Si raggiunge la propria cima personale per poi vivere feriti e contenti – Intervista a Ghemon

Ghemon

Corsi e ricorsi storici al telefono in compagnia di Ghemon per l’uscita del suo settimo album ufficiale
E Vissero Feriti E Contenti.

Pochi giorni prima dell’uscita di E vissero Feriti E Contenti vado ad aprire il canale Telegram di Ghemon. Noto un messaggio vocale in cui sta per annunciare le collaborazioni nel suo disco. Al preambolo segue qualche secondo di silenzio. Scoppio a ridere. Sarà questa storia della stand-up comedy che lo rende più simpatico ai miei occhi di quanto probabilmente lo fosse già. Ma il lusso di poterlo conoscere di persona, spetta a pochi. Anche perché la distinzione di Gianluca da Ghemon è un nodo assai particolare della sua storia.

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Gli album di oggi, specialmente rap, escono assieme al roboante frastuono che si crea giorni prima attorno alla presenza delle sempre “attese” collaborazioni. Potranno convincere o deludere, ma è innegabile che siano ormai parte dello spettacolo. Per lo show di Ghemon però si paga il biglietto per ascoltare solo lui e la sua band.

Non è un caso se Marracash in Persona, disco spartiacque di un’intera generazione in questo senso, ci tenga ad autocelebrarsi dicendo che canta così bene da poter permettersi un featuring con sé stesso. Parafrasi di un concetto che è pienamente sdoganato dalla figura, ormai ultradecennale, di Ghemon: spingersi oltre gli orizzonti di una cultura senza porsi alcun limite.

Da circa quattro o cinque dischi a questa parte nessuno, me compreso, ha più la concreta possibilità di etichettarlo. Ghemon propone un ventaglio di opzioni musicali davvero vario ed interessante. La sua applicazione nell’inseguire una ricercatezza stilistica nel canto e nelle strofe lo ha portato a dei risultati pazzeschi. Quindi, anche alla produzione di un disco come E Vissero Feriti E Contenti, prodotto per Carosello Records, di cui abbiamo parlato abbondantemente. Cercando di analizzarlo tenendo conto del suo passato, del presente ma anche del futuro. Di Sanremo, di musica internazionale e italiana, ma anche e soprattutto di rap.

Ho provato ad immaginare come potrebbe essere sedermi accanto a lui in cima, per poter osservare in estremo silenzio tutto quello che ci si prospetta davanti e con profondo rispetto tutto ciò che si è superato. Per poi vivere feriti e contenti. Buona lettura.

Ciao Gianluca, bentornato su Rapologia. Colgo l’occasione per dirti che ho seguito con interesse tutta la tua esperienza sanremese. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata “caspita, che forza!”. Questo perché conosco la tua discografia e di conseguenza parte delle tue esperienze, specialmente quelle difficili, raccontate in dischi come Orchidee e Mezzanotte.
«Sono contento che tu abbia riconosciuto la mia forza perché penso di averla messa. E io stesso di avercela messa tutta. Anche portare un pezzo come Momento Perfetto, era significativo per me. Nel senso che pensavo fosse l’occasione giusta per andare lì a fare un’altra cosa, a dire chi sono io in questo momento, come stavo e a mostrarmi anche solo nell’aspetto. Senza andare a riprendere concetti precedenti già sentiti. Non avrebbero fatto comodo a nessuno. Dove avrei probabilmente anche dovuto recitare la parte di quello triste, che adesso non sono. Invece, è stato giusto dire che sono tenace e positivo.

Spesso mi si dice che le persone sono più affezionate a dischi come Mezzanotte, piuttosto che a E poi All’Improvviso Impazzire, piuttosto che a Fantasmi (Qualcosa È Cambiato – Qualcosa Cambierà Vol.2, ndr). Non ti nascondo che sono strafelice di questo. Ma ora non farei a cambio con quello che avevo prima. Non mi faceva creare in modo libero. Perché erano momenti che mi facevano stare pesante. Ho preferito fare tesoro di ciò che è successo prima».

Ascoltando la tua strofa in Soli di Mecna, con l’ottimo supporto di Ginevra, ho anche notato che sei riuscito a tornare su certi argomenti. Hai avuto modo di ripensarci durante la stesura di questo nuovo disco?
«Per fortuna, no. Durante questo periodo, certo che ci ho pensato, perché ci si pensa sempre. Però anche per ricordarmi come sono cambiati i tempi, quante cose ho imparato dai miei momenti difficili e come sto affrontando questi momenti difficili per tutti. Ho sviluppato degli strumenti che mi sono serviti tantissimo in questi mesi. Poi, il resto lo ha fatto la musica. Dedicarmi a ciò che amo fare. Per tutto il tempo. Anzi, non ho avuto nemmeno il tempo di pensare ad altro. Anche perché non ci sarebbe stato nient’altro».

L’introduzione ci porta sulla tua cima personale. Per un attimo ti ho immaginato al posto del Viandante di Friedrich, ma a differenza di quel dipinto, sotto di te non c’è nebbia. Ghemon ha una visione limpida di cosa è andato bene e cosa no. E quindi, ti chiedo, com’è veramente trovarsi in cima?
«Bello e rinfrancante da un certo punto di vista. Anche se per un altro mi sento un po’ scomodo perché so che dovrò andarmene. Ho sempre guardato avanti nella mia vita e quindi pensare di stare seduto per più di cinque minuti, non ci riesco proprio! Però la tua analisi è corretta. Nel senso che io ho molto chiaro cosa è andato bene e cosa è andato male. Cosa è andato dritto e cosa storto per causa mia e cosa per colpa di qualcun altro. O semplicemente per alcune condizioni astrali che non erano favorevoli. Più che altro, penso che sia questo che ti porta a stare sulla tua cima personale.

In generale, non riguarda solo la mia carriera. Mi piaceva l’idea che chiunque ascoltasse il disco avrebbe poi capito sin dalle prime parole che tutti, quando abbiamo un momento di chiarezza, facciamo un sunto delle cose che ci sono capitate nella nostra vita, che ci abbiamo fatto pace o meno. Noi lo sappiamo come sono andate. Ma che non necessitiamo più di nasconderle sotto al tappeto. Possiamo anche tirare un sospiro di sollievo e iniziare proprio un libro nuovo. Questo disco per me è proprio un altro libro. Non è la prosecuzione di un libro precedente ma semplicemente un altro. Direi più che Scritto nelle Stelle probabilmente fosse la conclusione del libro precedente. Perché era un disco dove chiudevo anche dei capitoli, mentalmente parlando. Questo è un altro. Magari della stessa fase della mia vita ma il proseguimento di altro».

Al netto di un ascolto approfondito dei tuoi album (ufficiali) concluderei di aver trovato una chiara divisione della tua carriera in due trilogie. E Vissero Feriti E Contenti però sembrerebbe un settimo album leggermente fuori contesto. Dove dovremmo collocarlo? È un inizio di qualcos’altro?
«Di un’altra trilogia, forse (ride, ndr). Non saprei. Diventerà comunque l’apertura di un’altra cosa ancora. Ora, i dischi iniziano a diventare tanti. Iniziano ad essere più quelli della seconda parte di carriera che quelli della prima parte. Noto, però, che è più la maggioranza delle persone che mi segue che ha capito la parabola di quello che ho fatto rispetto a quelli che ancora la fraintendono. Questo mi fa molto contento. Quasi tutti hanno capito dove sono andato a parare. Sono molto rari quelli che dicono: “Ah mi piaceva di più la storia di prima, perché ora ha fatto una svolta da un’altra parte che non lo rappresenta. È completamente cambiato”. Ma non è assolutamente vero. Secondo me, invece, ascoltando i miei dischi si nota una grande continuità».

Non si è concluso da molto l’evento made in USA, musicalmente parlando, tra i più seguiti in assoluto. Questa volta, i Grammy Awards hanno visto come vincitori di categorie diverse, figure come Kaytranada o Thundercat assieme a Flying Lotus. Direi tutte molto più vicine all’hip hop di quanto si pensi. In Italia questi sound probabilmente sono ancora non molto riconosciuti. Se non fosse per Ghemon che porta brani come La Tigre. Tra l’altro prodotto da Gheesa, nostra vecchia conoscenza. Com’è stato lavorare su queste nuove sonorità?
«Già in In Un Certo Qual Modo c’era questa scia qui. Non a caso lo stesso Gheesa lo ha prodotto. In questo disco, per esempio, c’è anche Infinito che porta questo tipo di suoni. Il problema non risiede tanto negli ascoltatori quanto più nei discografici, che in alcuni media. Tre quarti dei discografici giovani che sono nell’industria italiana non vedono l’ora di portare le loro playlist con Thundercat e Kaytranada. Poi, dopo, quando hanno il problema di dover proporre artisti nuovi, più giovani di Ghemon, che ripropongono quei suoni lì, non sanno come farli arrivare al pubblico italiano.

Ma nel momento in cui: Beyoncé è l’artista vivente con più Grammy; Thundercat e Flying Lotus vincono un Grammy a testa; Anderson .paak e Bruno Mars vincono con quell’esibizione… Posso andare avanti dicendo che, in generale, grazie al pubblico giovane gli ascolti sono molto cambiati, ma molto cambiati. E quindi, i tempi sono anche maturi per quei suoni lì. Personalmente sono contento più che altro di aver continuato ad aggiornarmi come artista in quanto mi aggiornavo anche come ascoltatore.

Anche il rap, non quello dei primi tempi, ma dai Dogo e Fibra in poi, o anche la trap erano oggetti sconosciuti per il mercato italiano. I discografici non ci volevano avere a che fare. Dopo di che, ad un certo punto, semplicemente succede che cade la prima tessera del domino e tutte le altre vengono giù di conseguenza. Quindi non c’è dubbio che quella musica lì, sia musica figa perché possiede quei suoni lì. Lo dicono i numeri della discografia mondiale. I tempi prima o poi saranno maturi anche per l’Italia. Un po’ iniziano anche ad esserlo già adesso. Ci sono un sacco di artisti giovani che stanno tirando fuori quelle sonorità. Tra un po’ suonerà più familiare anche ad un sacco di altre persone nel nostro Paese».

C’è davvero di tutto in questo disco. Dal soul elettronico all’RnB, ad alcune sfumature jazzate e al funk. Fino ad arrivare alla dance e addirittura al raggae. Ma a discapito della solita retorica dei fan che Ghemon, pur non volendo, si tira sempre dietro, personalmente ci vedo anche molto rap dentro.
«Ma in realtà il rap c’è sempre. Basta non ascoltare il disco con il cotton fioc infilato negli orecchi (ride, ndr)».

Questo mix di generi è frutto sicuramente del lavoro di squadra. Diversi musicisti con cui, a volte, hai lavorato assieme anche allo stesso brano.
«Eravamo tutte persone che volevano la stessa cosa. Tutti avevano le idee chiare. Loro si confrontavano spesso ma sapevano bene dove volevo andare a parare. Mi sono sempre fidato di loro durante lo sviluppo. Questo disco è un successo enorme dal mio punto di vista, intendo dal punto di vista produttivo. A livello di suono, ci sono un sacco di cose che in Italia non sono mai state portate. E siamo riusciti a portarle in una maniera credibile. Facendolo di squadra.

E Vissero Feriti E Contenti crea un precedente per molti aspetti. Di questo sono veramente molto, ma molto contento. Poi, non era affatto scontato. Tutti ti chiedono conto dei numeri. Lì che si fa? Si tende a diventare più flessibili. Non si tende a spostare sempre di più l’asticella per vedere se riesci a padroneggiare un altro linguaggio ancora ecc. Invece, in questo disco nuovo mi è riuscito un’altra volta. Ecco, mi do una piccola pacca sulla spalla per averci creduto ancora.

Orchidee è stato fatto con una piccola squadra di persone. Mezzanotte con un’altra squadra di persone, ma allo stesso modo, in maniera credibile. Scritto nelle stelle con un’altra squadra ancora. E in questo disco si è ricominciato un’altra volta da capo. Nonostante ciò, questi quattro dischi non suonano assolutamente come quattro dischi composti da quattro team diversi. Ogni volta si riparte da capo, ma si riesce a trovare una squadra di persone che credono in quello che si fa. È la mentalità che conta, sempre».

Trompe L’Oeil è anticipato da uno skit di Ema Stokholma che pare essere l’attrice perfetta per introdurci all’ascolto di questo brano così particolare. Vedo una certa profondità nel momento in cui scegli di descrivere figure femminili. La stessa che percepivo in Rose Viola. Mi sbaglio?
«Questo brano è un parente di Rose Viola, credo un po’ di più a livello di sound. Sono dei concept, ma soprattutto delle vibes che mi piacciono molto. Subito dopo aver ascoltato il beat, mi è venuto il ritornello con quelle parole in francese. Aiutano a dare una certa contestualizzazione al brano, per portare chi ascolta a ritrovarsi dentro un determinato mondo. Anche in un viaggio, se vogliamo. Ema è un’amica. La conosco da tanti anni e conosco la sua storia. Si è prestata anche a fare l’attrice in questo skit. Fa un po’ la parte della ragazza sfuggente che ti sta dietro e non ti sta dietro. Volevo comporre un vero e proprio racconto.

Ogni volta che tocco l’argomento relazione, e quindi l’argomento amore, è molto raro che possa parlare di un amore lineare, che non esiste. Le relazioni sono fatte di un sacco di rincorse ma soprattutto di accettazioni delle differenze altrui. E quindi, se si percepisce una parentela con Rose Viola, è perché lo ricorda nel sound. Sul contenuto, lo ritengo un po’ l’altra faccia della medaglia».

“… Niente è tanto personale che non si può raccontare” dicevi non moltissimo tempo fa in Fantasmi Pt. 2. Uno di quei brani che hanno lasciato un segno indelebile nel corso della tua carriera. Credo che Sparire in questo senso ci abbia un po’ riportati su questo concetto. È un altro atto di coraggio e di fiducia nei confronti del tuo pubblico, così come l’outro. Pensi che questo modo di scrivere, che a me piace etichettare come Confessional Rap, possa prendere piede nel nostro paese?
«Guarda, in realtà, probabilmente, così riesci ad essere molto più vicino alle persone. Perché si parla non di cose che non esistono, ma di fragilità. Le hanno tutti quelli che cantano ma allo stesso tempo anche quelli che ascoltano. Grazie a questo le persone possono e riescono a sentirsi più vicine. Personalmente non saprei se ciò rientra all’interno di una categoria di genere. So che non c’è un pezzo in cui non sia stato onesto da questo punto di vista. È stato così in Fantasmi, così in questo, Un’Anima, Impossibile, Dopo La Medicina… E ne posso dire tantissimi altri dove sono stato spudoratamente onesto. C’era sempre dentro esattamente quello che stavo pensando e come mi sentivo nel momento in cui le ho scritte.

Ci sono dei giorni in cui ci si sente felice, allegro, potente e dei giorni arrabbiato. Dei giorni in cui ti senti che devi fare dei bilanci e devi dirti come stanno le cose. Devi anche essere onesto con te stesso. Proprio come in Sparire, che alla fine dice: “sono molto sveglio ma se le cose spesso non vanno come me le sono immaginate, dovrò essere onesto ad ammetterle ad alta voce”. L’autocontrollo e la mia lucidità sono la mia grande forza. Riflessioni che, ad esempio, in Scritto Nelle Stelle forse non erano così presenti. In questo, invece, ci ho pensato e mi sono sentito di scriverle».

Quindi, è arrivato il tempo.
«È arrivato il tempo di lasciare andare. Mettersi alle spalle delle cose, indipendentemente da come sono andate. Lasciare andare anche le cose negative, a cui alla fine ti affezioni. E andare avanti, feriti e contenti».

Dopo un anno la situazione non è ancora delle migliori. Ma la tua discografia inizia ad essere davvero molto ampia e non riesco a smettere di pensare a come potresti metterli in atto. Non sarà affatto facile!
«Si, ma non vedo l’ora. I dischi sono stati costruiti in un certo modo per poi, appunto, farli dal vivo. In modo tale che mi potessero permettere di portare un certo tipo di live ancora abbastanza raro in Italia. Sono un amante delle grandi sfide. Il mio ultimo Sanremo la dice lunga su questo. Non vedo l’ora di tornare in sala prove con i ragazzi e mettermici sopra a prepararli e capire quale sarà la sceneggiatura migliore per mettere i pezzi uno dopo l’altro. Ci sono due dischi molto freschi da portare dal vivo e ce ne sono altrettanti precedenti, soprattutto Orchidee e Mezzanotte, dove dentro, comunque, ci sono delle cose importanti. Quindi, si. Inizia ad essere più difficile, ma anche più divertente creare la scaletta. Il mio intento sarebbe poi quello di comporre un racconto all’interno di un concerto dal vivo».