L’Hip-Hop in Italia non è mai stato veramente compreso

L'Hip-Hop in Italia non è mai stato veramente compreso

Il rap come efficace deterrente contro l’ipocrisia della società italiana.

In Italia il rap non è stato capito. Pur essendo un genere ormai presente sin dalla fine degli anni ’80 (mi riferisco alle embrionali esperienze dei Radical Stuff e degli Isola Posse Star), ancora si fatica a decifrare – ed osservare con “occhio critico” – determinati codici di comportamento propri di questo movimento culturale.

Tale riflessione sorge a partire da un video che ho recentemente visto su YouTube. A parlare è Bassi Maestro, figura iconica della realtà Hip Hop contemporanea nostrana.

Partendo dal presupposto che condivido il pensiero espresso da Bassi ad Hip Hop Tv, ho tentato di condurre, nei limiti del possibile, un’indagine eziologica sull’intera faccenda. La domanda che mi sono posto – nodo cruciale del discorso alla quale tenterò in queste righe di trovare una risposta – è: perché in Italia alla parola rap si associano in automatico determinate congetture? Cerco di spiegarmi meglio, usando esempi diretti: perché quando diciamo di fare – o ascoltare – rap ad una persona estranea ad un simile contesto, questi ci risponde con il gesto delle corna, con frasi banali come “yo-yo” o evocando immediatamente le sparatorie tra West ed East Coast?

Oltre ad essere gesti che alterano facilmente il mio stato d’animo, simili comportamenti rivelano una notevole carenza culturale nell’interlocutore che ci si trova davanti.

“…e se la massa non ragiona poco importa,
non è una questione di forma,
ma è dimostrare che l’Hip Hop non è una formula
dove uno dice Yo e l’altro fa il gesto delle corna”

(Ghemon Scienz – Niente può fermarmi)

Inizierei la trattazione, al fine di chiarire le idee al lettore meno esperto, soffermandomi sulla differenza semantico-concettuale che intercorre tra l’Hip-Hop ed il rap. Molto spesso sento utilizzare questi due termini in maniera del tutto inappropriata. L’Hip-Hop è il genus che al suo interno contiene quattro diverse species, o discipline. Ciò che colloquialmente è chiamato “rap” viene – in realtà – tecnicamente definito MCing, e rientra in una delle quattro arti.

Non è mia intenzione eseguire una speculazione storica sull’Hip-Hop ab origine. Nel caso in cui il lettore fosse mosso da una simile intenzione posso suggerire l’acquisto di Pedagogia Hip-Hop, opera in cui nei primi capitoli è affrontato – in maniera analitica – il fenomeno della nascita del suddetto movimento.

Mi preme, in questa sede, esprimere un giudizio personale: sarebbe limitativo relegare l’Hip-Hop ad una definizione univoca. Rap è sinonimo di politica, attualità, filosofia, pace sociale, comunità, senso di appartenenza, condivisione e tanto altro. Non elenco tutte le possibili declinazioni dal momento che – credo- queste siano indefinite ed indefinibili. Ciascuna esplicitazione potrebbe risultare valida qualora correttamente interpretata o coerentemente giustificata. Dietro un vestito, un graffito, un passo di breakdance o tra le righe del testo di una canzone si cela, in realtà, una varietà – complessa ed articolata – di elementi politici o socio-culturali, di riflessioni esistenziali e di speculazioni astratte riconducibili alla più varia natura.

Senza perdere di vista la domanda iniziale, nell’articolo in cui recensivo Rapropos avevo lanciato una provocazione: perché non si sente mai nessun politico italiano citare la cultura Hip-Hop? Secondo me la risposta risiede in una banale sottovalutazione, ed inconsapevolezza, del fenomeno in questione all’ interno del nostro Paese. In Francia il governo, capendo la forza espressiva di questo potente medium democratico ed interclassista, ha cercato invano di arginarlo in tutti i modi. In Italia invece il rap pare essere la “moda del momento”, come fu il rock o la dance anni ’90.

Ma se questa è la tragica situazione che ci si pone davanti agli occhi, di chi è la colpa? Io credo che i colpevoli, in questa vicenda, siano tanti. Da una parte la stampa, dall’altra l’atteggiamento dell’ascoltatore medio infarcito di bigottismo cento per cento italico. Senza voler scendere in polemica, è sufficiente rimembrare lo spiacevole episodio “Valerio Staffelli – Achille Lauro” a Sanremo, ove è stata condotta una vergognosa campagna di disinformazione nei confronti del brano Rolls Royce. Non c’è da stupirsi che lo stesso conduttore di Striscia avesse causato lo scioglimento, ai tempi, dei Sottotono. Ma, si sa, repetita iuvant.

In numerosi casi il rap è stato protagonista di programmi condotti da conduttori decisamente incompetenti e male informati. Gaffes non ne sono certo mancate. Tuttavia, tra i vari esempi eclatanti (in negativo) che potrebbero essere citati a sostegno di una simile tesi, ritengo che la trasmissione Le Invasioni Barbariche si posizioni al primo posto.

Nelle puntate sopra riportate, la conduttrice de Le invasioni Barbariche si confronta con gli artisti invitati in maniera superficiale anche mostrando un comportamento piuttosto ilare. Domande banali e stupide. A Fedez viene proposto un pindarico parallelo tra Isis e rap, al cui accostamento l’interpellato rimane giustamente spiazzato. Jake La Furia e Gué Peuqueno – entrambi “pezzo di storia” della scena hip-hop italiana, Sacre Scuole docet – vengono trattati come fenomeni da baraccone. Insomma, la mia percezione è che si voglia quasi screditare la figura del rapper. Questi è considerato il “drogato di turno”, senza arte né parte, idolo di mandrie di ragazzini in piena crisi di identità.

La cosa più sconvolgente è che dopo vent’anni di comparsa del genere – in Italia – non si sia ancora giunti a capire che il tanto scanzonato rapper è forse la figura più adatta per confrontarsi, quale sembra essere l’intendo di simili show televisivi pseudo-seri, su questioni socio-politiche o di matrice culturale. La politica ed un certo tipo di stampa (quella istituzionale) non hanno ancora compreso che l’artista rap di turno in realtà è vox populi. Jake la Furia e Gué Pequeno, ai tempi, erano più consci della condizione esistenziale quotidiana di un giovane ragazzo italiano di quanto non lo fossero gli anziani parlamentari di Montecitorio. I due artisti hanno vissuto sulla propria pelle determinate esperienze come raccontavano nei propri testi. Eppure la questione finisce sempre per vertere sull’abbigliamento di Jake o se i due abbiano ancora a che fare con il mondo delle droghe. Vi è un fastidioso moralismo cattolico e redentivo alla base, che trovo anche un poco ipocrita.

I brani dei Club Dogo erano efficaci e diretti: la strada l’avevano vissuta per davvero, conoscevano la – tanto temuta – droga ed i meccanismi che inducono una persona a comprarla. Il parlamentare “di turno” che propone misure per combattere il commercio illegale di cannabis, invece, non è mai vissuto nei quartieri periferici, e cementificati, di metropoli come Milano o Roma. Non conosce certe dinamiche sociali.

Fabri Fibra già nel 2007, poco dopo il successo ottenuto con Tradimento, tentò di spiegare il rapporto tra i giovani e gli stupefacenti proprio a Le invasioni barbariche. Il divario culturale – e non – tra “Sfiber” e la Bignardi è alquanto evidente.

In Italia il fenomeno Hip-Hop non è mai esploso veramente perché non abbiamo ancora i giusti mezzi culturali per comprenderlo. E ciò è dovuto a cinquant’anni di Democrazia Cristiana, a venti di berlusconismo, e ad un attuale governo (praticamente) leghista. Di contro una sinistra inesistente, la quale  non ha mai saputo colmare il profondo abisso tra il “paese reale e quello legale”. Elitè culturale che non ha mai saputo valorizzare i mezzi a propria disposizione, come l’Hip Hop.

L’italiano “medio” poi non vuole sforzarsi di ragionare, anche la pigrizia è infatti alla base del problema. Meglio i latini e la discoteca il sabato sera. Facile svignarsela con un: “il rap non mi piace perché parla solo di sesso, donne, macchine e violenza” condannando il comportamento “da bullo del quartiere” tenuto da alcuni rapper che può, al massimo, vagamente riferirsi, al filone gangsta rap degli anni ’90.

Aprendo una piccola parentesi, il tanto criticato machismo di determinati artisti altro non è – spesso- che un elemento aggiuntivo utile per connotare maggiormente la “street credibility” del proprio personaggio da rapper. Compiendo un simile ragionamento si valuterebbe solamente un lato della medaglia, quello – tra l’altro – meno diffuso ad oggi. È come se dicessi che non mi piace il calcio perché, sopratutto in passato, alcune frange violente di ultras hanno tentato di sovvertire l’ordine pubblico al punto tale da spingersi ad uccidere appartenenti alle forze di polizia. Così facendo si tenterebbe, invano, di “tracciare i confini” dell’Hip-Hop, realtà estremamente complicata e multiforme.

In base a quanto detto fin qui è sicuramente molto facile “puntare il dito” verso i rapper, rei di impartire codici di comportamento poco consoni per le nuove generazioni. Mi sto riferendo in particolare al noto fatto di cronaca di Corinaldo, tragedia recentemente accaduta che mi è utile per sostenere ulteriormente la tesi professata.

Se ne sono sentite di ogni. Polverone mediatico alzato attorno alla figura di Sfera Ebbasta, denunce per istigazione all’uso delle droghe da parte di due deputati di Forza Italia e -come se non bastasse – presenze demoniache all’interno dei testi rilevate dall’esorcista Antonio Mattatelli. Il genitore “inorridito” dalla trap che il figlio quotidianamente si ascolta in cameretta può comprendere il fenomeno Sfera Ebbasta solo in quanto “costume sociale” del nostro tempo.

Negli anni ’70 venivano dedicati spazi appositi ad artisti che scrivevano i propri brani -apparentemente con poco contenuto, ma considerati successivamente “essenziali” da parte della critica – sotto effetto di oppiacei o acidi vari (Beatles e Pink Floyd due nomi fra i tanti). È errato addossare le “colpe” – quali? – dei figli ai rapper o trapper che dir si voglia. L’artista non si sostituisce – ne può essere sostituito – al genitore o all’educatore.

Se l’MC affronta determinati argomenti nei propri testi è perché il – chiaro – disagio sociale di che viene narrato è celato solamente agli occhi di chi non vuole vederlo. Ma l’italiano è portato, per sua natura, ad individuare un colpevole. Trovare un capro espiatorio cui addossare le proprie mancanze è molto più semplice: così almeno si potrà avere la “coscienza pulita” e rimanere in pace con se stessi.

“Il giornalista, chiede se il rap incita alla droga
I giovani capiscono e conoscono la droga
Faccio una foto al vostro mondo str*nzo e c’è la droga, quindi
Prossima domanda, c*zzo, questa era un po’ idiota”

(Ernia, King QT)

Ricordo che molti anni fa Fabri Fibra ricevette forti critiche da parte dell’associazione D.i.Re. (Donne in rete contro la violenza) per i testi delle sue canzoni ritenute altamente omofobe e misogine. Ancora, il giudice di Milano Livia Pomodoro, allora presidente del Tribunale dei Minori, si scagliò contro il rapper marchigiano poiché in Cuore di Latta, canzone incentrata sul delitto di Novi Ligure, venivano riportati messaggi potenzialmente dannosi per i giovani dal punto di vista educativo e culturale.

Tutto ciò mi fa sorridere. Se un magistrato ed un’associazione che si batte contro la violenza sulle donne si sentono in dovere di intervenire per arginare un simile fatto significa che qualcosa, nel processo di ascolto ed assimilazione del contenuto del brano, non ha funzionato. Vuol dire che sono stati lanciati giudizi affrettati in base ad una banale analisi sul significato letterale del testo, senza condurre un’operazione di contestualizzazione a 360°. Il brano di Fabri Fibra che affronta il dramma della violenza sulle donne, svolge una duplice funzione. Al contempo, infatti, l’artista mette in luce un chiaro problema insito all’interno della nostra società utilizzando un linguaggio – talmente immediato e realista – che funge da deterrente per azioni future e da monito per i propri giovani ascoltatori.

Il meccanismo che sta alla base del rap game è il seguente ed è facilissimo da comprendere:

“Sono stanco di essere descritto come il rapper violento: mi accusavano di non rispettare le donne nelle rime ma io scrivevo quello che vedevo, non quello che pensavo Nemmeno quentin tarantino crede o incita alla violenza. quella non è la realtà. i suoi film non sono documentari. il rap segue lo stesso principio”.

(Fabri Fibra – Huffingtonpost.it)

L’Hip-Hop in Italia ha ancora molta strada da percorrere e se non ci sarà una diversa apertura mentale nell’ascoltatore “medio” tutto continuerà ad essere sempre più difficile.

I primi a dover cambiare siamo “noi stessi”. Solamente compiendo questa piccola “rivoluzione copernicana” un giorno potremo -forse- sperare di migliorare l’Italia.

Grafica di Mr. Peppe Occhipinti.

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