stiamo parlando e voglio lasciarti andare. Ti farei solo un’ultima semplicissima domanda che credo sia quella che ti fanno sempre i tuoi fan: stai scrivendo roba nuova?

«Sì, sì, sto cominciando a scrivere qualcosa. Adesso mi confronterò con Craim per cercare di capire che cosa vogliamo fare e quale direzione prendere. In questo momento la testa è proiettata molto sul motovlog, però non ho abbandonato ancora la musica: è una parte integrante della mia vita, forse ancora la parte più grande. Cercherò insomma di barcamenarmi tra le due cose e vediamo se se ci riesco bene».

Lo speriamo tutti.

Artwork in copertina a cura di Mr. Peppe Occhipinti.