La questione degli streaming comprati su Spotify è nota e concreta, ma non basta a spiegare tutto quello che non va nell’industria musicale. Dietro ai numeri gonfiati da bot e servizi a pagamento si nascondono meccanismi più profondi, che influenzano certificazioni, classifiche e la percezione stessa della musica – nel rap e non solo.
Lo scandalo degli streaming comprati su Spotify e l’accusa di e contro Drake
È risaputo che Spotify e le altre piattaforme affrontano un problema legato agli ascolti generati da bot, ma quantificare quanto siano realmente diffusi è quasi impossibile. Alcune stime parlano di un 10% di streaming “falsi”, mentre casi concreti hanno dimostrato come basti caricare una traccia di 30 secondi e lasciarla in loop 24 ore su 24 per ottenere migliaia di dollari in royalties.
Spotify ha dichiarato di investire molto nel contrasto a queste frodi, rimuovendo milioni di brani generati artificialmente e introducendo filtri per evitare che i guadagni finiscano a chi trucca il sistema.
Il tema è tornato al centro del dibattito anche per via di Drake, che ha accusato Spotify e Universal Music Group di aver gonfiato artificialmente gli streaming di Kendrick Lamar, suo rivale storico, con il brano Not Like Us. Secondo quanto emerso da una causa legale, Drake avrebbe sostenuto che UMG avrebbe “pagato o favorito l’uso di bot” per aumentare i numeri di Lamar e condizionare così le classifiche. Spotify ha respinto con forza le accuse, definendole “false” e “speculative”.
Il paradosso? Spotify sta affrontando una nuova class action per avere “chiuso un occhio” sullo “streaming fraudolento su larga scala“. Secondo quanto riportato da più fonti online, la denuncia sostiene che Drake abbia tratto profitto da “miliardi” di streaming falsi e il rapper RBX – cugino di Snoop Dogg – sarebbe parte querelante nel caso.
Non è solo una questione di numeri
Che si tratti di bot, strategie di marketing o sospetti di manipolazione ai vertici, la verità è che gli streaming comprati sono solo la punta dell’iceberg.
Lo si sa da tempo: la tecnica di acquistare ascolti è diffusissima. Basta cercare su Google informazioni sugli streaming comprati su Spotify per rendersi conto di quanti siti lo offrano come servizio. E dopotutto viviamo in un’epoca in cui si compra tutto — follower, like, voti… vuoi non comprarti anche gli streaming?
Ma fosse questo il vero e unico problema. Certo, gli ascolti generano certificazioni e impattano sulle classifiche, ma se dall’altra parte non c’è qualità o almeno quella “ciccia” che fa parlare, i numeri non servono a nulla.
E qui entrano in gioco altri aspetti fondamentali: perché diamo così tanta importanza ai numeri invece che al valore reale dei brani? Perché chi scrive testi impegnati riceve meno riscontro rispetto a chi punta solo a smuovere le classifiche? Perché ci fermiamo sempre all’apparenza, senza cercare di capire cosa c’è davvero sotto? Perché lasciamo che la società si faccia trainare dalle classifiche e dalle opinioni altrui?
Se fossimo più in grado di scegliere con autonomia, senza farci influenzare da ciò che succede online o da quello che dicono determinate persone, forse si tornerebbe a dare più importanza al contenuto che al contorno. Ma purtroppo il declino è già segnato, e pensare a un cambio di rotta sembra difficile.
Eppure una speranza esiste: ci sono persone che pensano ancora con la propria testa e se ne fregano del resto — anche nel rap, anche tra chi magari ha avuto una parentesi più “superficiale” e ora è tornato sui propri passi. Un rap sano, come una società sana, è quindi possibile: dipende solo da quanto ampio vogliamo rendere il raggio d’azione della nostra riflessione.



