“La musica è la rappresentazione sonora, simultanea, del sentimento del movimento e del movimento del sentimento.” Cosa succede, però, quando a scandire ogni passo è una lugubre melodia? Urla, spari e talvolta persino la morte faranno parte di un’orchestra che ci costringe ad un lento valzer con l’ansia. Questa disarmonia viene impressa nell’inchiostro e prende forma su un beat. Voci graffianti sono l’unica lanterna a far luce tra i corridoi di un vecchio maniero. Stavolta a guidarci saranno note violente e cupe: questo è l’horrorcore.
Scopriamo il rap horrorcore: terrore fra le barre
Chiudiamo gli occhi per qualche istante, isolandoci da tutto e tutti. Ora, immaginiamo di allontanarci dal mondo e dalla monotonia di ogni giorno. Proust lo farebbe con una madelaine bagnata in una vecchia tazza di tè caldo. Murakami, invece, ci inviterebbe a trovar riparo in quella piccola stanza dove conserviamo i ricordi. Tuttavia, anche un rifugio sicuro può trasformarsi in un tetro inferno. A plasmarlo è quella mente che talvolta gioca brutti scherzi, e tra le sue crepe s’insinua l’horrorcore.
Ed ecco che le quattro mura intorno a noi, appaiono più sottili. La voce nelle cuffie accompagna la nostra fuga sconclusionata tra i corridoi d’una coscienza inquieta. La musica, fino a poco fa era l’unica ancora di salvezza, ora diventa un incubo deformato. Ogni passo è più pesante del precedente, mentre l’aria si fa asfissiante. Il suono spettrale che ci accompagna, culla la ragione finché quest’ultima non s’addormenta. Lentamente, il sipario si alza su questo teatro degli orrori.
Non riusciamo a proferire una parola, mentre l’orchestra scandisce i battiti. Ogni colpo di batteria risuona come la risata sguaiata del Dr. Frankenstein, rintanato in un cupo laboratorio. Stavolta, l’ambizioso scienziato, si trova dietro una vecchia ed impolverata console. Moderno Prometeo, porta alla luce un microcosmo tanto dinamico quanto inquietante. Voci spezzate dal dolore, rabbia e malinconia s’intrecciano su carta. Tra le pieghe del pensiero, lungo il viale della follia, una sinfonia dimenticata ricalca le impronte.
Dietro il beat, leggiamo la stenografia delle nostre ansie e paranoie. La mente sembra un immenso castello, ora starà a noi esplorarne le immense stanze. Improvvisamente, sarà un atelier ormai abbandonato a catturare la nostra attenzione. Laddove la luce filtra a malapena dalle finestre, ci troviamo davanti ad alcune peculiari opere.
Dimentichiamo composizioni complicate e figure dai tratti delicati. Musa di questi artisti maledetti è la paura. Mentre la ragione riposa, recuperiamo frammenti d’angoscia, scomposti come un vecchio quadro cubista. Guernica è dentro di noi, mentre un intreccio distorto accompagna l’urlo di Munch.
Quando cala la lunga notte, il silenzio viene squarciato da barre crude. Con i Three 6 Mafia, facciamo l’ingresso in un mondo che respira l’atmosfera di un romanzo di Stephen King. Con le spalle al muro, vivremo un incubo ad occhi aperti, cui fa da sfondo solo l’oscurità. Raccontano la paura, come novelli Wes Craven, ma preferiscono il beat alla cinepresa. Non sono modelli da seguire, ce lo ricorda anche un giovane Tyler, the Creator, in Goblin. La musica, che per noi è salvezza, si trasforma ora in una sinfonia di distruzione.
Noi lo chiameremmo “terrore”, ma c’è chi parla di “horrorcore”.

Nel cuore dell’horrcore
Qualcosa di sinistro sta per accadere. Procediamo a tentoni, mentre l’ansia sembra sempre più opprimente. Il respiro si fa pesante e le note ci spingono, simili a un monsone, ma con la potenza lirica di un tifone. Ogni passo viene scandito da un miscuglio di grida e lamenti strozzati mentre balliamo un lento con l’angoscia.
Non possiamo scappare da nessuna parte, né trovare un luogo in cui nasconderci. Ora la mente diventa la cattedrale abbandonata al centro della capitale della paura. Sotto le notti di Salem, abbiamo fatto la conoscenza dei Gravediggaz, entrando nel contorto mondo dell’horrocore.
Le loro barre sembrano confessioni dal diario di un pazzo, forse un mozzo sulla “nave dei folli” di Bosch. Naufraghiamo in un mare di inquietudine, cercando di tornare a riva, mentre la tempesta è la nostra unica compagna. Ormai, il cervello è macchiato dall’orrore, ma finalmente riusciamo a metterci in salvo. Abbiamo lasciato alle nostre spalle quel vecchio maniero fatiscente, unico reggente nei regni della comprensione. Dimentichiamo gli antri solitari della magione ormai distrutta. La mente continua a giocare brutti scherzi, strabuzziamo gli occhi e ci ritroviamo ammutoliti davanti ad una figura alquanto singolare.
Il volto è di un bianco cadaverico, contorto in una smorfia beffarda. Cammina tra noi come un’ombra, priva di luce. Vorremmo distogliere lo sguardo, ma, al tempo stesso, siamo stregati, come stessimo fissando un infinito abisso. La sagoma di fronte, sembra uno specchio da cui rifuggiamo lo sguardo. Appare come un ritratto deforme e noi, come Dorian Gray, ci nascondiamo dietro la sua cornice.
Il buio, noncurante, si alimenta della nostra stessa oscurità e malvagità. Pensavamo di essere fuggiti dall’incubo, ma ci accorgiamo che in realtà è appena iniziato. I pensieri corrono alla rinfusa, trovandosi davanti ad una vecchia porta cigolante. Ci facciamo coraggio, superiamo l’uscio ma siamo ben lontani dall’avercela fatta. Dimentichiamoci la realtà cui siamo abituati.
Bassi pesanti e risate scomposte accompagnano la nostra discesa in quest’inferno in terra. Siamo dentro la Sala delle Illusioni, unici ospiti di un duo dall’aspetto particolare. Indossano quasi una maschera che oscura i tratti del loro volto. Salta all’occhio il trucco pesante che ci fa pensare siano usciti da un film dell’orrore. Mescolano con agilità un mazzo da cui tirano fuori alcune carte: quattro sono giù, due ancora da calare.
Così gli Insane Clown Posse, aedi dell’horrorcore, ci fanno entrare nel loro Dark Carnival. I Geto Boys ci avevano lasciato in balia della nostra mente, chiusi in una stanza di cui paura e paranoia erano architetti. Gli ICP plasmano quel terrore che ci sussurra un nome all’orecchio: quello dell’illusionista per eccellenza, il Grande Malenko. La musica rimbomba nelle cuffie, ma non è una via di fuga.
Siamo intrappolati fino all’ultimo basso in un mondo che non ci appartiene. Mostri deformi e clown sfigurati dettano il tempo di una colonna sonora intrisa di solitudine e smarrimento. Stiamo camminando lungo un corridoio dell’orrore, scappando da queste creature che con la coda dell’occhio ci han visto correre. All’improvviso, il tendone si apre, cadendo alle nostre spalle. Quel carnevale d’oscurità è già finito, s’interrompe anche il beat.

I’m staring at the window of my eternal doom
Sembra passata un’eternità, siamo fuori da quella dimensione. Pensiamo che, forse, è vero: le paure accompagnano la vita di ogni uomo, come noi, prigionieri di un incubo.
Tornando con la mente a qualche istante fa, quanto è durata la reclusione nel folle reame del rap horrorcore. Il ticchettio delle lancette ci riporta alla realtà. Una risata risuona in lontananza, sotto un basso opprimente.
Intrappolati in un angolo d’oscurità, lì neanche il tempo ha più senso.
Si potrebbe dire che, nel buio, neppure cinque minuti esistono.


