«Alla fine conta solo il Rap» – Intervista a Jack The Smoker

Jack The Smoker

Abbiamo realizzato un’intervista a Jack The Smoker in occasione dell’uscita del suo nuovo album Ho Fatto Tardi.

Quando Tedua annunciava la prima parte di Vita Vera Mixtape per il 5 di giugno, nessuno si sarebbe immaginato che da quel giorno per altre quattro settimane avremmo visto uscire prima, appunto, la seconda parte del progetto del rapper genovese, poi Gemelli di Ernia, Mr. Fini di Gue Pequeno e venerdì scorso Ho Fatto Tardi di Jack The Smoker. C’è voluto davvero poco insomma, se consideriamo Tedua milanese anche se d’adozione, per riportare subito i riflettori sul Rap e su Milano in particolare, che ha fatto senza dubbio sentire la sua voce e che già qualche settimana fa rivendicava un certo status con uno slogan molto forte, ovvero “Il Rap riparte da Milano“.

Per ovvi motivi non abbiamo avuto il piacere di incontrare Jack di persona, ma siamo comunque riusciti a parlare del suo disco e non solo in una bellissima chiaccherata telefonica. Senza ulteriori indugi, vi lasciamo a quanto ci siamo detti:

Prima ancora che uscisse era chiaro che Jack Uccide non fosse un concept album. Ho Fatto Tardi invece potrebbe esserlo per via di un filo autobiografico piuttosto costante. Quali sono secondo te le differenze tra i due progetti?
«Fondamentalmente non sapevo che Ho Fatto Tardi era un concept album finché non l’ho finito. Jack Uccide è nato in un periodo tranquillo della mia vita, sereno, e probabilmente rifletteva un momento in cui volevo giocare un po’ col Rap e portare un discorso live proprio strettamente Rap. Questo altro disco invece nasce da un momento di urgenza personale diverso, sia in senso positivo che negativo, che probabilmente ha fatto uscire maggiormente questo lato autobiografico e narrativo che, però, sin dai tempi dell’Alba ho avuto e sempre portato avanti nel corso degli anni.»

La tua carriera ormai ventennale ti ha permesso di vedere da vicino le varie fasi che ha attraversato il Rap italiano dagli inizi del 2000 ad oggi. Te la senti di di giudicare questo percorso e magari azzardare qualche previsione per il futuro?
«Allora, dividendo questo percorso in fasi, c’è stata probabilmente una prima fase in cui io crescevo dove il Rap stava arrivando al grande pubblico, ad esempio con Neffa e i Sottotono. Questo momento è stato seguito da un vuoto durante il quale però abbiamo iniziato a fare musica noi, la mia crew e i miei amici di Pioltello, quando il Rap era ancora un po’ cultura alternativa ed eravamo in pochi mossi da una forte passione personale. Poi nel 2004-2005 le carte in tavola sono cambiate e la gente ha iniziato rivedersi in quello che scrivevano i Dogo, Fabri Fibra e magari anche in noi della Crême più in piccolo. Piano piano il Rap diventava una forma di espressione legittima e soprattutto rappresentativa del vissuto delle persone, mentre prima era diverso perché vigeva un discorso molto più autoreferenziale. Non c’è nessun male in questo e anzi, sono il primo che ascolta chili di musica autoreferenziale newyorkese soprattutto. Poi chiaramente c’è stata questa grande rivoluzione che ha reso il Rap una musica un po’ per tutti e fare una previsione è davvero difficile. Magari il pubblico si annoierà di tutti questi artisti e di queste canzoni molto simili ma a prescindere da tutto io sono fiducioso nelle buone penne italiane e credo che ci sarà sempre qualcosa di interessante da raccontare su un beat, senza dover per forza rifarsi a qualcuno o qualcosa.»

Ho Fatto Tardi è probabilmente riferito a tua madre, ma indubbiamente il tempo trascorso da Jack Uccide è stato considerevole. I 4 anni passati per te sono un anche un ritardo oppure è stato anche un segnale rispetto alla cosiddetta musica fast food che sta prendendo sempre più piede?
«Forse un misto delle due o forse nessuna. È vero che ho fatto davvero tardi a livello produttivo – non è così che si fa – ma è vero anche che i dischi devono avere un quid. Sarebbe bello che i dischi fossero più frutto di un momento personale, di riflessione, rispetto a quelli che escono adesso in cui il 90% sembrano la stessa traccia in loop, o comunque il topic è sempre identico. Hai centrato la componente autobiografica però effettivamente può essere letto anche in questa chiave di monito nei confronti della scena. A questo punto della mia carriera in ogni caso ho le idee ancora più chiare: se faccio un disco devo avere qualcosa di diverso da dire rispetto al precedente. E se noti, nel bene o nel male è sempre stato così anche per i miei dischi passati.»

Il disco termina con due brani differenti da quelli che li hanno preceduti. Una Come Te – con una tipologia di ritornello che non ti abbiamo mai sentito fare – e Nuvole – con una strumentale forte ed un infottatissimo Izi. Come sono nati e come ti sei trovato a realizzarli?
«Per quanto riguarda Una Come Te avevo voglia di raccontare quell’episodio, che comunque è molto rappresentativo anche rispetto al titolo del disco: rompere quello a cui tengo più forte fa parte della mia tendenza, fare degli errori e accorgersene troppo tardi. Il beat di Mace, impreziosito dal contributo alle tastiere di Venerus, ha definito il mood del brano. Per quanto riguarda il pezzo con Izi, ci siamo beccati una volta in studio, poi abbiamo cambiato beat ma avevamo già in mente che cosa fare. Volevamo una cosa che caricasse, un po’ “epica”. Metterla alla fine del disco è stata una chiusa un po’ più energica diciamo, per dare un tocco di carica finale.»

Nei brani hai raccontato molti aneddoti della tua infanzia, tra cui c’è Torno Su dove ci parli del furto di una bici e una certa Giovanna che ti ha ingannato rubandoti gli stemmini delle auto. L’hai più vista dopo quel fatto?
«Sì, ho raccontato questa storia dell’inganno di Giovanna che tra l’altro è venuta a vivere a Pioltello poi. Mi è capitato anche di incontrarla, probabilmente si parla di 10/15 anni fa, ma mi sa che non abbiamo più parlato di quell’episodio lì.»

“Alla fine conta solo i Rap” è uno slogan davvero unico di questi tempi. Cosa manca al Rap – quello fatto in un certo modo e con certi contenuti – per tornare in cima?
«Perché siamo troppo belli! Scherzi a parte: io, Johnny Marsiglia, Ensi e altri, facciamo parte di quell’interregno che non è nè quel Rap “scoreggione”/intellettualoide, nè quel Rap moderno che oggi è in voga, stiloso ma un po’ usa-e-getta. Siamo figli di quel Rap magari un po’ fine a se stesso che si è tradotto poi in qualcosa di piccolo a livello mainstream. In più quando avevamo noi 18 anni il Rap non se lo cagava davvero nessuno, per cui non è che avessimo chissà quali esempi da seguire. Ultimo ma non ultimo, bisogna anche ammettere che la nostra cifra stilistica è un po’ difficile per il pubblico medio di questi tempi, e questo anche perché il Rap in Italia come formula espressiva non è mai arrivata al 100%.»

Sei una sorta di padrino spirituale per Dani Faiv – presente in ben due tracce del disco. Che nel pensi del suo percorso da quella puntata a Real Talk ad oggi?
«Dani l’ho conosciuto che aveva 200 views e a me queste cose esaltano perché incontrare una gemma nascosta con così poca attenzione addosso non mi sembrava vero. Fare The Waiter è stato fighissimo perché in Dani ci rivedo cose mie, un modo di incastrare che è anche mio ma rivisitato in chiave 2.0, e come lui ha preso da me io penso di aver preso nuova linfa da lui che in quegli anni era davvero un emergente. Poi chiaramente sarei ipocrita a dirti che il momento Gameboy Color rappresentava il mio modo di fare e di vedere il Rap. Sono contentissimo che sia servito a farlo conoscere al grande pubblico ma sono ancora più contento di come ha fatto le cose dopo e che non si sia fatto inglobare nel essere diciamo monocromatico. Dani ha le potenzialità per fare di più e l’ha dimostrato sia nel suo disco che qui nel mio.»

Tra il 2019 ed il 2020 sembra che il mixtape sia tornato un po’ di moda, anche se in un formato un po’ differente. C’è qualche speranza che un Game Over Vol. 2 veda mai la luce?
«Mah guarda, il fatto è che appunto, il mixtape come si faceva un tempo, all’americana, non ha più senso farlo. Ormai il mixtape è più una sorta di street album oppure una mega compila, come d’altronde è stato il Machete Mixtape 4. Io sono sempre aperto a fare rime e punch, per cui ben vengano mega-collabo con amici per divertirsi un po’, diciamo che adesso ho preso una linea che mi piace per cui vediamo nei prossimi periodi cosa succede…»

Jack pre-Machete e Jack oggi. È cambiato qualcosa nel tuo modo di vedere il Rap o nell’approccio che hai nel farlo?
«Allora, io sono entrato in Machete che avevo 30 anni, quando erano anni che la gente mi diceva che ero sottovaluto e quando io in primis iniziavo a voler alzare ulteriormente l’asticella. Fino a quel momento erano arrivati tanti props dalla scena ma poi quando ho provato a farci la spesa mi hanno rimbalzato… Il periodo pre-Machete è stato sicuramente bellissimo sotto tanti aspetti ma in termini numerici non è che fosse arrivato granchè alla gente, e come me così anche tanti altri nella mia generazione. Io volevo fare solo le rime ma non ero così bravo a fare il PR di me stesso, e Machete era proprio un ambiente serio e focalizzato sul talento più che sui numeri. Numeri che infatti io non è che avessi, per cui ho apprezzato subito la cosa e loro devo dire che mi hanno davvero aiutato a far arrivare la mia musica ad un pubblico più ampio.»

A 4 anni di distanza da 5 Momenti Top, ce ne sarebbero altri da aggiungere alla lista delle strofe mai scritte?
«Si direi che c’è ma è una cosa personale e a me non piace mettere in piazza la mia vita. Facciamo che lo dico a te e tieni il segreto per un po’: non so quando precisamente ma presto accadrà qualcosa di veramente bello!»

Questo è quello che è venuto fuori in questa bellissima telefonata. Se ancora non avete ascoltato l’album potete trovarlo qui e fateci sapere cosa ne pensate!