Intervista a Davide Shorty: il soulful hip-hop come comandamento

Davide Shorty

In occasione della pubblicazione del disco fusion., abbiamo fatto qualche chiacchiera con Davide Shorty, parlando dell’esperienza Sanremese, di razzismo, di influenze musicali, di artisti preferiti e tanto altro ancora.

Davide Shorty: Metto tutto me stesso per mantenere in salute l’hip-hop soulful

Partiamo ovviamente da Sanremo. Un bilancio: com’è? Ha soddisfatto le tue aspettative? Ti aspettavi qualcosa di diverso in termini di attenzione del pubblico

«Sicuramente per me è stato positivo, l’occasione di calcare un palco importante come quello di Sanremo. Sarò sempre grato della possibilità e dell’esperienza. Me la sono goduta. Personalmente, quando faccio una cosa competitiva, io la faccio con me stesso. La mia aspettativa è dare il massimo e farmi ispirare.»

Probabilmente mai come nelle ultime edizioni Sanremo ha attinto dall’urban e dall’indipendente italiano: credi faccia bene a questi mondi o c’è il rischio che stiano “usando” semplicemente quello che ora funziona?

«Che sia l’uno o l’atro poco importa. Una piattaforma grande come quella di Sanremo credo sia un’opportunità per farsi sentire. Sia una voce. Sul palco possono esserci artisti come Madame o come Colapesce e Di Martino, La Rappresentante di Lista, così come Ghemon: per quello che mi riguarda è tutto di guadagnato per quello che facciamo. Si stanno ridefinendo un po’ gli standard. In giro per il mondo ci sono artisti indipendenti, che pur non essendo mainstream fanno tour mondiali tutti sold-out. Non vedo perché in Italia, non si possa seguire la stessa linea. Qui Sanremo è tradizione. Di contro, si può dire che ha un sistema di gestione piuttosto datata, che si può migliorare ma che stanno migliorando. Ci vuole del tempo, Sanremo c’è una volta all’anno… comunque si sta aprendo!»

Il genere musicale da te rappresentato in realtà è di transizione tra l’hip-hop e il funky, tra il nu-soul e il jazz. Si fa fatica ad etichettarlo…

«Guarda, se fai fatica ad etichettarlo chiamalo hip-hop. Perché è hip-hop, punto. Il fatto che ci sia del jazz, il fatto che ci sia del soul, che ci siano degli altri generi, non toglie la matrice hip-hop.»

Sono pienamente d’accordo! Uno degli artisti che nel corso degli anni, attraverso diversi cambiamenti, è giunto ora in questa dimensione musicale è Ghemon. Vi vediamo abbastanza affini, dal punto di vista musicale…

«Assolutamente sì! Io devo tantissimo a Ghemon per tanti motivi. Io da piccolo ascoltavo più o meno quello che ascoltava pure lui, poi successivamente ci siamo connessi e siamo diventati amici. Quando uscì E poi all’improvviso impazzire per me quel disco era la Bibbia. Ridimensionò il mio modo di rappare. Piuttosto che parlare attraverso il rap solo di strada, potevo dire altro. non mi sentivo più il solo a voler comunicare qualcosa della mia sfera emozionale o sentimentale. Quindi ho cominciato con più naturalezza ad utilizzare il rap. A utilizzare queste sonorità senza il bisogno di sentirmi in colpa. Se vedevo uno come lui che lo faceva tranquillamente, mi sentivo libero di farlo pure io. Vedere Gianluca, che oltre che un collega e un amico per me è un esempio, e sapere che la mia musica viene accostata alla sua mi fa piacere. Lui mi ha trasmesso tantissimo. Lui come Tormento, Stokka & MadBuddy… tutti artisti che sono stati fondamentali nella mia crescita.»

E invece artisti americani? Ce n’è qualcuno che magari ti ha ispirato più di altri?

«Ce ne sono tantissimi! Attualmente, il mio artista preferito è Anderson .Paak. Che si nota abbastanza nel modo in cui faccio musica, penso che si veda. Ci sono tante sonorità affini. Quando usci Compton di Dr. Dre era l’estate 2015. Io lo comprai su iTunes, perché Spotify ai tempi ancora non se lo cagava nessuno. Ci ascoltai al sui interno Anderson .Paak e ne andai completamente pazzo. Poi a gennaio 2016 uscì il suo secondo album, Malibu. Io non conoscevo ancora, a quel tempo, il suo primo album, Venice e rimasi totalmente folgorato! Dissi: “Merda, questo fa esattamente quello che voglio fare io ma 50mila volte meglio!

Comunque, negli ultimi sei anni ho preso consapevolezza di essere un bianco italiano. Devo rispettare una forma d’arte che è parte della comunità afroamericana. Una comunità marginalizzata, nel corso della storia. Quindi mi sento di fare quello che faccio sempre con il massimo del rispetto, ma comunque mantenendo le mie radici. Non mi sembra il caso di appropriarmi di qualcosa che culturalmente non mi appartiene, per di più sfruttandolo, a scopo di lucro, ai danni delle persone che lo hanno creato. Se io prendo dello spazio, lo tolgo a qualcun altro. Quindi se lo faccio, lo devo fare con il massimo del rispetto e mantenendo la mia matrice italiana, perché è quello che sono. Sono bianco e sono siciliano.

Ad ogni modo, tornando agli artisti americani che mi hanno influenzato ce ne sono tantissimi. La mia Top Three storicamente era Common, Black Thought (dei The Roots) e Mos Def (o Yasiin Bay, come si fa chiamare adesso). Come rapper della mia generazione invece vedo su tutti Kendrick Lamar, che ha solo un paio di anni più di me. Senza dubbio è la punta di diamante della scena hip-hop americana, per quanto mi riguarda oggi. Un altro ancora che mi ispira molto ogni volta che esce qualcosa, anche per la realtà che ha costruito intorno a sé, che è Dreamville, è J Cole. Tutto il collettivo che ha creato: Bas, J.I.D., Ari Lennox. Mi fa impazzire anche la scena di Chicago: Noname che è bravissima, che aveva avuto un piccolo screzio proprio con J Cole… Poi mi piacciono molto Smino, SABA… insomma ci sono tantissimi artisti.»

Comunque mi sembra che tu la scena americana la segua molto da vicino!

«Io la scena americana la seguo da sempre! Io sono un cratedigger, mi rovino per comprare i dischi! Cerco di essere sempre informato su tutto. Mi piace “scavare” trovare musica nuova, artisti giovani… Ti sto nominando artisti hip-hop perché è il mio primo amore, il genere di musica da cui ho preso di più. Però ho preso anche dalla scena jazz o da artisti come D’Angelo della scena Nu-Soul, Jill Scott, Erykah Badu… Spesso mi dicono “hai il timbro di John Legend” io dico Ni. Perché l’artista a cui mi sono ispirato per avere quel tipo di timbro lì, anche se viene sempre dalla stessa scuola, è Phonte. Phonte è uno dei due rapper dei Little Brother, a fianco a Rapper Big Pooh. Phonte, con il suo progetto The Foreign Exchange mi ha dato un esempio di come trovare una chiave di lettura al mio genere, facendo coesistere rap e melodia. Il primo disco, Connected ed il secondo, Leave it all behind, sono probabilmente i 2 dischi che ho ascoltato di più in vita mia.»

Cambiamo argomento, parliamo di strumentali. Il mondo urban, spesso è criticato perché i suoi artisti spesso non sono “musicisti” nel senso stretto del termine, spesso le produzioni vengono effettuare solo con un computer

«Dipende. Ti invito a ricalibrare la domanda. Il termine “urban” penso che sia un termine scorretto e abbastanza discriminatorio.»

Hai ragione, mi correggo. Facevo riferimento ad esempio a Noyz Narcos, che un po’ di tempo fa, dichiarava di non saper suonare nessuno strumento e che un rapper, in quanto tale, doveva limitarsi a scrivere barre.

«Non c’è niente di male a non saper suonare strumenti, ognuno fa musica come si sente.»

Mi sembra invece che nei tuoi dischi invece sia molto importante che le basi siano suonate davvero, anche nei live. È giusto?

«Suonate o non suonate… dipende. Per me è una cosa dettata dal momento. Dipende dal bisogno.»

Causa Covid, siamo già a 2 stagioni senza live. Come hai vissuto la lontananza dal palco?

«Per me è stato terrificante. È stato davvero pesante e brutto, mi mancano terribilmente i live e spero ce li facciano fare quanto prima.»

Questa situazione di pandemia abbiamo visto che è stata gestita dagli artisti in maniera diametralmente opposta: alcuni non hanno trovato stimoli e di fatto hanno bloccato la loro attività, altri, magari chiusi in casa nei periodi di quarantena, hanno colto l’occasione per buttare fuori un po’ di idee che avevano in cantiere. Com’è stato invece per te? Quando è avvenuta la scrittura del disco? lo avevi preparato a prescindere dalla pandemia?

«Alcuni brani sono rimasti in stallo per 2 anni, quindi da prima della pandemia. La pandemia sicuramente ha bloccato tutto, ma a livello globale, tutto l’universo. Quindi in questi casi dobbiamo accettarlo e guardare quello che abbiamo, non quello che ci manca.»

Nonostante tu abbia presenziato in diversi contesti mainstream, secondo alcuni risulti ancora un emergente o vicino a questa definizione. Ti senti di aver raccolto meno di quanto seminato?

«Mi sento sempre in continua evoluzione, non mi sento arrivato.»

Restando su questi temi, un artista come te, date anche le circostanze che impediscono i live e gli instore, riesce a vivere della musica?

«Ai miei livelli fortunatamente sì. Se sei un artista totalmente indipendente, con un seguito, un musicista… si.»

Vediamo spesso rapper ostentare ricchezza, quando invece andrebbero promossi modelli più virtuosi e umili, basati sul lavoro. Cosa ne pensi a riguardo?

«Quando vedo ostentazione, arroganza, un certo tipo di attitudine nei confronti della vita da parte di certi artisti, anche se chiamarli artisti è opinabile, ho creato un vero e proprio filtro e non li guardo proprio. Guardare certe cose mi creerebbe solo fastidio e nervoso, togliendo tempo a quello che voglio fare realmente nella vita.»

Se da un lato è giusto che solo chi vive il razzismo – percependone il disagio – ne possa parlare, dall’altro, secondo molti, il rap dovrebbe esporsi di più sia su questo tema che su altri topic, come i danni sociali del patriarcato. In questo eterno dibattito, secondo te, dove dovrebbe posizionarsi la musica?

«La musica ha un ruolo fondamentale. Bisognerebbe iniziare a utilizzarla in maniera intelligente. Non sono d’accordo sul fatto che possa parlare di razzismo solo chi lo vive. Anzi, le persone che sono vittime di razzismo, non è che per loro “sia dovuto” parlare di razzismo, proprio perché per loro è un trauma. Dovremmo essere noi bianchi, che partiamo da uno stato sociale privilegiato, che dovremmo denunciare e cercare di combattere questo privilegio per rendere il mondo più equo. La musica potrebbe fare tanto se gli artisti decidessero di essere più impegnati.»

Recentemente abbiamo intervistato Al Castellana e lui, per certi versi, ha perso le speranze per quanto riguarda il riuscire a portare il soul e le sue derivazioni ad essere più conosciuti e apprezzati in Italia. Tu cosa ne pensi? È una guerra persa per sempre?

«Io dissento, dicendo di guardare ad esempio Anderson .Paak e Bruno Mars. Dissento dal maestro Al, che io adoro e so anche che mi ha nominato proprio in quell’intervista, insieme a Ghemon. Essere nominato da Al Castellana, che è un mostro sacro sicuramente è una grandissima soddisfazione per me. Però ti dico, scusami fratello mio, io non credo che sarà sempre così. Anzi, è proprio per merito di persone come Al che ci sarà modo di fare questa musica e renderla più grande, alla portata dell’ascoltatore medio. Questo è merito dei pionieri, e Al Castellana in Italia è un pioniere. Io sono giovane, sono un classe ’89, devo dire che a 31 anni penso di poter dare ancora tantissimo alla musica e potermi aspettare tantissimo dagli artisti, in generale. Spero di cuore che il mondo vada sempre più incontro a qualcosa di complesso. Celebrare la complessità è qualcosa di meraviglioso e dovremmo farlo più spesso.»

Per il futuro, cosa dobbiamo aspettarci da Davide Shorty?

«Sicuramente tanta nuova musica. Spero di riuscire ad essere sempre meglio. Il mio sogno è quello di rendere la musica soulful italiana internazionale. Vorrei potesse uscire fuori d’Italia, come accade in Francia. Il genere, le potenzialità secondo me ce le avrebbe. Io me lo auguro. Vediamo… Quello che ti posso assicurare è che io ci metterò sempre tutto me stesso, per fare in modo che questa musica goda di ottima salute.»

Grazie mille della disponibilità!

«Grazie a te, vi abbraccio forte.»