Al Castellana, emblema di un periodo che non tornerà più – Intervista

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In occasione dell’uscita dell’album The Right Place To Be, abbiamo realizzato un’intervista ad Al Castellana, uno dei nomi che hanno segnato la golden age del rap italiano.

Se hai più di vent’anni, sei italiano e ascolti rap da un po’, non puoi non conoscere Al Castellana. Il suo nome è stato spesso al fianco di Neffa, Fabri Fibra, Tormento e tantissimi altri, e in anni in cui la musica urban era diversa da oggi, la voce di Al era una certezza. Il timbro soul che da sempre caratterizza il modo di cantare di Al, una volta terminata la cosiddetta golden age, è diventato negli anni a seguire quasi di nicchia, perlomeno nel nostro Paese.

D’altronde non serve un genio per capire cosa muove le classifiche e, con il rap in cima a quest’ultime, gli interessi economici sono andati spesso nella parte esattamente opposta dell’universo soul, divenuto (o forse sempre stato) attrattiva di pochissimi. Ma i numeri non dicono sempre la verità, soprattutto in casi come questo, motivo per cui abbiamo raggiunto Al Castellana per rivolgergli qualche domanda: tra passato, presente e futuro, è venuta fuori una chiacchierata molto interessante.

Ecco cosa ci siamo detti.

Ciao Al, benvenuto su Rapologia. Per prima cosa vogliamo chiederti: come stai vivendo l’uscita di questo disco? Cosa ti aspetti?
«Grazie per l’ospitalità amici! Vivo questa uscita come tutte le altre uscite in passato, con la differenza che il periodo che stiamo vivendo non è certo il migliore, per la musica e per l’arte in generale. Mi aspetto di regalare una cinquantina di minuti circa di tranquillità e di buona musica, soul music, non ingrassa e fa bene all’anima». 

The Right Place To Be arriva dopo quattro anni dal tuo ultimo lavoro: cosa c’è stato in questo periodo? Come è nato questo lavoro?
«C’è stato un po’ di tutto, il lavoro su altre produzioni, momenti di pausa derivanti da indigestione di soddisfazioni del disco precedenti, l’amore ritrovato, l’ispirazione improvvisa, qualche intoppo di vita non preventivato, una pandemia mondiale, ma eccoci qua».

Cosa ha in più questo disco rispetto Souleidoscopic Luv?
«Non lo so ma ti posso dire che è un disco positivo, un disco sempre in bilico tra passato e futuro, un disco di quelli che regaleresti alla tua lady…al posto di una scatola di cioccolatini…un disco coerente con la mia visione musicale, insomma, questo disco mi assomiglia, assomiglia alla mia vita».

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Come è nata l’idea di coinvolgere Deda e Deva per il remix di “YOU ARE”?
«È stata una bellissima idea di Deva che ho ben accolto, Deda ha risposto con entusiasmo e ne sono usciti due remix notevoli del brano You Are. Deva ne ha ricavato una versione più “osè” sperimentale e affascinante, Deda ne ha smazzata una potentemente funk 80’s».

Cosa pensi manchi all’Italia per apprezzare il soul? È una questione di cultura italiana eccessivamente distante da certe sonorità o credi sia un aspetto che col tempo potrà in parte evolversi?
«Non lo so e ho smesso di chiedermelo, la cultura musicale dei miei tempi era variegata e per tutti i gusti, le radio suonavano funk e soul senza problemi, cosa sia successo dopo, non lo so. Al momento non vedo aperture o futuro per questa musica in Italia, ma di mio, nella mia nicchia accogliente invito tutti gli amanti del genere a bersi un bicchiere con me, offro io».

Sei stato parte di quelli che secondo alcuni sono stati gli anni migliori del rap italiano: cosa ti è rimasto di quel periodo?
«Mi è rimasto l’entusiasmo e il modo in cui si concepiva il “fare musica” 24 ore su 24, a parlarci su, ad ascoltare e scrivere brani, la passione vera, lo scoprire e ricercare continuamente nuova musica, il contatto con i fan dell’epoca, veri appassionati del genere».

C’è qualche aneddoto in particolare che vuoi raccontarci?
«Se ti riferisci a quei anni, direi che l’insieme di quei anni era di per sé stesso un aneddoto… o meglio… un avventure continua, in particolare ricordo il mio primo live, quando a fine concerto mi si avvicinò un ragazzo per complimentarsi dicendomi “Grande Giuliano, sei il King”. Beh… io non volli deluderlo e lo ringraziai di cuore senza rivelare la mia identità, per una notte fui Giuliano Palma, con grande piacere».

Che rapporto hai con il rap oggi?
«Guardo i cantieri e gioco a bocce. Scherzi a parte, ascolto solo roba fatta dai miei amici di sempre, per il resto non saprei».

Qualche rapper negli ultimi anni ha bussato alla tua porta?
«Si, ma la figura dello stornellatore anziano, non mi interessa più…»

Cosa cambia per te tra lo scrivere e cantare in italiano e il farlo in inglese?
«Cambia che se hai una buona pronuncia e scrivi brani all’altezza, ti può succedere quello che sta succedendo a me, essere suonato in UK e non solo, dalle radio più importanti tipo BBC o Jazz FM, ed entrare nelle classifiche più importanti del genere».

Non credo sia giusto fare nomi ma di tanto in tanto mi capita di osservare artisti con un background e un talento soul costretti – per così dire – a fare un pop semi spazzatura per sbarcare il lunario o in alcuni casi per fare parecchi soldi. Ci sono stati momenti in cui hai pensato che forse era meglio cambiare strada per buttarti in sonorità più commerciabili?
«Mai, voglio condire questo brodino fino al resto dei miei giorni, parola di lupetto!».

A proposito di nomi, c’è qualche artista giovane meritevole di attenzioni?
«Io dico due nomi, Shorty e Ghemon. Uno ben lanciato verso un futuro luminoso, l’altro ormai una certezza di qualità».

Progetti futuri?
«Musica, rigorosamente soul».