Abbiamo realizzato un’intervista ai Figùra, l’inedito trio di compositori e musicisti italiani jazz rap.
Con mia grande soddisfazione, questa volta abbiamo avuto modo di intervistare i Figùra: il trio musicale composto dal beatmaker/producer Francesco Lo Giudice (in arte Alsogood), il bassista Emanuele Triglia e il pianista Alessandro Pollio, al fine di saperne di più sul curioso mondo del jazz rap.
Sono rimasto piacevolmente colpito dalla chiacchierata con Francesco e Alessandro, con i quali abbiamo avuto modo di sviscerare diverse tematiche. Dalla loro idea di strumentale hip hop, ai loro primi lavori fino alla realizzazione di “Place to be”: il primo album in studio, uscito per InchPerSecond. Sperando che possa suscitare in voi lo stesso interesse, vi lascio con ciò che ci siamo detti:
Com’è nato il progetto Figùra? È stata una decisione condivisa a priori o presa in corso d’opera?
«All’inizio abbiamo lavorato a distanza, all’epoca non c’era ancora una vera e propria idea “Figùra”. Abbiamo realizzato la cosa un po’ in ritardo. Anche se alla fine il suono che è uscito fuori da subito è tutt’ora quello che ci caratterizza. I gusti erano abbastanza in linea quindi tutto è accaduto in maniera abbastanza naturale.»
I vostri suoni ricordano inevitabilmente una certa attitudine Rap. Ma dove vi vorreste collocare nel mondo dell’ Hip Hop? Quale sarebbe il vostro vero obiettivo?
«Francesco viene sicuramente da lì, da quel contesto. Emanuele ed Alessandro un po’ meno ma suonano comunque quella roba e le cose si collegano molto bene. Diamo sicuramente un’impronta fondamentale che è quella del beat, che è sempre alla base del pezzo. Assieme a cui convivono sempre armonie abbastanza ricercate, sfumature jazz appunto, o anche il vecchio funk. Se dovessimo per forza di cose trovare una collocazione alla nostra musica, ti diremmo che stiamo a metà strada tra jazz e hip hop.»
Nonostante l’evidente aspirazione a poter continuare a creare progetti a sfondo totalmente strumentale, avete mai comunque pensato di poter collaborare con qualche artista rap italiano?
«Se ti dovessimo dire proprio un nome, sicuramente Johnny Marsiglia. Ci piace come tiene il palco e come si approccia al microfono, specie durante i live. La roba italiana, anche se ci piace ancora, avendola parecchio approfondita, stiamo cercando di metterla un attimo da parte, per concentrarci su collaborazioni più internazionali.»
Le collaborazioni presenti nel vostro disco (AINÈ, Maro, Frank Nitt e Illa J…) hanno catturato in particolar modo la mia attenzione, come siete arrivati a creare questo bel complesso di diversa attitudine musicale?
«La prima collaborazione che è nata è stata quella con gli Yancey Boys (Frank Nitt e Illa J). Francesco gli ha inviato le nostre strumentali e dopo nemmeno 24 ore ci hanno rimandato il materiale con le loro strofe: è stata una vera sorpresa per tutti! Con Maro, invece, è stato diverso: Alessandro l’ha convinta a venire in Italia e poi abbiamo organizzato anche un suo live a Roma che è andato rapidamente sold out! Durante quel concerto abbiamo conosciuto anche Ainè. Ora sia con lui che con lei siamo super amici. Preferiamo sempre incontrare dal vivo le persone per creare un contatto più “profondo”.»
Parliamo un po’ di “Place to be”. Le sonorità dell’album portano la mente a viaggiare verso un posto idilliaco che ognuno di noi vorrebbe poter raggiungere, anche in questo stesso istante. Cosa ne pensate voi e com’è nato quest’album?
«Ognuno costruisce il proprio place to be a suo modo. Per Francesco potrebbe essere stare in studio a suonare, o in riva al mare a rilassarsi. Per un altro potrebbe essere uscire con la tipa, per altri stare con gli amici del cuore. Ognuno ha i propri bisogni e i suoi obiettivi: una propria dimensione ideale che, prima o poi, si augura di raggiungere in qualche modo. Il titolo viene proprio da questo concetto.»
Ho visto che la clip di “Place to be” è particolarmente caratterizzata dal susseguirsi di fotogrammi di scene di vita quotidiana. Com’è venuta fuori l’idea?
«Nel video volevamo riprendere il concetto dell’album. Ci sono foto di gente che passeggia, gente che pensa o guarda in giro, in contrasto con semplici foto di paesaggi. Appunto ritorna il “Place to be”: il luogo dove la gente pensa di ritrovare la propria pace. Si alternano luoghi isolati come il mare e la montagna e poi luoghi urbani affollati.»
Jazz, soul, hip hop: tre generi che si sposano perfettamente nel vostro lavoro. Ma non valutereste un po’ “rischiosa” la scelta di lanciarlo proprio in Italia?
«Credo sia giusto portare un po’ di educazione musicale, specie a tutti quei i ragazzi che fanno questo tipo di musica. Probabilmente, per ora, potrebbero non comprenderci, tuttavia penso sia meglio costruire le fondamenta da adesso. A me non interessa se tutti ascoltano o meno la nostra roba. È giusto però, che si sappia che in Italia ci siano anche questi generi di musica, come il nostro. Il fermento esiste comunque nel nostro paese, magari è composto da gente che non ha la fortuna di avere un’etichetta forte o un bell’ufficio stampa, ma è presente. E stiamo parlando di tutta gente che prende sempre ispirazione dagli Stati Uniti. Quindi, portare avanti questo progetto significherebbe anche dare una nuova opportunità d’ispirazione anche in Italia: potrebbe smuovere le acque.
Anche noi abbiamo avuto difficoltà a promuoverci all’inizio, ma fortunatamente ne siamo usciti bene, abbiamo raggiunto il nostro target prefissato e ora la gente del settore ci conosce. Ovviamente parliamo di persone che sono affezionate a questi suoni e che cercano qualcosa di leggermente più impegnato. Per tornare un pochino anche alla qualità dei pezzi, poiché, al giorno d’oggi, è abbastanza difficile trovarla, specie dal punto di vista strumentale. Ci siamo focalizzati su questo e siamo convinti che anche questa musica stia arrivando. Arriverà forte!»
E i vostri live come si svolgono?
«Campionatore, basso e tastiera. Essenzialmente come abbiamo registrato, così suoniamo anche dal vivo. Siamo abbastanza fedeli, non snaturiamo il suono che si può ascoltare nell’album.»