«L’ambizione di lasciare un segno nella musica» – Intervista a Giovane Feddini

Giovane Feddini

In occasione dell’uscita dell’album Un Giorno In Meno, abbiamo fatto un’intervista a Giovane Feddini.

Giovane Feddini ha pubblicato settimana scorsa il suo nuovo album, il suo debutto in major, intitolato Un Giorno In Meno: abbiamo colto l’occasione per fargli un’intervista. Feddini ha risposto per noi ad alcune domande sul suo album, sulla sua carriera, la sua città e non solo.

Di seguito trovate quello che ci siamo detti:

Ciao Fed, per prima cosa una cosa particolare del tuo disco. L’album si intitola Un giorno in meno, cosa significa il titolo e a cosa è riferito? Spesso, è una traccia del disco a dare il titolo all’album, in questo caso invece no. Quando hai deciso il titolo dell’album? Dopo averlo completato o al contrario, le tracce sono state scritte seguendo il concept del titolo?
«Ciao ragazzi! Ho pensato il titolo alla fine, nonostante avessi già il concept ben chiaro a metà disco: l’album si ispira al film In Time e ruota attorno all’importanza del tempo. Ogni giorno che passa è Un Giorno In Meno, voglio far riflettere gli ascoltatori per migliorarsi. Un Giorno In Meno è inoltre il titolo del progetto mai uscito del mio migliore amico, è un mio modo per onorarlo in questo progetto.»

Dopo un 2020 molto produttivo dal punto di vista musicale per te, hai cominciato il 2021 con una release così importante già a inizio anno. Quando sono stati scritti i brani? Tutti successivamente a Carnevale di Venezia?
«Esatto, sono tutti figli della vibe milanese tranne Magnifico e High in Lambrate che tenevo nel cassetto da un po’. Con Joe abbiamo pensato di metterli e dargli finalmente luce.»

Com’è il tuo approccio al lavoro di studio? Sei uno di quelli che scrive e registra in continuo oppure ti chiudi in studio per la realizzazione di un progetto?
«Scrivo giornalmente. Ho sempre paura di essere a corto di materiale, per ogni progetto che esce ho già altre quindici canzoni pronte! Fosse per me pubblicherei un progetto al mese, ma è anche vero che la musica deve avere tempo di maturare e arrivare alle persone.»

Com’è nato il tuo rapporto con Dogozilla Empire e qual è il peso di Don Joe sui prodotti che escono dalla sua label? Lascia libertà totale agli artisti o li supervisiona dall’alto, come Dr. Dre in Aftermath Records?
«Sono entrato nella label nel giugno 2018, dopo aver fatto sentire le mie cose in studio nei mesi precedenti. Il consiglio di Joe e il suo peso per questo primo album è stato fondamentale vista l’uscita con Sony e il periodo storico che stiamo passando nella musica. Musicalmente mi consiglia quando magari potrei spingere di più un ritornello, o mi fa notare se cado in brani che non mi rappresentano. A volte ho scritto brani figli della rabbia su cui mi ha fatto riflettere: “La gente vuole le tue storie, non cattiveria gratuita”.»

Padova, la tua città è da sempre un punto cardine dei tuoi testi: quanto è cambiata la città, dai tempi di Lampioni?

«Non torno a Padova da settembre, per il lavoro e per i decreti. Vivo a Milano da mesi e per giudicare com’è Padova sarebbe giusto viverla in questo momento. Sicuramente è molto diversa da quando sono partito.»

Vi ricordiamo che Feddini ha contributo al nostro Restiamo Uniti Mixtape con Lampioni pt 2.

Sicuramente sei molto legato alla tua città e alla tua regione, come canti in Bravi ragazzi. Il Veneto in realtà è una regione particolare per la scena hip-hop. A differenza di altre regioni, dove il grosso della scena si trova nel capoluogo di regione, il Veneto è caratterizzato da numerose realtà in altrettante città. Che rapporti ci sono con gli altri rapper del Veneto? Prevale la rivalità campanilistica o siete sodali?
«C’è moltissima competizione nella nostra città, ma questo non significa che la scena non sia florida. Non saprei esprimermi sui rapporti nelle altre città, sicuramente nell’era di Spit il Veneto era super unito e c’era tutto un altro clima. I rapper veneti sono tosti, a livello nazionale siamo sicuramente posizionati bene.»

Nel tuo rap, particolarmente in questo album, si nota un lessico molto complesso ed articolato, un utilizzo di tanti vocaboli, per nulla immediati. Questo rende i tuoi brani più interessanti ad ogni ascolto, mano a mano che tutte le figure retoriche e gli incastri vengono assimilati dall’ascoltatore. Questo va controcorrente rispetto alla scena attuale, dove invece prevale l’uso di testi semplici ed orecchiabili. Il pubblico medio hip-hop, secondo te, capirà i tuoi testi interamente? Preferisci un pubblico ristretto di cultori o un pubblico più ampio e meno colto? E, infine, da dove vengono tutti questi riferimenti?
«Sono un appassionato di mitologia e teologia, gialli e film di fine anni ‘90. Mi piace acculturarmi, lo devo ai miei genitori. Sinceramente sono conscio della mia complessità e mi sto allenando a perfezionarmi in base al brano: se devo rappare su un beat crudo io punto ad essere il migliore, non a farmi capire. Nella creazione di Millepiedi invece, ricordo perfettamente Dessa.One e Ric De Large che mi dicono: “Ok Fed, ora devi mettere meno parole possibili”.»

La scelta dei beat nei tuoi progetti come avviene? Vengono creati su misura da una tua indicazione oppure li scegli quando sono già stati completati?
«Non ho un metodo specifico. Ogni canzone è legata a un momento, ogni beat è legato a un’intuizione o a una conversazione che ho avuto, oppure un dettaglio che ho notato che mi ha fatto scegliere quel beat. In alcuni casi utilizzo type beat, ma faccio sì che il risultato finale sia totalmente diverso.»

Questo di fatto è il tuo debutto major: per uno come te, con un background indipendente importante, immagino che la major sia un traguardo. Come te la immaginavi? In cosa è meglio e in cosa è peggio rispetto a realizzare progetti indipendenti?
«Ho imparato che nella vita non serve lamentarsi o pensare a come sarebbe potuta andare. Sono stato selezionato per il mio talento e quello che mi interessa è fare una crescita, non avere i milioni dopo una canzone; sono fiero di avere possibilità di fare musica ad alti livelli. Basta non perdere la concentrazione e l’ambizione di lasciare un segno nella musica, che è la cosa più importante per me.»

Le strofe in questo disco sono pienissime di barre, sembra proprio che non ci sia molto spazio per gli ospiti, infatti è presente solo un featuring: Tia, labelmate di Dogozilla Empire. La tua è stata una scelta o una necessità? Chi sono i rapper con cui ti piacerebbe collaborare in futuro?
«Tia è un fratello ed è da tempo che ci promettevamo di fare un pezzo di barre. Mi piacerebbe collaborare con Bresh, secondo me faremmo una perla; poi mi piacerebbe collaborare con Lazza, Inoki, Jack The Smoker e Gué.»

In diverse strofe emerge proprio la necessità di parlare, esprimersi. Oltre alla musica, pratichi altre forme di arte, attraverso cui ti esprimi?
«Nessun’altra forma d’arte. Cerco piuttosto di vivere gli altri campi artistici da spettatore, sono una persona di mente molto aperta.»

Nella tua discografia c’è un brano a cui sei particolarmente legato, magari con un significato più profondo rispetto a quello che l’ascoltatore sente nel testo? In questo album, qual è il brano di cui sei più soddisfatto?
«Lampioni per la persona a cui è dedicata, anche se quando glielo dico non ci crede mai. In questo album Millepiedi per il dolore che mi ha tolto scrivere il ritornello e Gentile per la felicità che mi ha dato scriverla, è un bel ricordo.»

Il disco è ben bilanciato tra banger e brani più lenti, punchline e barre più riflessive. Quali tracce ti piace più realizzare? Quelle più introspettive o quelle più spaccone?
«Entrambe, perché è la natura della mia essenza: sono pesci, quindi un segno doppio, con una parte più sensibile e creativa ed una parte più “oscura”. È anche il bello della mia musica: non sai mai se il prossimo progetto sarà una mitragliata di barre o musica per l’anima, vi coglierò sempre di sorpresa!»

Quali sono gli artisti italiani e stranieri che hanno avuto più impatto sul tuo rap?
«Come artisti italiani direi Jack, Gué, Duellz, Ghemon, Nex. Gli USA hanno avuto però il ruolo più specifico: Rick Ross mi ha insegnato a scrivere, J Cole e Andre 3000 a raccontare storie, Drake mi ha insegnato l’onestà nella scrittura, ossia che è proprio quando hai paura o imbarazzo di scrivere qualcosa che devi scriverlo.»

Domanda di attualità: il dilemma di oggi sembra essere l’impatto della scena italiana rispetto alla scena mondiale. Pensi che la scena italiana abbia una sua identità o sia sempre subordinata a quella straniera? Pensi che sia giusto che tanti artisti si stiano ponendo questo quesito?
«A mio avviso, il problema principale è: qual è lo scopo del rap italiano? A chi parla? Chi rappresenta? Il rap in America, anche nel periodo più gangsta e disimpegnato, ha sempre avuto lo scopo di ridare indietro alla comunità e migliorare la vita per le minoranze: pensiamo a King Von e tutto quello che ha fatto per O’Block, giusto per fare un esempio recente. Penso che prima di aprire un dibattito, sia importante capire la cultura che c’è alla base.»

Il Covid ha di fatto bloccato da un anno i live, che per tanti artisti erano la maggior fonte di reddito. Nonostante ciò, tu hai pubblicato tantissima musica, a differenza di altri artisti che in assenza di live si sono bloccati. Che idea ti sei fatto di questa pandemia?
«Bisogna adattarsi e sfruttare la rete al massimo, anche per chi non c’è abituato: chi lavora in questo settore ha bisogno di internet in questo momento. Non ponetevi ostacoli, cercate soluzioni per quanto siano più lunghe, è proprio ora che bisogna sgobbare quattro volte tanto se vogliamo arrivare ai nostri obbiettivi!»

Grazie Fed per la disponibilità! Se non lo avete ancora sentito, vi lasciamo di seguito il link per ascoltare il nuovo album Un giorno in meno.