L’Odio (La Haine) compie 25 anni: analisi di un film-evento intriso di hip hop

l'odio vincent cassel

Il 31 maggio 1995 usciva in patria L’Odio (La Haine), film francese diventato poi di culto, con l’allora ventinovenne Cassel.

È il 1995: Mathieu Kassovitz, regista transalpino di 28 anni, figlio del cineasta militante ungherese Peter Kassovitz, consegna ai posteri un film diretto come un gancio, potente come il miglior rap, disperato come i tempi che racconta. Parliamo de L’Odio (titolo originale La Haine), vincitore del premio per la miglior regia al festival di Cannes. Narra le vicissitudini di tre emarginati della banlieue parigina: Vinz, bianco, ebreo, interpretato da un Vincent Cassel semplicemente perfetto, grondante rabbia ad ogni piè sospinto, l’arabo imbranato Said e l’afro-francese Hubert, il più riflessivo e controllato della combriccola.

Tutto parte da una notte di scontri tra polizia (i ‘Ps’, come vengono chiamati nel film) e giovani del quartiere periferico di Les Muguets, in seguito al pestaggio subito durante un interrogatorio da un ragazzo di 16 anni, Abdel Ichah, ricoverato in stato di coma in ospedale. Vinz, che ha ritrovato una pistola persa durante i tafferugli, giura che farà fuori uno sbirro se Abdel creperà e il solo Hubert cerca di riportarlo alla ragione, convinto che “l’odio chiama l’odio”.

La narrazione si divide in due parti, la prima ambientata nella periferia e la seconda a Parigi, dove i nostri fuggiranno in attesa che si calmino le acque. Quando il giovane Abdel spira, Vinz è più che mai deciso a vendicarlo; il destino gli presenta davanti l’occasione di ‘seccare’ uno skinhead, impersonato dallo stesso Kassovitz ma Vinz decide alla fine di risparmiarlo. Nel bellissimo finale, sarà però lui stesso a cadere per mano di uno stolto poliziotto mentre quest’ultimo e Hubert incrociano le loro pistole; il film si chiude sul primo piano di Said che chiude gli occhi mentre si odono due spari.

L’Odio è “la storia di una società che precipita”, come si ascolta alla fine dalla voce fuori campo di Hubert. La rabbia cieca, il rifiuto di ogni dialogo, il sogno di un’integrazione impossibile agitano l’animo dei protagonisti, sullo sfondo di una Parigi mai così grigia e desolata. La sapiente telecamera di Kassovitz ci guida fra i palazzoni di Les Muguets, ‘riscaldati’ da un’impeccabile colonna sonora in cui si incontrano assi quali Bob Marley, Beastie Boys, Isaac Hayes e i Cameo.

Restando in tema musicale, L’Odio è un film intrinsecamente hip hop: lo è per atmosfere, tematiche, linguaggio. A questo proposito, impossibile non ricordare la celeberrima scena in cui Cut Killer, dj franco-marocchino che nel film interpreta sé stesso in una breve apparizione, fa risuonare a tutto volume dal suo appartamento un fantastico mix in cui mette insieme KRS-One, Notorious B.I.G. e addirittura Edith Piaf. Una citazione a parte merita poi la soundtrack tutta francofona direttamente ispirata al film, soundtrack che ospita campioni dell’hip hop d’Oltralpe quali MC Solaar, IAM ed Expression Direkt.

Abbiamo quindi davanti una pellicola francese ma dallo stile molto americano, come dimostrano le esplicite citazioni da film come Taxi Driver o Il Cacciatore; il ritmo è serratissimo, merito dei dialoghi incalzanti (e quasi sempre sboccati) e di un plot che procede per accumulo di situazioni, a volte tragiche, a volte surreali o ironiche ma mai banali. Il regista ci presenta un microcosmo disperato dove non è giusto parteggiare per nessuno; non per poliziotti razzisti dal ghigno idiota, dal cui grilletto partono proiettili come noccioline, non per sbandati alla Vinz, incapaci di inquadrare razionalmente qualsiasi manifestazione del mondo esterno.

L’Odio è un film anti-retorico, senza fronzoli e falsi pietismi; per alcuni rozzo nel suo schematismo, per altri furbo per la sua confezione semi-accattivante, a base di musica di strada e contro-cultura giovanile, ha il grande merito di presentare una realtà difficile così com’è, alleggerendola qua e là con tocchi quasi brillanti (i vari botta e risposta tra i protagonisti, la scena del furto d’auto, prima della scoperta che nessuno sa guidare).

È un’opera comunque di grandi contrasti e giustapposizioni; spiccano lo stile curato ed essenziale al tempo stesso, la scelta del bianco e nero come simbolo di una vita senza mezze misure, il livore uguale e contrario di sbirri ed emarginati. Vibrante di un’energia sincera ed esplosiva, L’Odio è un fulgido concentrato di rabbia e disagio che ci fa interrogare sui limiti di una società come quella contemporanea e sull’utopia, bellissima e forse irrealizzabile, di una pacifica integrazione fra le classi. Amatelo, odiatelo ma non ignoratelo: è cinema-verità.

(Articolo pubblicato in precedenza nel blog Hoyloco e poi attualizzato)