L’Ultimo A Morire: l’intensa autobiografia di Speranza

Speranza l'ultimo a morire

Abbiamo analizzato L’Ultimo A Morire, il libro di Speranza edito a novembre da Rizzoli. Un intenso viaggio nell’autentica storia del rapper.

Se dovessi riassumere L’Ultimo A Morire – il libro di Speranza che deve il proprio nome al disco omonimo – in due parole, queste sarebbero alcol e strada. Il tomo edito da Rizzoli è un viaggio incredibile nella vita del rapper casertano: un insieme di confessioni, storie e prese di coscienza coraggiose, raccontate spesso con un pizzico di ironia.

Molti dei libri pubblicati negli ultimi anni da parte dei rapper italiani non sono stati altro che una sorta di gadget, del tutto simili alle uscite in libreria realizzate dagli Youtuber. Nessun rancore verso le case editrici o nei confronti degli artisti e dei content creator, ma basta fare un giro su Amazon per confermare quanto detto.

Le scelte di marketing in quanto tali hanno le loro ragioni, tuttavia credo che chi compra un libro scritto da un rapper vorrebbe leggere una sorta di autobiografia degna di questo nome e non un’accozzaglia di foto, testi dei brani e elementi già ampiamente presenti nella discografia dell’artista. Immaginate ad esempio se l’autobiografia di Jay-Z (ben 335 pagine) o quella di Agassi avessero avuto quest’impronta: sarebbe stato quasi ridicolo.

Dico questo perché, per fortuna (e testimoniando che è possibile scrivere una vera biografia di un artista), il libro di Speranza non rientra in nessuna di queste categorie: addirittura i richiami alla musica nello scritto sono davvero pochi, lasciando spazio a decine di episodi e flussi di coscienza sinceri e tremendamente umani. Con ogni probabilità L’Ultimo A Morire è stato scritto dallo stesso Ugo, o quantomeno a quattro mani con qualcun altro: c’è da gioirne.

In alcuni punti la forma narrativa lascia a desiderare, costringendo il lettore a dover tornare a leggere alcune righe, ma siamo sicuri che una forma ineccepibile avrebbe compromesso l’autenticità del libro. L’opera sembra una sorta di diario di vita in cui cronologicamente l’artista racconta di sé stesso e di quella che è stata la sua vita, a dir poco rocambolesca.

L’infanzia in Francia

Il rapporto tra Speranza e l’alcol fa da sfondo sin dalle prime righe, nelle quali l’artista racconta il rapporto con la sua famiglia e il trasferimento con la madre da Caserta a Forbach, in Francia.

“Mia nonna e mio nonno bevevano allegramente. Erano entrambi in pensione e non capivo perché lo facessero. Avevano creato un’ “associazione alcolisti”, era forse il loro modo di viaggiare e divertirsi. Se non fosse che la nonna spesso aveva allucinazioni e chiamava la polizia per dire che mi avevano ammazzato.”

L’infanzia di Ugo in terra francese scorre tra multiculturalità, delinquenza e una voglia di diventare grande che arriva davvero troppo precocemente, assieme alle prime sbronze. 

“Mio padre e questo nuovo padre che avevo mi trattavano da amico e mi portavano in giro a fare le cose che facevano loro. Di giorno frequentavo i miei coetanei ma la sera stavo sveglio fino a tardi con loro. Volevo essere come loro. E del resto venivo trattato alla pari da tutti. Quando durante l’estate tornavo a Caserta da mio padre, succedeva la stessa cosa, capitava spesso che uscissi con i suoi amici, anche quando lui non c’era.”

In un certo modo, in L’Ultimo A Morire, Speranza sembra quasi voler mettere il lettore nella condizione di poter conoscere più dettagli possibili riguardanti il proprio passato, per provare a fargli indossare i panni di un ragazzo come tanti, che – alla fine dei conti – non vedeva nessuna alternativa possibile nella propria vita.

“A dodici anni ho già imparato tutto quel che mi serve per vivere in mezzo alla mia gente. Nel rione avevo una comitiva di pregiudicati, sballati, drogati. Miseria, povertà, ignoranza, droga. Partecipavo da spettatore, certe cattiverie non potevo condividerle. Ma dovevi dimostrare di essere pazzo anche tu per non farti mangiare. Il margine era il mio mondo e lo difendevo anche se sapevo che era sbagliato.”

Ed è in questo contesto che, ancora giovanissimo, Speranza vive un episodio che avrebbe cambiato per sempre la propria vita.

“Avevo dodici anni. Una volante costeggia il muretto dove stavamo noi ad annoiarci. Li aggrediamo verbalmente. Loro scendono dalla macchina. I miei amici riescono a scappare ma io no. Una mano mi afferra. Gli agenti mi infilano nella macchina e mi riempiono di botte e manganellate. Lo spavento è così forte che da allora inizio a balbettare. Nessuno me lo ha mai fatto pesare. Ho imparato a considerarlo un tratto distintivo. Uno sfregio, una memoria animata, e anche un tocco di stile: come una presenza autonoma che affiora sul mio volto con un’espressione fissa. E alle donne piace: mi vedono come un essere indifeso.”

È nella decadenza sociale ed umana, in mezzo agli strati sociali di cui le nostre città sono piene – ma che fa spesso comodo non vedere – che scoppia la scintilla per la musica per Speranza, allora undicenne: un fuoco destinato a non spegnersi mai.

“Ma finiva che Furkan mi trascinava nella sua stanza. Era l’unico ad avere un computer e internet, e passavamo ore a scaricare basi rap. Diciamo che la mia musica nasce qui, in questo covo di rivoluzionari curdi. Furkan mi stampava roba porno e basi rap, mentre ascoltavamo musica curda, soprattutto Ahmet Kaya. Poi capisce come creare le basi, si appassiona, è bravo, e io ci scrivo sopra. Me le passa su floppy. Io che fino ad allora a casa ascoltavo solo cassette, riesco finalmente a procurarmi un computer. Poi trovo anche un microfono e comincio a registrare nella mia stanza. Scrivo roba tipo J’suis l’aigle des cités, le cauchemar des poulets! Così incido la mia prima cassetta. Sono già hardcore ma con una voce da bimbo.”

Anche negli anni delle superiori, come in un meccanismo oliato, la quotidianità di Ugo non cambia. Alcol, violenza e musica: queste le compagne di viaggio in dei giorni sempre uguali, scanditi solo da risse diverse, qualche ragazza e un quartiere che comincia ad essere sempre più una gabbia. 

“Io non ero violento, facevo cazzate ben strutturate. Assistevo alla violenza, faceva parte del gioco. Era lo stile della mia gente. In cuor mio la disapprovavo ma è facile trovare poi giustificazioni per non sentirsi un uomo di merda. Era quello che facevo. Ero sempre ubriaco. L’alcol ti rende meno sensibile. L’alcol non è stato per me un modo per dimenticare frustrazioni, una roba da depressi. Io ho cominciato presto, ero spensierato quando ho cominciato a bere. Per me l’alcol era diventato un progetto da portare avanti. Tutto è diventato tollerabile grazie a questo progetto. L’alcol trovava giustificazioni, la sofferenza quando affiorava finiva sulla carta. Nei versi, nella musica.”

Il ritorno a Caserta

Pochi anni dopo, in seguito alla letterale distruzione del suo rione (Behren-Lès-Forbach), Speranza decide di tornare in Campania e – non senza difficoltà e altri episodi infelici – si allontana lentamente dalla dipendenza dall’alcol, iniziando a lavorare come muratore insieme al padre naturale e concentrandosi sempre più seriamente sulla musica.

“Oggi so che le cose che ho visto o fatto non sono giuste. Ma allora non ci facevo caso. Ero corrotto, alienato e totalmente alterato dall’alcol. La coscienza è sbocciata quando ho diminuito il bere. Prima ero sempre offuscato. Non pensavo, non capivo niente. Ma Caserta è pronta a far da madre a chiunque. È la mamma grassa, con la tuta e il grembiule unto, i capelli in disordine, quella che non sa mai chi votare, la più ignorante, che ride sdentata delle barzellette sporche; ma cucina per tutti, dice sempre sì, e ti lascia fare quello che vuoi. Ho conosciuto tutte le follie del genere umano. Non mi sono mai scandalizzato. Per me era tutto normale. In Francia avevo vissuto la banalizzazione del crimine. A Caserta ho capito fino a che punto l’ignoranza può stravolgerti i connotati.”

Dopo aver parlato di diverse persone ed episodi, come in una sorta di seduta di psicoterapia Speranza, inizia a fare i conti sul come un certo tipo di infanzia e adolescenza abbia agito sull’adulto che è oggi. L’amore, in questo, sembra essere una perfetta chiave di lettura, portando l’artista a parlare di due storie importanti, avute con ragazze di culture e religioni diverse, terminate per sua scelta a seguito di un aut aut delle relative famiglie che lo avrebbero voluto come sposo.

“Speranza invece non mischia donne e musica. E “u frances” non si fida di quelle che vengono dopo il concerto e lo accarezzano, le vede come ladre che vogliono rubargli l’anima. Anche se una magari gli piace, se la dà a gambe. Ugo però è diverso, lui è per pochi. Devi fare una lunga camminata, un pellegrinaggio per essere ammesso al tempio del suo cuore congelato. Sono stato spesso ostacolato dalla cattiveria della gente. Ma io so aspettare. Il tempo è galantuomo. Ho indurito così tanto il mio cuore e congelato i sentimenti che credo di non sapere amare. Se lo facessi il cuore mi si frantumerebbe in mille pezzi. Io la vedo così e allora mi trattengo. Grazie alle esperienze che ho fatto da bambino con mio padre, il suo rapporto con le donne forse…​ per le femmine riesco a nutrire affetto ma non amore.”

Verso la fine del libro il flusso di coscienza del rapper si fa più intenso, arrivando a leggere probabilmente le righe più umanamente forti di tutto lo scritto.

“Io non sono stato protetto da bambino. Quando sono arrivato in Francia ho cominciato a vedere cose nuove per me che con il tempo mi sono sembrate giuste: i ragazzini musulmani devono coprirsi gli occhi quando c’è una scena di sesso in un film, per esempio. Io invece avevo già visto tutto. Non mi sono mai preoccupato per me, per la mia sofferenza. È un sentimento su cui non indugio. Ma ho sempre avuto paura che soffrissero gli altri. Mia madre mi chiedeva a volte se fossi felice e io le rispondevo di non preoccuparsi, di pensare a essere felice lei. Io la sofferenza la posso gestire. La gestisco benissimo tenendomi tutto dentro, ironizzando. Ma ho anche sviluppato una mia forza psicologica, mentale. Cerco di stare spensierato, di essere stoico. Succede, può capitare, mi dico, quando qualcosa va storto.”

Conclusioni

In una società in cui in tanti fanno a gara per mostrarsi un gradino sopra gli altri (e i rapper sono molto bravi in questo, anche oltre la musica), mostrarsi per quello che si è – come ha fatto Ugo – è un atto audace. Speranza avrebbe potuto senza troppi sforzi adagiarsi sulla figura di un rapper hardcore che ce l’ha fatta, o semplicemente “vendere” la sua storia in un modo diverso, ma ha deciso di non farlo. Con questo libro e nelle tante interviste che ha fatto è venuto fuori il suo animo, impossibile da catalogare, se non con un aggettivo abusato ma questa volta decisamente adatto: autentico.

Invitandovi ad acquistare il libro, vi lasciamo con la frase che più di tutte rappresenta L’Ultimo A Moriree la musica di Speranza.

“Voglio che la mia musica porti il bene a trionfare sul male.”

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  • Leggi la nostra intervista a Speranza cliccando QUI.