«Non ho mai pensato di lasciare la musica» – Intervista a Deda

Deda

Pensare di rivedere il nome di Deda su un disco, per molti appassionati di rap di vecchia data (e non), rischiava di rimanere un desiderio inesaudito. Invece nel 2022, a 51 anni, dopo più di vent’anni dai successi con Neffa, Deda – al secolo Andrea Visani e noto anche come Chico MD o Katzuma – è tornato sulla scena con un producer album.

House Party, il ritorno discografico di Deda: la nostra intervista

Difficile, se non impossibile rivederlo al microfono, ma accontentiamoci, per così dire, di House Party – questo il titolo del disco di Deda – un progetto con tanti interessanti nomi al suo interno: Frah QuintaleJake La FuriaEmis KillaGemitaizEnsiComa CoseSalmoDavide ShortyGhemonFrank SicilianoDannoSean MartinInokiMistaman e Al Castellana.

In dieci brani l’artista che, tra le altre cose, ha contribuito al primo disco di rap italiano della nostra storia, ha impresso il suo suono adattandolo ai vari artisti, permettendoci di godere di produzioni fresche e difficilmente imitabili.

Abbiamo colto l’occasione per fare qualche domanda a Deda sul suo nuovo disco e sulla ultratrentennale carriera di un artista che molto ha dato al rap e alla musica italiana. Buona lettura!

La prima domanda è quasi scontata: come mai nel 2022 arriva un nuovo progetto di Deda?

«L’idea di fare questo album risale ormai a quattro-cinque anni fa. Le cose che stavo facendo come Katzuma iniziavano ad arrivare in territori abbastanza vicini a cose che cominciavo a sentire nella scena italiana, soprattutto in quella non strettamente rap. Da subito ho apprezzato ad esempio la musica di Frah Quintale e più di una volta sentendo le sue cose ho pensato che mi sarebbe piaciuto produrre qualcosa per lui, infatti una delle prime cose che ho fatto come Deda dopo anni è stato produrre per lui La Calma nel 2020. Avevo voglia di misurarmi con questo mondo che in Italia stava diventando più maturo e vario e quindi ho pensato spontaneamente di coinvolgere anche artisti più rap per questo progetto. D’altronde produrre oggi per il rap non è più come vent’anni fa, puoi permetterti più libertà stilistiche, ci sono meno dogmi. Realizzarlo è stato facile, sicuramente mi ha aiutato il fatto che conoscevo molti degli artisti presenti e c’era un rapporto di stima reciproco con loro». 

La scelta degli ospiti è stata quindi molto naturale immagino…

«Sì, ho scelto artisti che mi affascinavano e vecchi amici. Cerco da sempre di lavorare in questo modo e mi piace ospitare artisti con i quali ho condiviso molto, divenuti nel tempo amici. È stato questo il filtro che ho utilizzato per scegliere le persone».

Le produzioni le hai pensate per ogni singolo artista o erano già idee abbozzate?

«Ad ogni artista ho proposto magari più di una base ma erano tutte cose pensate specificatamente per l’artista stesso. Nel disco ho artisti molto diversi da loro, per me è stato naturale fare così, ed è una cosa che mi piace fare: produrre basi che possano essere adatte all’artista, senza però penalizzare le mie idee».

Nome più, nome meno, credo che nel corso degli anni tu abbia avuto circa quattro alter ego musicali. Cosa c’è dietro questa scelta?

«È una cosa che mi piace fare, identificare i capitoli della mia produzione con un nome specifico. Quindi quando nel 2000 ho pensato di iniziare a produrre musica che non fosse per il rap, in maniera spontanea ho pensato di utilizzare un altro nome. È una cosa che ho fatto poi altre volte nel corso di questi anni di produzione musicale, ne ho utilizzati anche alcuni molto oscuri (ride, ndr) con cui ho fatto qualcosina. Tuttavia mi sembrava giusto per questo progetto ritornare al mio nome iniziale perché lo vedevo proprio come un cerchio che si chiudeva. Per ospitare Neffa, Al Castellana, Sean ed altri amici di vecchia data non potevo non firmarmi come Deda.

A livello musicale però ogni capitolo non è un compartimento stagno, le influenze sono molte da progetto a progetto, e credo che nel disco di sentano influenze di Katzuma e di quello che ho fatto nei miei ultimi 15 anni. Anche suonare con la band a lungo ad esempio ha influenzato tanto la mia musica, è impossibile separare nettamente ogni immaginario, la musica scorre».

Ti ho visto più volte dal vivo a bologna come Katzuma. Capitava che girasse la voce che tu avessi voluto rompere totalmente con il rap, mettendoci una pietra sopra quasi con rancore. Immagino fossero classiche voci che circolano, ma come vivi questa cosa?

«Parti dal presupposto che ho smesso di rappare da circa vent’anni. Nel corso di questo tempo quindi il mio rapporto con l’hip hop è sicuramente cambiato. Inizialmente il mio obiettivo era sicuramente segnare una linea netta, volevo fosse chiaro che Katzuma era un nuovo inizio. Con il mio background nell’hip hop spesso le persone mi collegavano a quello, non che mi dispiacesse ma volevo che la differenza fosse chiara. Nel corso degli anni ho girato molto con un dj set, spesso con dei musicisti, e  volevo che nelle serate le persone non si aspettassero di ascoltare rap. Nel frattempo ho sempre ascoltato l’hip hop e frequentato ambienti in cui ce n’era tanto. A Bologna negli anni abbiamo fatto diverse serate con altri artisti di questo mondo come Lugi o Frank Siciliano. Ad ogni modo credo che oggi la gente sia sempre più disponibile ad ascoltare più generi in una sola serata, vedo più apertura da questo punto di vista».

Anche grazie al digitale…
«Si, ma credo anche che la testa dei ragazzini sia cambiata. La musica è sicuramente identificazione, anch’io a vent’anni dicevo “suono solo hip hop” perché mi sentivo parte della comunità, ma col tempo ho capito che la musica è bella ovunque, è solo questione di trovarla e apprezzarla».

E chi ti chiede se tornerai mai a rappare ti fa sorridere o incazzare?

«Di base fa piacere, perché se me lo chiedono significa che ho lasciato un bel ricordo nelle persone. A volte mi fa sorridere perché me lo chiedono ragazzi giovani che non si rendono conto di quanto tempo sia passato, a volte ad alcuni lo dico chiaramente: “io ho smesso di rappare quando tu stavi nascendo”. In alcuni momenti è stato quasi ingombrante, ma poi ci ho fatto l’abitudine. Non credo comunque che tornerò mai a rappare, ormai ho un’età che mi preclude abbastanza questa strada». 

Invece la scrittura in senso ampio è una cosa che ti stimola?

«Sì, assolutamente, mi capita spesso di scrivere ed è una cosa che mi piace molto. Anche per questo il rap mi è cominciato a stare stretto dopo un po’: scrivere rap in un certo modo richiede un’attenzione ad ogni singola parola quasi maniacale. Invidio molto i rapper che riescono ad esprimersi alla grande tramite il rap, che è un genere che per forza di cose pone dei limiti, la rima in primis. Questo ti preclude per forza di cose una serie di soluzioni lessicali che potrebbero essere più interessanti per il significato ma che devi abbandonare per rispettare la formula. Quindi sì continuo a scrivere in prosa, e anche se lo dicono tutti lo dico anche io (ride, ndr) che un giorno vorrei scrivere un romanzo o qualcosa di simile».

Voglio fare un passo indietro, ai tempi di Isola Posse. Quando eravate in quella situazione, riuscivate a percepire di star facendo qualcosa di nuovo in Italia?

«Da un lato eravamo un gruppo di ragazzini, diciottenni circa, quindi c’era sicuramente tanto entusiasmo e incoscienza. Allo stesso tempo sapevamo che scrivere rap in italiano all’epoca era qualcosa che quasi non esisteva o comunque erano casi isolati, per di più difficili da intercettare non esistendo il digitale. Quindi sicuramente avevamo la sensazione di star sperimentando qualcosa di nuovo, ma era per noi era una cosa totalmente spontanea, istintiva e per certi versi incosciente».

Rimanendo sempre a Bologna, secondo te come mai negli anni non si è riuscita ad affermare come scena mainstream? In una vecchia intervista hai detto che secondo te essendo una città Universitaria anche da un punto di vista musicale risente di una sorta di ciclicità…

«Forse potremmo ribaltare la questione e chiederci come mai nei Novanta Bologna fosse un centro importante per il rap italiano: anche all’epoca forse era qualcosa di strano. Bologna sicuramente ha una vita culturale intensa ma rimane una città un po’ più marginale rispetto le metropoli. Per risponderti, sicuramente c’è la componente dell’industria che ha influito e quindi nel momento in cui il movimento ha iniziato a funzionare in tantissimi si sono trasferiti a Milano per una questione meramente logistica.

Nonostante ciò Bologna non si ferma mai: abbiamo un’ottima scena underground e qualche nome che è riuscito a emergere a livello nazionale. Sicuramente mancano i momenti di aggregazione che c’erano anni fa, ma probabilmente è proprio per il tema della ciclicità. Comunque ci tengo a ribadire che la scena a Bologna è più viva che mai, non voglio fare nomi per non dimenticare nessuno, ma c’è tanta qualità in tutti i generi musicali: una parte del video di Universo è stata girata proprio in alcuni di questi locali in cui si creano belle situazioni tutte le settimane». 

Ne approfitto allora per chiederti: come nasce il video di Universo? Immagino sia stato naturale girarlo a Bologna…

«Il video per me ha un significato importante: la storia gira attorno alla giornata di questo musicista che vive la musica come studio e passione, senza i momenti di riflettori e denaro che ultimamente la gente associa alla musica automaticamente. Io ho invece voluto raccontare che per me la musica dev’essere prima di tutto passione, anche a costo di farla di fronte a poche persone. L’approccio che ho avuto per il video è emblematico: nel video c’è la mia cagnolina, la mia compagna Valentina, i musicisti con cui suono da dieci anni ed infine il corto è girato dai miei fratelli con cui condivido lo studio, che frequento tutti i giorni. Ho voluto includere le persone a cui voglio bene, per di più nei panni di loro stessi nella loro quotidianità. I ragazzi che lo hanno girato sono appunto di Undervilla, agenzia che tra l’altro ha fatto tantissimi video hip hop negli ultimi dieci anni. Il video non poteva che essere girato a Bologna, nelle strade che frequento da una vita».

 Il tuo approccio alla musica è chiaro, ma hai mai pensato di mollarla?

«Grazie al cielo no. Recentemente contavo gli anni, sono circa 35 anni che faccio musica, oggi ne ho 51 e ho iniziato a 16. Ho capito abbastanza presto che per continuare a tenere la passione viva dovevo assecondare i miei interessi, le mie curiosità, anche a costo ogni tanto di sterzare bruscamente nel tragitto che stavo seguendo, cercando di fregarmene di quello che la gente si aspettava. Grazie al cielo poi la prima fase della carriera è stata remunerativa, con Neffa abbiamo azzeccato due tre hit e di fatto oggi suono quasi tutte le settimane. La musica mi ha ripagato ma ad oggi ti posso dire che me lo sono meritato, perché mi sono sempre mosso verso quello che mi piaceva. Se smetti di divertirti secondo me ha senso solo se guadagni un sacco di soldi  – e il divertimento lo prendi da altro (ride, ndr) – oppure la tua musica ne risente e una giornata in studio ti pesa quasi come 8 ore in ufficio».

Come pensi di portare il disco in giro?

«Purtroppo il formato producer album per sua natura è difficilissimo da portare dal vivo, anche solo radunare qualche ospite diventa molto complesso. Mi piacerebbe comunque portare in live un dj set speciale che possa presentare al meglio questo progetto, che in molti momenti secondo me si presta benissimo ad essere suonato in una serata».