«Il terzo posto in FIMI è stata una vittoria»: intervista a Speranza

Speranza
foto di Roberto Graziano Moro

Speranza o lo ami o lo odi. Le persone che lo seguono non hanno un identikit preciso, hanno età e stili di vita tra i più disparati, ma tutti riconoscono una qualità all’artista di Iris: l’autenticità . Che Ugo fosse un artista diverso da tanti colleghi lo avevo capito conoscendolo per l’uscita del suo primo disco: nella prestigiosa sede Sugar a Milano, dietro il Duomo, si è presentato mangiando dei panini avvolti da carta argentata rigorosamente portati da casa, sorseggiando una birra Peroni.

L’approccio di Speranza non deve essere però confuso per ignoranza o stupidità, al massimo, prendendo in prestito il termine da Guè (e a sua volta da Kanye West) possiamo parlare di sofisticata ignoranza. La musica di Speranza infatti è tutt’altro che ignorante o stupida: per quanto possano esserci brani o barre più leggeri, la struttura dei pezzi, il vocabolario dell’artista e la tecnica del rapper metà francese e metà campano sono tutt’altro che semplici, banali o poco profondi.

Dal primo disco di Speranza, L’ultimo a Morire, sono passati quasi due anni: dopo l’album sono arrivati un libro, una versione deluxe, tanti live e, più recentemente, molte collaborazioni. Ma la carriera di Speranza tra i grandi è solo all’inizio, grazie anche alla firma di qualche mese fa con Sony: noi non possiamo che esserne felici.

La nostra intervista a Speranza

In occasione dell’uscita di Welcome to Favelas, l’ultimo singolo del rapper casertano, abbiamo raggiunto telefonicamente Speranza per sapere qualcosa in più dei suoi progetti futuri, di quello che è stato il suo recente passato lontano dai riflettori e non solo.

Buona lettura!

Ciao Ugo, non ti si vede da un po’ in giro, sei stato costretto ad annullare il tour e – per fortuna – non usi i tuoi social come un influencer (ma come un rapper): come stai?

«Allora diciamo che dal punto di vista umano sto sempre bene perché mal che va riusciamo a metterle a terra quattro patate (ride, ndr). Purtroppo come hai detto abbiamo dovuto annullare il tour, mi sarebbe piaciuto spingere il disco anche con i concerti in un certo modo, ma va bene così. Poi ho deciso quindi di prendermi del tempo, perché va bene stare sui social ogni tanto, però che senso ha fare sempre lo scemo sui social senza proporre nulla musicalmente? Perciò sì, mi sono un po’ distaccato da Instagram ma sto bene».

La tua carriera tra “i grandi” possiamo dire sia abbastanza giovane: non hai paura di perdere quanto conquistato non pubblicando singoli con una certa costanza?

«Sinceramente fare musica “Mc Donald”, pubblicando di continuo, non mi interessa. Per fortuna l’attesa tra un mio pezzo e un altro viene apprezzata, lo leggo nei messaggi che mi mandano le persone in cui ricevo davvero tanto affetto. Voglio fare le mie cose e penso che vengano apprezzate per come le faccio, le persone hanno capito chi sono. Nei DM mi chiamano più Ugo che Speranza, si sentono molto vicini a me, mi trattano come un fratello e questo è impagabile».

L’anno scorso ho letto il tuo libro, che consiglio a tutti, e questo mi ha permesso di conoscerti meglio al di là della tua musica. Anche nei tuoi brani però si possono scoprire molte più cose di quelle che un ascolto veloce potrebbe far pensare, come, per fare un esempio la rima “Succo di frutta, zucchero e mollica/ Ti trasformo la cella in un bar che si riferisce a una metodologia per fare l’alcol “artigianalmente” in alcune carceri francesi. Hai mai paura che la tua musica possa essere, in alcuni punti, troppo complessa da comprendere per tutti?

«È proprio così, ma non è casuale: le mie rime più “difficili” sono fatte proprio per la gente che riesce a capirle, per chi conosce un po’ di strada. Chiaramente faccio anche rime più sciolte e più “leggere” e ne farò ancora così per divertirmi, ma i miei messaggi velati non scompariranno mai, perché sono destinati proprio a dei diretti interessati. Alla fine parliamo di rap hardcore, viene da certe realtà, chi vuole intendere intenda no? Anche il Vangelo è stato scritto in maniera simile e mi pare che vada forte (ride, ndr)».

Come mai hai scelto di tornare con un brano come Welcome to Favelas?

«Ho voluto pubblicare un pezzo totalmente nel mio stile, non che non stia facendo una ricerca musicale in questi mesi, ma mi sembrava un pezzo bello forte per tornare. Negli scorsi mesi ho voluto anche essere presente in decine di featuring perché volevo far capire alle persone che non ero sparito e ho voluto provare a rappare in altre situazioni».

Qualche settimana fa è uscito il nuovo album di Rafilù e tu sei presente nella traccia Il mio vino, che parla del vostro rapporto. Come è nato il pezzo e come è cambiato il vostro rapporto negli anni?

«È un brano a cui sono molto legato, Rafilù mi ha voluto per una collaborazione forse diversa da quella che le persone si aspettavano, su un beat molto più calmo del solito. È una specie di lettera d’amore tra noi due, che abbiamo un rapporto d’amicizia molto forte. Quando dico “Due ubriaconi di merda hanno ribaltato l’italia” (“Duje ‘mbriacune ‘e merda hanno arrevutato l’Italia”) è perché il nostro rapporto è nato praticamente al bar, e mai avremmo pensato di riuscire a girare l’Italia dopo qualche tempo. È quasi più un pezzo per noi due che per gli altri».

Alla fine dietro l’apparenza si nasconde una certa sensibilità…

«Esatto, perché alla fine noi siamo così. Sembriamo cattivi ma è per difesa: se mi porti rispetto ti do il doppio, se mi hai conosciuto te ne sarai reso conto. Tutti siamo profondi sotto sotto, chi non lo è n’omm’ ‘e merd’ (ride, ndr)».

Parte del tuo primo disco lo hai scritto anche in Francia, nel tuo vecchio quartiere. Torni ancora lì per scrivere?

«Io scrivo sempre, non ho tanto bisogno di un’atmosfera precisa per farlo, so quello che devo dire. Quando scrivo in Francia per certi versi è meglio, quando sono lì e mi affaccio sul mio rione dal balcone di casa mi sembra di vivere un videoclip istantaneo e questo mi aiuta meglio a immaginare i pezzi, ma a parte questo riesco a scrivere ovunque».

Cosa consideri più casa, Caserta o la Francia?

«Ti direi che per me il mondo è casa, ho fatto una vita da vagabondo, sono stato molto anche in Est Europa, raramente ho avuto modo di percepire come “mio” un luogo, appena mi trasferivo mi adeguavo al luogo in cui mi trovavo. Tutto il mio passato però mi ha formato, conoscere più culture mi ha dato una visione molto ampia e mi ha permesso di scrivere meglio. Tante mie rime sono dirette ad alcune culture, mi capita per esempio che un marocchino venga a dirmi che ha colto alcune cose nella mia musica e sono contento quando le persone se ne accorgono».

Speranza
foto di Roberto Graziano Moro

Fai ancora il carpentiere?

«Purtroppo o per fortuna no, dal Covid ho smesso e purtroppo poi è venuto a mancare anche l’anziano con cui lavoravo e ho colto l’occasione per dedicarmi solo alla musica».

Immagino che la disciplina che ti ha dato il lavoro te la sei portata anche nella musica però…

«Il lavoro fortunatamente ti insegna una routine, se sei stato abituato ad avere certi ritmi riesci a risolvere tante cose quando fai musica. Credo sia naturale, come sei stato formato continui a fare anche fuori dal contesto lavorativo precedente».

C’è qualcosa che avresti fatto di diverso ne L’ultimo a morire?

«Assolutamente no, zero rimpianti. È stato percepito bene, la prima settimana andammo terzi in FIMI e per me fu una vittoria incredibile. Quasi mi preoccupo perché non c’è stato un commento davvero negativo (ride, ndr)».

Per adesso quindi nessun disco in vista?

«Per adesso posso dirti che scrivo, registro e quando è necessario pubblico, poi se ci saranno i presupposti arriverà il nuovo disco».

Cosa ne pensi del boom che ha avuto il rap napoletano negli ultimi anni o temi possa essere una bolla destinata a scoppiare?

«Ricordiamoci che stiamo parlando di rap e non di musica. Un po’ come quanto accaduto in Francia (noi rispetto a loro siamo indietro forse di una ventina d’anni), ho sempre pensato che quando i rioni sarebbero riusciti ad avere una rivincita e affermarsi con il rap, sarebbe stato un grande momento. Prima i rapper a Napoli erano considerati quasi come i paninari a Milano negli anni Ottanta, invece nel corso del tempo questo genere ha sostituito il neomelodico e sono usciti giovani forti. Poi ci sta che possa arrivare qualche critica o incidente di percorso ma fa parte del gioco. Spero che il processo iniziato non si fermi nei prossimi anni, a Napoli come nelle altre città».

Foto di Roberto Graziano Moro