Funk Shui Project in concerto al circolo Ohibò: vi raccontiamo come andata e qualche dettaglio in più sul disco realizzato dal gruppo assieme a Davide Shorty.
In occasione della data milanese del Terapia di Gruppo tour, presso il circolo Ohibò, abbiamo avuto la fortuna prima del live di scambiare due chiacchiere con Davide Shorty e il collettivo dei Funk Shui Project. L’occasione è stata un buon modo per parlare del live, di come è nato il disco, e delle loro influenze.
Da questi spunti è nata una chiacchierata molto proficua, in cui siamo finiti a parlare di Elvis e di appropriazione culturale. Ecco cosa ci siamo detti:
Che genere di spettacolo avete in mente? Io è la prima volta che vengo a sentirvi e quindi sono molto curioso.
Davide: «La cosa che vi aspetta di più è un sacco di sincerità, non c’è alcun tipo di filtro o abbellimento. È un sano live hip hop con gli strumenti, si rappa, si canta, ci saranno un sacco di ospiti..»
Come è stato lavorato il disco? Si partiva da un pezzo straniero o da un giro di batteria?
Funk Shui Project: «Non andiamo mai a cercare di imitare qualcun altro. La maggior parte dei pezzi sono stati lavorati assieme perché abbiamo avuto la fortuna di condividere e avere a disposizione lo studio. Mentre, invece, in altri casi partivamo da un beat che avevamo preparato».
Per la scrittura, invece, Davide arrivavi in studio già con il testo o nasceva con la base?
D: «Il testo nasceva insieme, forse l’unico è stato In Un Abbraccio, il resto li abbiamo scritti tutti assieme in studio. Blues Di Mezzogiorno ho portato io il campione in studio, poi l’abbiamo tagliato, abbiamo aggiunto la batteria, poi il basso. Nel mentre scrivevo le strofe, che ogni tot registravo. Poi finito un pezzo ne facevamo subito un altro. Alla fine della prima settimana avevamo già tre pezzi quasi pronti e già li avevamo quasi le versioni definitive: magari alcune cose sono state ri-registrate, perché la mia interpretazione mi sembrava datata, o potevo dare di più».
Da dove l’esigenza di un nuovo disco? Hai fatto un album nel 2017: cosa c’è di nuovo rispetto al lavoro precedente, oltre alla presenza di Funk Shui Project ovviamente.
D: «Terapia Di Gruppo è totalmente diverso da Straniero. Straniero viene dalla mia esperienza a Londra, dall’esperienza di X-Factor, l’esigenza di fare un disco come lo volevo io, con la gente che volevo io, senza farmi appioppare delle strutture da un’etichetta discografica, che di solito è quello che succede a chi esce dai talent. Di solito infatti succede che esci da un talent, ti danno un produttore, dei brani da cantare etc. È una questione di esigenze, sarei a disagio a fare qualcosa che non sento: faccio il rapper, il cantautore, ci tengo a fare le mie cose.
Questo disco nasce dall’esigenza di guarire dalla depressione. Ho passato un periodo di depressione durato sette/otto mesi, in quel momento ho avuto bisogno di una terapia. Nel disco si parla un sacco di salute mentale, della nostra salute mentale, cercando di trovarne della bellezza nello struggle. Mi viene in mente il pezzo di Ghemon Bellissimo: con Gianluca condividiamo questo discorso, in modo diverso ma è un concept abbastanza simile».
Mentre con Godblesscomputers, com’è nata la collaborazione? Avete mai pensato di lavorare ad un progetto tutti assieme, non semplicemente un traccia?
FS: «Guarda ora siamo tutti a Bologna e le strade della musica sono infinite, noi di certo non le chiudiamo e men che meno con le persone che stimiamo sia umanamente che artisticamente. Noi in primis siamo fan di Lorenzo (vero nome del dj e produttore), quindi è stato un privilegio per noi averlo sul disco, allo stesso modo delle altre collaborazioni. Ed è nata in maniera totalmente spontanea, avendo fatto In The Loft assieme, così con Davide, così con Lorenzo.
Con Davide in quanto nostra voce narrante abbiamo sviluppato un disco».
D: «Ecco specifichiamo che non è “Funk Shui & Davide Shorty” ma è “Funk Shui project” e basta».
FS: «E con lorenzo ci tenevamo a suggellare la collaborazione in un altro modo e quindi ecco, abbiamo messo questa perla nel disco, che sappiamo durare poco ma è giusto così. Deve rimanere quel gusto».
Certo, guarda ve lo chiedo perché oggi stavo ascoltando il nuovo album di James blake e in un pezzo ci sono Travis Scott e Metro Boomin. Sarebbe interessante vedere una cosa del genere.
FS: «Concordiamo con te su questo potenziale, il bello di mischiare i propri suoni quando si trova una chimica, con Lorenzo o con altri artisti. Noi ci mettiamo in scia: ripeto, le vie della musica sono infinite».
Di recente in America stanno uscendo dischi come quelli di Anderson Paak, The internet, Kendrick Lamar, che vanno alla scoperta delle radici della musica afro americana. Sono cose che vi interessano? Sono punti di riferimento o cercate in altri ambiti?
FS: «Mi sento di dire che la nostra ricerca non è tanto lì, non cerchiamo di riprodurre qualcosa che tanto non saremmo in grado di fare così bene ma guardiamo qualcosa di più nostro. Più che guardare ai dischi americani del momento, abbiamo cercato nella tradizione italiana di una volta, quindi da Piero Piccioni, Tenco, Umiliani, Battisti, Pino Daniele. Ci piace di più il groove che ci appartiene a livello biologico. D’altra parte, se vado a guardare i miei ascolti, i dischi sono quelli, musica americana o inglese, quindi è normale che le influenze arrivino poi da lì. Diciamo che non abbiamo la presunzione di etichettarci come un gruppo che fa black music».
D: «Anche perché nessuno di noi è nero. Per quanto riguarda le mie influenze, la black music è fondamentale: stando a Londra, ho imparato cos’è la cultural appropriation e la storia ci racconta di tanti casi appropriazione culturale, come Elvis, che è considerato il king del Rock ‘n’ roll, quando il vero king è Chuck Berry. L’uomo che l’ha inventato è nero».
Si certo, Elvis ha preso tanto dagli spirituals e dal gospel.
D: «Va bene prendere ma bisogna riconoscere le radici, bisogna avere rispetto per quella cultura che non ci appartiene. Io sono uno scolaro dell’hip-hop e quando dico così è perché l’hip-hop l’ho studiato dalle origini a dove siamo ora. Io cerco di prendere dalla musica italiana, ho sempre ascoltato Battisti, De André, Pino Daniele ma sonoramente mi viene da rifarmi a un Marvin Gaye o a un Donnie Hataway o a Stevie Wonder. Vocalmente mi rifaccio di più a loro, perché riescono a toccare corde che per me sono più spontanee e raggiungibili. Non è la mia cultura, ma ho tanto amore per questa cultura.
Il problema dell’appropriazione culturale si azzera nel momento in cui se disposto ad imparare e a riconoscere. Devi avere l’umiltà di metterti a studiare ad approfondire, piuttosto che prendere una cosa e sfruttarla per un tuo tornaconto: il mio tornaconto è quello espressivo, non mi interessa scimmiottare qualcosa per fare il figo o per fare qualcosa che possa funzionare sul mercato, come un Elvis che ha preso un genere, lo ha fatto suo nel migliore dei modi ma lo ha sfruttato in un modo senza riconoscere da dove venisse, e prendendosi il merito».
Ti sta a cuore la questione di Elvis.
D: «Si perché Elvis non è il king, il king è Chuck Berry e Elvis non l’ha mai riconosciuto. E questa è la cosa più sbagliata da fare, soprattutto quando parliamo di black culture».
Finita questa breve ma intensa chiacchierata abbiamo poi assistito al live, che è stato esattamente come da programma: un sincero live hip-hop con gli strumenti.
Tutto il gruppo ha tenuto il palco per un’ora e mezza abbondante, suonando il disco per intero e lasciando piacevolmente sorpresi tutti sia per presenza sia per costanza. Come già annunciato ci sono stati una serie di ospiti che hanno ravvivato la serata, un Hyst in formissima ha cantato insieme a Shorty Enigmatica. Ma il vero apice è arrivato a metà concerto con Davide e la band ad imbastire una jam di freestyle assieme a Kiave e Laioung. Kiave in particolare ha dato spettacolo, dimostrandosi un vero leone nel freestyle e uscendone come un vero maestro.
Per chi non fosse mai andato ad un loro live, l’esperienza è consigliatissima, solo in questo modo si completa e il disco assume davvero forma.