Il Sudconscio di Don Gocò: Arte auto-terapeutica

DonGocò

Il rap è una sillaba al centro della parola ‘terapia’. Lo sa bene Don Gocò, Rapper Underground e Psicologo-Terapeuta che, tenendo vive e attive queste due direzioni apparentemente inconciliabili – ma ognuno ha un suo centro e una sua periferia – della personalità, scava da anni “nel mistero della propria giungla”.

Sudconscio, il suo ultimo lavoro, va ad implementare un discorso che comincia da lontano, nel tempo, che si va delineando in maniera più nitida in dischi come Pezzi di me, in R-Umori, in Conclamata Normalità; un discorso di sintesi tra istinto e analisi – appunto, tra centro e periferia, stabile e incerto. Ordine e Caos.

Don Gocò come educatore: Sudconscio come manifesto

Sembra che non c’è più tempo. C’è piattume, intorno, e testi che urlano il nulla da cui provengono. Il vuoto. Bisognerà pur partire da quello, per far sì che nasca qualcosa. E Don Gocò, in Sudconscio, parte proprio da Il Vuoto (<quel niente che adoro>), come traccia d’apertura.

Quell’assenza – che è il vuoto – come unico punto di partenza, dal quale far emergere tutto: tutto quello che hai nascosto sotto anni di fatica, rifiuti, fallimenti. E la vita di un uomo, che è stato – è e sarà – un rapper underground prende forma. La volontà di essere liberi – anche metricamente – da schemi preimpostati, e meccanismi pubblicitari.

Un’ode al vuoto come soglia, come stato mentale e reale nel quale tutti viviamo, e dal quale tutti dobbiamo partire. Nominarlo per cercare di riempirlo. Rendergli giustizia per tentare di dominarlo:

il vuoto spaventa, ma è l’attimo prima dell’atto creativo. È il vuoto che può guidarci, anche se incute timore e sembra portarci ad allontanarci…è lui che concede di compiere gesti, di dire parol.

C’è libertà nell’impostazione delle metriche dunque, che si esprime saturando il rap, snaturandolo creativamente nel suo ‘rovescio’, nella slam poetry – poesia parlata metricamente libera – in pezzi come Il Genio, Sapere esitare, Gioco, Patuto;

che diventa racconto, parabola, teatro-canzone, in Ti canusciu cirasu e L’aquila, dove l’ultimo residuo di quello che si può definire rap  – la rima – si scioglie nel poetico manifestarsi di assonanze, suoni e rimandi, in un tessuto prosastico. Dove non c’è più un MC che fa le sue rime, ma un poeta che compone i suoi versi. E che mantiene un inconfondibile ritmo.

Le infinite sfumature

In questo disco c’è tanto. E non è ancora l’aggettivo adatto. Ci sono gli up e i down, centro e la periferia d’ognuno, in un continuo e proficuo sovrapporsi di atmosfere. Questo grazie ad una produzione solida, la cui spina dorsale è fornita da Libberà, deus ex Machina dei Keepalata (crew formata da Don Gocò, Libberà, Brigante e Cario M.), che ha affinato il suo gusto e offerto il camaleontismo musicale funzionale allo stile di Don Gocò.

Che da par suo si è spinto in tante direzioni, dalla rielaborazione del Drumless (in MHDDC, <Mi hanno dato del coglione quando parlavo di inconscio/come fosse un mio delirio, come fosse un fatto sconcio>) a quella del Classic Boom Bap (in Paura con Dj Dima e Aru Stand, con Brigante).

Dalle Underground hit (come nei due pezzi prodotti da Franiko Calavera, Fermo e Guatemala) ai pezzi malinconici e New-Soul (in Affissione Abusiva) fino a quelli più distopici e para- “cyberpunk” (come Babelfish e 0984).

C’è – dunque – sostanza nei testi, consapevolezza di essere esecutori di un lascito, testimoni di un’epoca. Da una posizione scomoda. Perché la vita di un rapper underground non può riguardare la stretta attualità. Tra la registrazione di un pezzo e la sua uscita possono passare mesi, anni…

C’è dunque la necessità di superare la stringente gabbia del quotidiano, per toccare questioni generali, problemi esistenziali che diventano drammi, nel triste ‘momento’ dell’umanità che, raggiunto il suo apice, sta necessariamente involvendo, e in tutto questo mantiene un’insostenibile quanto autodistruttiva consapevolezza.

Ecco dove il rap diventa te-rap-ia, quando individualmente ti porta a comprendere –almeno – le sfide collettive. Don Gocò si pone – lo poniamo – come educatore: l’arte è terapia, e conoscersi aiuta a conoscere. Vedi la traccia Scintille:

E se la vita fosse veramente solamente una solo questa/avresti veramente paura, di venire alla festa?/la cosa più difficile non è essere sé stessi, capisci di che parlo?/ma ignorare chi ti dà del pazzo, mentre provi a farlo

E possiamo leggere, di riflesso, quasi come in uno specchio deformato ma lucido, in un testo di Nietzsche: “In fondo ogni uomo sa benissimo che è al mondo solo una volta, come un unicum, e che nessun caso per quanto strano metterà insieme una seconda volta, agitandola e mescolandola, una così bizzarra e variopinta molteplicità nell’unità che egli è”…

Sudconshow: la “bizzarra e varipinta molteplicità” di un nuovo classico

Nella costruzione dei testi, nella loro profondità; nel dialogo confidenziale con i Grandi Problemi Esistenziali; nel tentativo di uscire fuori dagli schemi, dalle logiche algoritmiche e dalle quelle di mercato; nel provare ad essere semplicemente onesti – innanzitutto con sé stessi -, Sudconscio è già un classico.

Gli elementi che lo definirebbero tale ci sono tutti. E a dare uniformità a tutto c’è la sua persona, la sua personalità. Con il suo accento – inconfondibilmente calabrese e marcatamente cosentino -, plus valore italiano, vorremmo dire, che è stato storicamente sempre frenato ma, nonostante ciò, ha sempre contribuito a fornire agli artisti un mezzo per diversificarsi, anche – e innanzitutto – linguisticamente.

C’è la storia di un ragazzo che col rap è diventato uomo, che ha raggiunto faticosamente un equilibrio. C’è che “ognuno brilla di sé”, nonostante il buio inquietante sul nostro futuro. E c’è ancora tempo. Per chi sa aspettare. E “aspettare, vuol dire non essere prossimi alla delusione”.