Ogni artista ha una storia e quella di Conway the Machine viene espressa nella maniera più onesta e cruda nel suo disco di debutto per Shady Records, God Don’t Make Mistakes.
God Don’t Make Mistakes di Conway è dannatamente rivelatorio
2012, la scena Hip-Hop è in un pieno momento di creatività rinascimentale. A dodici mesi dall’arrivo del nuovo protégé di Jay-Z e nel bel mezzo dell’eccitante attesa per il debutto in major di Kendrick Lamar, il Rap vive d’aria nuova anche nei club con la dirompente carriera di Future. Tutto il mondo ha gli occhi sulla scena americana e le due coste che 15 anni prima avevano creato un vero e proprio Vietnam musicale, tornano a brillare.
Ma anche nei luoghi più nascosti, più grigi degli States c’è sempre qualcuno che prova a fare la propria cosa e Buffalo si preparava a dire la sua. Nella contea newyorkese Conway the Machine è un MC in attesa del grande momento, qualcuno di stimato tra la sua gente che con il duro lavoro e la sua complessa vita poteva visionare con i suoi occhi ciò che non era ancora presente.
L’occasione della vita arriva in una notte, un’opportunità per l’MC di incidere la sua hit con French Montana. Le cose non sono andate esattamente come previsto e Conway di ritorno nella sua hometown è diventato protagonista di un episodio di estrema violenza. Colpito da diversi proiettili dalla schiena al collo, l’artista è sopravvissuto all’impossibile, una vera e propria partita a scacchi con la morte che quella notte è fuggita senza portarsi nulla con lei.
Nel Rap si sa, sono due le cose che amiamo più di ogni altra cosa, le hit e le storie. Quella del MC di Buffalo è biblica, la rinascita di qualcuno che non solo ce la fa ma ci riesce con il viso mezzo paralizzato e un tipo di Rap grime che punta il dito medio a tutto ciò che è mainstream.
Dopo la celebre firma con la Shady Records nel 2016, La Maquina ha progettato il suo God Don’t Make Mistakes per anni, regalando spesso ai suoi fratelli di label, strofe e brani del calibro di The Cow e City On The Map.
L’album arrivato da qualche settimana è il testamento di un uomo più che di un artista. Una persona colpita dal più profondo dei PTSD e che riversa nelle sue abilità le sue ansie più profonde. Quella notte del 2012 è strumentalizzata nella sua gloria:
Ever since them *iggas shot me, I just stopped givin’ a fuck – Lock Load
ma non è nascosta nei momenti più intimi, quando la realtà torna a tagliare come una lama:
Cryin’ in the mirror every time I look at my face – Stressed
È esattamente questo dualismo che rende Conway unico nel suo genere e uno degli artisti più interessanti degli ultimi anni. Nonostante l’estrema quantità di musica rilasciata precedentemente, God Don’t Make Mistakes è rivelatore e intimo. Conway apre il suo cuore agli ascoltatori in un modo così unico che è inevitabile pensare che questo non è solo il suo lavoro ma la sua terapia.
L’attentato alla sua vita non è stato l’unico ostacolo, dai problemi con la sua baby mama fino alla perdita di un figlio, Conway va alle radici della sua depressione facendosi bandiera dei sentimenti che spesso il Rap da strada opprime per nasconderli dietro violenza e materialismo.
La Maquina sente di essere molto più del classico artista di turno, So Much More ne è la manifestazione. Il fantastico beat dei J.U.S.T.I.C.E. League fa da palco ad uno dei flow più raw e organici di sempre mentre Chanel Pearls dimostra la versatilità di Conway con l’ospitata sensazionale di Jill Scott, ispirata a tal punto dal brano da rapparci sopra.
Tecnicamente God Don’t Make Mistakes suona come un disco in produzione da anni ma per i più validi dei motivi. È evidente che molte strofe, pensieri e beat siano stati salvati per splendere su di un progetto importante per l’artista che c’è dietro. Un MC che tiene alla propria arte e al concetto di album, un lavoro di attesa e perfezionamento che ricorda quello fatto da Kendrick dal 2009 al 2012 per good kid, m.A.A.d. city.
Ciò che sorprende più di tutto del progetto è il suo chiaro obiettivo. Anche nei brani dove gli ospiti sono numerosi come Wild Chapters e Tear Gas, Conway non perde tempo a fare a pugni con le ottime strofe di Lil Wayne e T.I. ed espande l’obiettivo del concept continuandone la narrativa con inediti spunti di discussione.
Ad esempio è chiaro che diversi momenti della vita abbiamo portato l’artista a pensare alla morte più del normale, versi come:
It’s gon’ take my untimely demise ‘fore they realize I was a legend. I can see the shit now, everybody postin’ they picture with a caption to make people think you really was my *igga – Tear Gas
offrono all’ascoltatore la più onesta delle sensazioni. Il cinismo dietro i pensieri del soldato Griselda Records è empatico e poeticamente espresso. Lo stress e l’ansia di Conway si riversano nella sua penna ma è il barlume di luce che produce il suo talento a rendere anche la più buia delle strade, chiara nel suo percorso.
God Don’t Make Mistakes nonostante il suo chiaro quadro tematico non manca di quella tipologia di brani che ci hanno fatto innamorare di Conway nel corso degli anni. Dal trio più amato in John Woo Flick alla braggadocious e inquietante Piano Love prodotta da Alchemist.
L’Alchimista ruba però la scena, tessendo a suon di batterie e synth l’incredibile title track che chiude il nostro viaggio più intimo nella mente di Conway the Machine. Con una serie di what If, Conway ridipinge per un’ultima volta la realtà vissuta pensando alle letali strade alternative che avrebbe potuto intraprendere. Nonostante la comprensibile diffidenza e l’ironia di un racconto che ha fatto del drama la propria gloria, è la voce di chi gli ha dato la vita a chiudere un disco dove la padrona assoluta è la morte.
God Don’t Make Mistakes è semplicemente uno dei più grandi album in circolazione.