«L’Hip Hop è una filosofia di vita formativa» – Intervista a Simone Nigrisoli

Walk This Way Nigrisoli

Simone Nigrisoli ci ha parlato del suo libro: Walk this way, edito Europa Edizioni.

In questo articolo avevo sottolineato come Walk This Way, saggio del giovane giornalista valdostano Simone Nigrisoli, costituisse una tra le letture più interessanti attualmente presenti nel panorama rap nostrano. Un’analitica ricerca in chiave culturale, politica e socio-antropologica circa l’Hip Hop e la sua evoluzione (con una particola digressione sulla scena italica).

Era dunque inevitabile approfondire il discorso con lo stesso autore per una maggiore assimilazione del fenomeno trattato.

Come ti sei avvicinato all’Hip Hop e da cosa è nata l’esigenza di scrivere un saggio simile?
«Mi sono avvicinato all’hip hop da bambino parallelamente al Punk, genere che mi è sempre piaciuto. Ho dunque ascoltato molti artisti appartenenti alla scena underground italiana nei quali rivedevo -per certi versi- approcci simili a quelli presenti nei testi punk. Inoltre, durante l’adolescenza, ero appassionato di snowboard oltre ad essere uno skater. Uscivo spesso con b-boy che mi consigliavano dischi avvicinandomi quindi progressivamente alla dimensione hip-hop.

Il saggio è nato da una tesi di laurea, nonché successiva ricerca accademica. Era da tempo che ragionavo circa la stesura di un testo simile. Ho inviato l’opera -conclusa- ad una decina di case editrici e tre di queste mi hanno proposto un contratto. Mi sono buttato ed è nato il progetto. Ad oggi posso considerarmi soddisfatto».

Il libro affronta l’argomento in un’ottica chiaramente storico-sociologica. Possiamo dunque affermare si tratti di una lettura inusuale -ed inedita- per un panorama, il nostro, non particolarmente fertile culturalmente parlando?
«In Walk this way espongo una tesi personale riguardo la cultura hip-hop italiana in un’ottica sociologica. Nel corso della stesura dell’opera ho comunque analizzato, e riassunto in sole centoquaranta pagine, le ricerche effettuate in passato da noti studiosi riguardo il medesimo argomento».

Quindi, Simone, l’Hip-Hop è una cultura o una subcultura? Che differenza intercorre tra questi due termini dal punto di vista tecnico?
«Subcultura è semplicemente il termine scientifico, sociologico ed antropologico utile a definire una cultura la quale non ha una precisa nazione, o regione, di riferimento. L’hip-hop è allora una cultura sotto molteplici punti di vista».

Ho trovato molto interessante il concetto di glocalizzazione da te espresso nel corso dell’opera. Ti andrebbe di spiegarlo ai nostri lettori?
«Con glocalizzazione si intende l’intreccio tra una cultura internazionale ed una locale, unite assieme quasi fossero due facce della una stessa medaglia. La glocalizzazione ha come scopo quello di unire in un’unica entità ciò che è di matrice “straniera” con una di tipo locale. Se ci pensi bene è quanto accaduto all’hip hop una volta fuoriuscito dagli Stati Uniti ed espanso negli altri paesi».

Secondo te perché in Italia la cultura Hip-Hop non è stata assimilata come invece avvenuto in altre parti d’Europa (ed oltreoceano)?
«Per una serie di particolarità totalmente “italiane”. Andando in ordine: in Italia tutte le culture di strada erano, all’epoca, concepite in un’ottica altamente conflittuale ed antisistemica. Questo ha favorito l’intreccio tra l’hip hop ed il fenomeno della sinistra extraparlamentare o dei centri sociali (il che conferì al movimento italiano una connotazione underground avversa al mainstream). Inoltre non avevamo la cultura black, tanto è vero che il fenomeno dell’immigrazione lo stiamo vivendo ora. Questo fattore ha sicuramente fatto sì che l’Hip Hop venisse poco compreso e che sia sempre stato relegato a dinamiche particolari o controverse: oggetto di lotta tra chi bramava a renderlo prodotto per un pubblico mainstream e chi invece preferiva che esso rimanesse intatto per non rischiare di farne perdere quell’ “aurea magica”».

Sei uno di quelli che ritiene che il credo Hip Hop, se adeguatamente seguito ed osservato, possa migliorare il mondo in cui viviamo?
«Assolutamente sì. L’hip-hop è una filosofia di vita molto formativa. Chi conosce questa cultura nella sua essenza non può che coglierne messaggi altamente positivi».

In quale delle tre fasi storiche attraversate dal rap italiano ti riconosci maggiormente e perché? Quali sono i tuoi modelli artistici di riferimento in merito?
«A me piace la fase dell’hip hop propugnata dai centri sociali. È stato il periodo più affascinante da raccontare all’interno del mio libro. Forse perché mi sono sempre molto interesso di politica. Naturalmente i miei modelli artisti di riferimento propri di quel periodo non possono che essere gli Assalti Frontali».

Cosa si prova ad intervistare pionieri del genere nostrano quali Ice One, gli Assalti Frontali o gli ATPC? E’ stato dispendioso -logisticamente parlando- incontrarli?
«Devo dire che sono stati tutti molto disponibili e gentili. Faccio il giornalista e l’ansia di avere un personaggio famoso di fronte l’ho superata da qualche anno. Penso di aver capito il valore e l’importanza di quelle interviste solo dopo aver pubblicato il libro.

Ho mandato ad Ice One una serie di domande via mail, e lui è stato talmente chiaro che non c’è stato bisogno di contattarlo telefonicamente per ulteriori approfondimenti. Rula lo sono andato a trovare in negozio a Torino mentre ero in vacanza in Valle d’Aosta dai miei genitori. Gli Assalti Frontali invece li ho incontrati a San Lorenzo mentre giravano il video di Fino all’alba. Non ho dovuto muovermi troppo per fortuna (ride, ndr)».

Dove possiamo trovare il tuo saggio qualora fossimo interessati all’acquisto?
«Lo potete ordinare in qualsiasi libreria e su tutte le piattaforme online».

Hai in mente di redigere letture simili in futuro? Sarebbe molto utile, nonché interessante, per fare chiarezza su un fenomeno (sub)culturale riguardo il quale -purtroppo- ancora non si è sufficientemente istruiti…
«Perché no? Mai dire mai».