Il grido disperato di Cranio Randagio

Un’analisi sulla persona e sull’artista Cranio Randagio, a partire dal suo ultimo singolo “Se solo potessi”

Qualche giorno fa è uscito, postumo, il nuovo video di Cranio Randagio intitolato “Se solo potessi”, tratto dall’ Ep “Il Re Leone” fuori a gennaio. Squarta (che ha prodotto la traccia insieme a Gabbo), nel condividerlo sui social, ci ha tenuto a specificare che in questi casi le parole sono superflue: ha ragione. Tuttavia io scrivo per un portale che cerca di fare informazione sul rap e cerca di farlo in un modo abbastanza dignitoso: non potevo non spendere qualche parola sincera a riguardo.

A un anno dalla scomparsa di Vittorio, il brano ‒ il cui video è stato curato da Anthony Mancuso e Corrado Santoro ‒ sembra davvero un grido d’aiuto o uno sfogo, a seconda dei punti di vista.

Alcuni tra gli elementi spesso presenti nelle canzoni di Cranio Randagio ‒ le droghe e l’alcool come “rimedio” a questa sorta di alienazione/disagio ‒ in questa traccia vengono metaforizzate (anche nel video) nella figura del “Gigante di Ferro”:

“E non posso fare finta non so’ fatto di ferro
Da bambino in fissa col Gigante di Ferro
Un sognatore, in un cartone cerca le sicurezze
Prima era animato, ora dosato in goccette”

Quando un anno fa Cranio Randagio ci ha lasciati in me scoppiarono, e rimasero stabili a lungo, due forti emozioni. Da un lato ero seriamente addolorato: ascoltavo moltissimo la musica di Vittorio, mi era capitato di intervistarlo ed era morto un ragazzo come me, uno come tanti; dall’altro ero inorridito dalle centinaia di commenti che puntavano il dito contro il ragazzo, dall’alto di non so quale conoscenza dell’argomento droghe e soprattutto non conoscendo affatto la storia del rapper.

Sicuramente questo accanimento sui social sarà accaduto altre centinaia di volte, però in quel caso mi incazzai più del solito, era una cosa che mi toccava abbastanza da vicino in qualche modo. Perché le persone sentirono il bisogno di sputare letteralmente odio verso una persona deceduta che non conoscevano affatto?

Credo che la risposta vada ricercata nel fatto che non vi è nulla di più facile del puntare il dito contro qualcuno, ancora di più se morto. Per quanto triste ste sia dirlo è così: la persona accusata non si può difendere.

Ammetto che da bambino anche i miei pensieri tendevano verso quella direzione, ma non appena ho cominciato a ragionare con la mia testa mi sono cominciato a chiedere come fosse possibile attaccare una persona dicendo cose tipo “se l’è cercata”. Come si può non andare oltre l’ombra del proprio naso?

Questo a mio avviso fa capo a due problemi: in primo luogo vi è una palese carenza di empatia, che comincia sempre più a diventare l’oro della nostra contemporaneità. A dirlo non sono di certo io ma decine e decine di sociologi, psicologi e studiosi di ogni tipo che analizzano la società che viviamo, quella che Bauman definirebbe una “società liquida”.

Non a caso in Finlandia hanno deciso di introdurre alle scuole elementari delle “lezioni di empatia”, a testimonianza che il problema pur non avendo sintomi visibili, come potrebbe avere una malattia, è reale. Nessuno si riesce più a mettere nei panni degli altri, il mondo corre così tanto che non c’è tempo per capire le altre persone, si passa direttamente al giudizio.

Il secondo punto è a mio avviso da ritrovare nel bigottismo e nell’ignoranza tutta italiana. La maggior parte delle persone che commentarono in modo orribile la notizia di Cranio  Randagio palesavano il ritratto dell’italiano medio. Nulla in contrario fino a questo punto, se non fosse che era palpabile nei loro commenti la presunta conoscenza di un problema ‒ quello relativo ai giovani e alle droghe ‒ di cui non sanno proprio nulla.

Metterei anche la mano sul fuoco che mentre loro commentavano dal loro smartphone i loro figli utilizzavano le stesse droghe che demonizzavano nei loro commenti pieni d’odio. Se il consumo di sostanze è così alto, sta crescendo come non mai l’eroina che sembrava “debellata”, non è solo per “moda” e non possono essere tutti “drogati di merda”. Chiunque abbia girato un po’ le proprie città, l’Italia e il mondo si sarà sicuramente reso conto che qualcosa sta cambiando.

Decine di articoli parlano di come anche giovanissimi si avvicinano al mondo degli psicofarmaci, altri scrivono del numero sempre più alto dei suicidi tra i giovani e così via. Io personalmente non credo siano tutte questioni casuali e slegate tra di loro, ma vi posso assicurare che milioni di italiani sì. D’altronde non è mai comodo o bello parlare di disagi, depressione e simili, e quando lo si fa non lo si fa mai nel modo giusto. Quanto tempo ancora dovrà passare prima di riuscire a togliere la testa dalla sabbia?

La droga non è mai la scelta giusta, ma quello che ancora milioni di persone dovrebbero capire è che dietro qualsiasi tipo di sostanza, dalle meno gravi alle più gravi vi è un problema, che è sempre più attribuibile a tutta la nostra generazione.

Spesso la musica aiuta a superare dei brutti periodi fino anche a delle vere e proprie patologie psichiche, ed è il motivo per cui ad esempio io ho scoperto il rap, come tantissimi miei coetanei. Ma ogni caso è a sé e non sempre la musica basta. Sempre nel brano succitato Vittorio canta:

“Il rap è un visto per un randagio come me
Mi permette di partire e di alloggiare fra le rime
Terra di confine fra pace e pazzia
L’unico concime che sostenta la mia via”

Ghemon anche nel suo ultimo disco “Mezzanotte” e nelle interviste ad esso correlate si è messo a nudo parlando di depressione e dei problemi che ha avuto in passato. Credo che inevitabilmente questo abbia aiutato qualcuno nel farlo sentire meno solo, anche solo per un attimo.

Vittorio anche cercava di sputare i suoi fantasmi con la musica e purtroppo ha pagato il conto per tutti. Ma la sua musica rimarrà e se anche solo aiuterà una persona su un milione, sono sicuro che questo gli strapperà un sorriso, in qualsiasi luogo lui si trovi.