Tra proteste e razzismo sistemico, la libertà è una lotta costante

Proteste

Razzismo sistemico, proteste e repressione: la storia a stelle e strisce è macchiata di sangue e discriminazione.

Land of the free, sì, ma per pochi. La storia del Paese che vanta il diritto alla felicità all’interno della propria Costituzione è, in realtà, profondamente segnata dall’oppressione sistemica e dalla discriminazione razziale. Le proteste di questi giorni non sono altro che l’ennesimo tassello di un mosaico fatto di violenza ai danni della popolazione afroamericana e di reazione ad essa, un passaggio di un processo storico lungo secoli.

Lo stato di agitazione partito da Minneapolis in seguito alla morte di George Floyd non è assolutamente il primo caso di proteste di lungo respiro – in alcuni casi con connotati più violenti, in altri meno. Anzi, se è vero che gli Stati Uniti sono una delle poche nazioni a non aver mai visto un esercito nemico dispiegare le proprie forze sul proprio suolo, è altrettanto vero che ha conosciuto numerosi casi di violenza interna, molto spesso legati a scioperi dei lavoratori e a proteste della comunità afroamericana e, soprattutto, alla repressione messa in campo in questi casi.

Il cammino verso l’uguaglianza è fatto di tante tappe, difficili e dolorose: secondo una brillante definizione di Angela Davis “la libertà è una lotta costante“.

Le proteste della comunità afroamericana di Minneapolis - Rapologia.it

Le rivolte etniche negli Stati Uniti si sono evolute, nel corso della storia, portando avanti le istanze che di volta in volta erano più urgenti. Fino al 1865, ovviamente, l’imperativo categorico è la libertà degli schiavi. In un contesto di tale oppressione, di negazione dei diritti fondamentali dell’uomo – che manco era tenuto in considerazione come essere umano – le rivolte assumono ovviamente connotati violenti, che si fanno ancor più drastici nella repressione. Uno degli episodi più famosi è quello legato alla ribellione sollevata da Nat Turner, un predicatore della Virginia che nel 1831, interpretando un’eclissi come un segno divino, il 21 agosto spinge alla rivolta poco più di settanta schiavi, mentre altri vengono via via liberati. Arriva, però, puntuale la mano della repressione. Alla fine sul suolo restano circa sessanta bianchi e centosessanta schiavi, uccisi dalle milizie e da bande organizzatesi per far fronte alla rivolta e punire i ribelli.

Dal 1865, con l’introduzione del tredicesimo emendamento e la conseguente abolizione della schiavitù, le attenzioni della comunità afroamericana hanno come target la lotta alla segregazione e alle leggi Jim Crows. In questo modo si fa riferimento all’impalcatura giuridica che, dal 1876 al 1964, tiene in piedi la segregazione razziale secondo il motto “separate but equal”, evidentemente disatteso dalle differenti condizioni di vita in cui sono tenute le persone nere.

I passi avanti più significativi in questo periodo sono quelli fatti dal Civil Rights Movement, che ha il primo grosso caso di esposizione mediatica con il boicottaggio degli autobus di Montgomery avviato da Martin Luther King e Rosa Parks – alla quale, in seguito, gli Outkast dedicheranno un omonimo singolo, non senza controversie legali – terminato dopo ben 382 giorni.

Gli anni ’60 sono, a tutti gli effetti, un’esplosione della consapevolezza afroamericana che si traduce in richiesta di pari diritti e della fine della segregazione del Sud. Questi anni sono fondamentali per lo sviluppo del paese perché si ritrovano ad agire per una causa comune personalità magnetiche, in grado di convogliare intorno a sé l’opinione pubblica e di utilizzare, per la causa comune, il successo nei rispettivi campi. Sono gli anni politicamente polarizzati da Martin Luther King da una parte e Malcolm X con la Nation of Islam dall’altra, ma anche dell’immenso peso sociale esercitato da Muhammad Ali. Nella musica, a dar voce alla popolazione nera ci pensano il blues e il soul, che attraversano da sud a nord la nazione trascinandone con sé le differenze. Seguono quasi il corso del Mississippi, che parte dalla Louisiana fortemente segregata e arriva a Chicago, simbolo di una maggiore integrazione, in un percorso seguito da tante persone in cerca di condizioni di vita migliori. I was born by a river, canta la simbolica A change is gonna come di Sam Cooke. Appunto…

Le lotte portate a termine in questa decade hanno nei Civil Rights Act del ’64 e del ’68 e nel Fair Housing Act del ’68 risultati decisivi. Questi provvedimenti pongono fine – almeno da un punto di vista istituzionale – alla segregazione e alla discriminazione nel settore immobiliare causa dei quartieri ghetto. Una delle proteste simbolo di questo periodo è un evento unico nella storia degli Stati Uniti. La marcia da Selma a Montgomery per il diritto di voto in Alabama entrerà nella memoria collettiva come una delle mobilitazioni più d’impatto, soprattutto per la risposta insensatamente violenta della polizia rispetto a una manifestazione pacifica, resa evidente dalla domenica che passerà alla storia come Bloody Sunday. L’evento verrà ripreso magistralmente da Selma, film del 2014 diretto da DuVernay, per il quale Common e John Legend vinceranno l’Oscar per la miglior canzone originale con Glory.

Il fermento degli anni ’60 ha nella perdita dei propri leader, uccisi o incarcerati, la principale causa d’arresto. Nel ’65 sette colpi d’arma da fuoco si portano via Malcolm X, portavoce della parte più radicale del movimento. Nel ’68, al Lorraine Motel di Memphis viene ucciso Martin Luther King, che è al massimo della sua popolarità.

La comunità afroamericana non può sopportare la perdita del proprio leader più rappresentativo, con più credibilità anche di fronte all’establishment politico e che più aveva infiammato gli animi del movimento, in particolare con la marcia su Washington per il lavoro e la libertà, con oltre 300mila cittadini ad ascoltare il sogno – pacifico – di un predicatore che segnerà per sempre la storia statunitense. Il dolore della perdita si traduce in rabbia; le proteste divampano lungo la nazione e producono 43 morti, più di tremila feriti e più di ventimila arresti.

La dura risposta alle proteste in seguito alla morte di Martin Luther King - Rapologia.it

Nonostante la fine ufficiale – o ufficiosa – della segregazione, gli anni ’70 danno avvio al periodo di peggior criminalizzazione del corpo nero e d’incarcerazione di massa, che porterà, rispetto ai dati del 1971, a un incremento del 700% della popolazione carceraria, nonostante una diminuzione dei crimini violenti. Per capire la portata del fenomeno basti pensare che gli USA hanno il 5% della popolazione mondiale, ma il 25% di quella carceraria. Di questa percentuale il 38% sono afroamericani, nonostante essi rappresentino solo il 13% degli abitanti della nazione.

Dietro a ciò c’è la militarizzazione della polizia e la lotta alla droga intesa come problema di ordine pubblico, non sanitario. Dal law and order di Nixon – ridiventato attuale in questi giorni – alla war on drugs di Reagan, fino al Violent crime control and law enforcement act di Clinton. È palese a tutti la violenza della polizia, ormai abituata a muoversi come un corpo militare nelle aree a prevalenza nera, seguendo la regola dello shoot first, ask questions later.

La tensione sociale è troppo alta ed esplode. Nel ’92, in seguito al brutale arresto di Rodney King, Los Angeles scende in strada in una sei giorni di scontri, arresti, proteste e saccheggi che vedono addirittura impiegati i marines a ristabilire l’ordine. L’ordine, appunto, nell’intervento militare si traduce in sessantatré morti. La ferita è profonda e colpisce al cuore a stelle e strisce. L’insofferenza della comunità nera davanti alla violenza della polizia e alla criminalizzazione subita si trasforma in rabbia, a volte in maniera più violenta – come appunto i fatti del ’92 – e a volte in maniera più pacifica – come la Million Man March organizzata tre anni dopo a Washington da Louis Farrakhan. Ciò che è cambiato è soprattutto l’impatto mediatico delle proteste e la narrazione che ne viene fatta. In questo il rap ha svolto un ruolo fondamentale.

La polizia reprime le proteste di LA del '92 - Rapologia.it

Se precedentemente il soul e il blues erano generi di successo soprattutto tra le persone nere, l’imposizione del rap come genere mainstream aveva portato certe istanze a un livello maggiore di esposizione, aveva messo in contatto idee e persone che mai si erano incrociate. Si rifà proprio ai sei giorni di L.A. The day the ni**az took over di Dr. Dre, tra la sua spinta da quei giorni il bellissimo The Predator di Ice Cube, così come si sprecano i riferimenti nei brani di Tupac, Keep ya head up su tutti.

Il rap prende, così, un legame costante e diretto con le rivendicazioni della comunità nera, sia perché ha le radici sociali nel cemento dei contesti più colpiti dal razzismo sistemico, sia perché, per linguaggio e stilemi, è il genere che meglio riesce a rappresentare in maniera immediata certe posizioni, senza edulcorarle o addolcirle.

Così, con un filo rosso fatto di black anthems, si arriva alle proteste partite da Ferguson nel 2014 per l’assassinio di Michael Brown e andate avanti per tutto il paese anche nei mesi a venire, supportate dal Black Lives Matter Movement. Ad essere cambiata è la narrazione delle proteste e dei movimenti a esse collegati, lontani dalla gerarchia e l’iconografia simil-bellica delle Black Panthers, ma più vicini alle necessità quotidiane delle comunità.

Proprio per questo il rap statunitense, immediato nel portare contenuti e libero da incrostazioni ideologiche, è riuscito a tradurre in musica ciò che le piazze chiedevano. Il we gon’ be alright di Kendrick Lamar è, proprio per questo, quanto più di politico ci possa essere, nel senso autentico del termine, poiché esprime le preoccupazioni e i desideri della comunità.

È impossibile tracciare un quadro dettagliato delle rivendicazioni degli afroamericani nel corso della storia in un solo articolo, ma tentare un approccio che guardi anche al passato è fondamentale per capire come le proteste di questi giorni abbiano trovato solo la scintilla nell’uccisione di George Floyd. La legna da ardere, purtroppo, è stata accatastata in secoli di razzismo istituzionalizzato, di leggi discriminanti e violenza: per questo ora l’incendio è difficile da spegnere.

Studiare e informarsi è il primo passo per fare la propria parte e, nel nostro caso, il rap dà una grossa mano per capire i meccanismi di un contesto diverso dal nostro.

Grafica di Mr. Peppe Occhipinti.