In un periodo storico sempre più divisivo, la storia di Alice Pasquini rappresenta l’unione e la mentalità che definivano gli anni novanta, decade in cui l’hip hop si è diffuso non soltanto dal punto di vista del rap ma anche del writing. Una disciplina che ha visto la sua evoluzione a livello nazionale grazie al contributo di Alice, una delle prime esponenti di uno stile pittorico che ha trovato il suo apice nei lavori di Banksy.
Dai graffiti nelle periferie romane fino ai viaggi intercontinentali, il suo percorso artistico e professionale si lega indissolubilmente al valore simbolico della strada e alla visione romantica delle città, due elementi fondamentali per il processo creativo che l’ha portata a realizzare delle opere intime e incisive allo stesso tempo.
In occasione dell’evento in programma il prossimo 24 settembre a Conversano (Bari) in compagnia di Dj Gruff, l’artista romana ci ha portato nel suo mondo di ispirazioni, viaggi e racconti legati a un immaginario hip-hop atipico, almeno per le nuove generazioni, e intriso di voglia di riscatto.
Un’intervista hip-hop: seguite Alice Pasquini!
Ciao Alice, per chi non ti conosce nell’ambiente rap sei una street artist di fama internazionale. Negli anni ti sei tolta molte soddisfazioni attraverso i vari viaggi in giro per il mondo, in cui hai dipinto muri e instaurato nuovi legami. Puoi spiegare ai nostri lettori com’è nato il tuo percorso?
«La passione per quelli che erano i graffiti, dato che la street art ancora non esisteva, è nata quando ero adolescente nel mio quartiere a Roma. Con i miei amici passavamo i pomeriggi ad imparare cose differenti da quelle che venivano insegnate al liceo artistico che frequentavo. A questo proposito, la passione per la breakdance e la musica rappresentavano un linguaggio assolutamente nuovo. Una prerogativa importantissima della nostra generazione era l’idea di trovare il proprio stile per diversificarsi dagli altri. Mentre facevo il mio percorso di studi, prima liceale poi accademico, sperimentavo altro con le bombolette spray. Ai tempi non c’era nessuna prospettiva lavorativa, avevamo solo qualche rivista o video a cui ci ispiravamo. Eravamo visti un po’ come “quelli strani” per via dei graffiti, poi con l’avvento dei social network negli anni 2000 e l’esplosione di Banksy sono diventati street art e da lì è partito il mio percorso con tutte le varie esperienze all’estero»
Oltre alle difficoltà nel sapere accettare un linguaggio nuovo, ai tempi eri una delle poche ragazze che si approcciava a questo mondo. Come si è evoluta questa percezione negli anni?
«Quando ho iniziato chiaramente ero una delle pochissime, e ti assicuro che era così anche nel resto del mondo, almeno negli anni 90. Sotto un certo punto di vista è stata una forte spinta, dato che iniziai anche per parlare da un punto di vista femminile e offrire una rappresentazione della donna che fosse diversa da quella dei miei amici e coetanei. Non volevo per forza essere un’eroina ma un punto di riferimento atipico in cui le donne si potevano identificare. Questo tra l’altro è uno dei motivi per cui ho deciso di firmare le opere con il mio nome. Era importante che le altre lo notassero. Adesso le cose stanno cambiando e sono sempre di più le ragazze che vogliono intraprendere questo percorso. Ce ne sono un sacco di talentuose, soprattutto nel Sud America»
Il 24 settembre si terrà il live di Dj Gruff a Conversano (Bari) accompagnato dall’esposizione delle tue opere. Come si svolgerà nello specifico l’evento?
«L’evento sarà un continuo del sodalizio con Gruff, che conosco ormai da anni. L’Intento è quello di ripercorrere quanto abbiamo fatto con il video What Goes Around. Gruff animerà delle immagini mentre suonerà i suoi pezzi e dietro di lui, nel backstage, troverete i disegni di tutte le animazioni e le mie opere. L’idea è quella di combinare pittura e musica, il punto di incontro tra i nostri due mondi»
Come mi accennavi poco fa, il sodalizio con Gruff in realtà resiste da anni e nasce ufficialmente dal video di animazione What Goes Around realizzato per l’accademia Zero Stress di Torino. Cosa ti ha colpito maggiormente di lui e del suo approccio alla musica?
«Gruff è incredibile perché ha una capacità incredibile nel saper spaziare da una cosa all’altra. Come nel mio caso, la cosa più stimolante che ho notato in lui è saper evolvere e trasformare delle tecniche “accademiche” o per certi versi tradizionali in un qualcosa di innovativo con una prospettiva diversa. È un vero e proprio genio»
Nell’ambiente hip hop, in particolar modo del rap, gli artisti trovano nuove idee attraverso esperienze personali che sfociano successivamente nei testi. Nel tuo caso da dove prendi l’ispirazione? C’è un processo di brainstorming particolare che segui?
«La mia arte prende ispirazione dai viaggi e dalle persone che incontro. Giro sempre con un quaderno in cui cerco di mettere su carta delle storie intime che rappresentano i legami. Tutte queste storie vengono poi inserite in uno spazio pubblico sui vari muri che vado a dipingere, il fulcro di tutto il mio lavoro. Farlo a Singapore non è lo stesso rispetto a farlo in Sud America: ogni luogo suscita delle emozioni diverse che riflettono di conseguenza anche la mia ispirazione. È tutto il contesto in sé che diventa opera d’arte, non necessariamente solo la mia pittura. Il fatto che l’opera si evolva insieme alla città è un esempio lampante, ed è proprio il mutamento nel tempo che rende la pittura ancora più interessante. Anche l’eventualità della sua sparizione fa parte del gioco: è un’arte effimera che non deve avere un approccio guidato dal proprio ego personale»
Oltre a essere esposte nei musei, le tue opere possono essere ammirate in tantissime città europee e d’oltreoceano. C’è un viaggio che porti nel cuore in cui hai dato il meglio di te dal punto di vista artistico?
«Parto dal presupposto che ovviamente ci sono dei muri che mi piacciono più di altri, ma ciò che mi porto dentro veramente sono i ricordi che ci sono dietro. Ti posso menzionare un viaggio di qualche anno fa in cui abbiamo dipinto una parte abbandonata della metropolitana di Parigi. Altre esperienze molto belle sono state a Capoverde e a Toronto. Il mio è anche un modo per scoprire nuove città seguendo rotte diverse lontane dalle classiche mete turistiche. Sono tanti ricordi legati a storie di persone che in alcuni casi sono entrate a far parte della mia vita»
Escludendo la collaborazione con Gruff, le tue opere trasmettono un forte legame con l’hip hop. Come mi hai detto inizialmente, era collegato alla necessità di trovare una propria identità. Qual è la caratteristica del movimento che ti affascina di più e che ti ha dato nuovi stimoli nel corso degli anni?
«Oltre al concetto di identità che dici tu c’è anche il concetto di saper stare in strada. Prima di andare a dipingere un muro dovevi passare ore a disegnare sul tuo quaderno per avere un’idea molto chiara di ciò che andavi a fare. Questo perché sapevi che c’erano persone più brave che ti spingevano a dover sempre dimostrare. Al liceo artistico veniva insegnata un’arte che per me era morta e sepolta, mentre ciò che ci arrivava lo vedevamo come rivoluzionario e soprattutto vivo. Tutto questo ancora rimane. Saper vivere la strada, come ti accennavo, è fondamentale. Il tuo modo di viverla si percepisce attraverso l’attitudine che dimostri. Ai tempi c’era una sorta di selezione naturale, dovevi avere fegato per esporti in questo contesto. Poi ovviamente dovevi confidare nelle tue capacità, elemento chiave nella vita in generale, e avere anche quella dose di follia che ti faceva pensare: “La città è mia”»