Ka: poesia dall’underground

Ka

The corner’s a stage of rage, I go perform Poche parole, rivolte a noi ascoltatori, da un artista fin troppo sottovalutato. Sembra quasi riprendere le parole di Jacques che, in “Come vi piace” paragona il mondo ad una vivida rappresentazione teatrale. Stavolta, il palcoscenico su cui si apre il sipario è un “angolo” di quella strada su cui Ka, con le sue barre, proietta la luce. Dai sobborghi newyorkesi, che hanno formato MC come KRS-One, emerge la figura di Kaseem Ryan.

Ka, dai versi alle barre: il poeta del rap

Rime come calcare, con il flow che fa da malta. Cristallizzare in poche righe un personaggio come Ka, quasi non ci permetterebbe di dargli giustizia. Rapper, produttore, ma soprattutto un poeta, che, semplicemente, preferisce le barre ai versi. Lui stesso, nel parlare dei suoi pezzi, li descriverebbe come un cimelio per chi rimpiange l’hip hop dei primi anni ’90.

Immaginiamoci soli, sotto una Luna che detta i passi dei nostri pensieri. Lo sguardo è basso, quasi a non voler fissare negli occhi il silenzio attorno a noi. Il freddo pungente di una monotona serata d’inverno si fa più intenso, mentre i rari sbuffi di vento ci accompagnano svogliati. L’irreale quiete è solo il contorno di quella rabbia che, come un ossimoro vivente, esce dalle nostre cuffiette.

Beat ridotti all’osso, quasi minimalisti, in cui la ritmica è scandita da un timbro basso ma deciso. Le parole si susseguono in quello che sembra un sommesso flusso di coscienza. Non possiamo rispondere, solo ascoltare, quasi fossimo i Dottor S. di un redivivo Zeno.

Ora, seguiamo il consiglio che lui stesso da durante una delle sporadiche interviste concesse nell’arco della sua carriera. Dopo un respiro profondo, prendiamoci qualche istante per trovare un posto isolato in cui fermarci. Il cielo ha già spento le luci per noi. Ormai, siamo completamente soli, immersi in un buio che non fa più così paura. Proprio in questo spazio di solitudine, la voce di Ka, trova spazio.

Ka, da Brownsville (Brooklyn), poeta di strada, preferisce le rime ai versi
Ka, da Brownsville (Brooklyn), poeta di strada, preferisce le rime ai versi

Dietro i testi: anatomia di un rapper

Per me la musica è il colore. Non il dipinto.”

Fermiamoci qualche istante, immersi nel buio, ad osservare la tela. La prima cosa che salta all’occhio sono i colori, scarni, come se avessimo davanti semplicemente una timida sfumatura. Il ritmo, appare monotono, laddove persino il suono della batteria è leggero. Un timbro inusuale, fa da sottofondo al nostro lento avanzare. Non stiamo ascoltando una canzone, ma un monologo interiore, dal taglio spoken word.

Ka, ci trasporta in un luogo diverso dal mondo che conosciamo. Inizialmente, è a tinte nere e bianche, come fosse uscito da una vecchia e malfunzionante videocassetta. Noi siamo delle mere pedine, mentre la notte fa la sua mossa. Nella prima tappa del nostro viaggio, siamo spettatori di un crudo documentario del ghetto.

Strade perdute, diventano il tavolo attorno al quale si gioca una partita a scacchi con la vita. Dio non c’è, guarda altrove, mentre ascoltiamo la storia dell’ennesimo pedone caduto sulla scacchiera. Nato nella giungla di cemento, cresciuto troppo in fretta tra smog e proiettili. Ogni barra racconta scenari che ci parlano, rivelando una storia in cui tradimento e resilienza si intrecciano.

Rakim parlava del modo in cui naufragava sul foglio, come fosse inchiostro. A Brownsville, invece, nacque un artigiano del rap, non un semplice artista. Ispirato dal dolore, in preda a mille dubbi, che tratteggiano il ritratto di un uomo tormentato.

“… these were known as samurai.”

Armato come un demone, barre dure come Tamahagene, le sole alleate in angoli di strada dimenticati. Proprio la musica, l’unica ad avergli dato una ragione per essere ancora vivo, ora si rivolge a noi. Sentiamo il rumore metallico di una spada, gettata a terra, mentre anche la scintillante armatura giace ai nostri piedi. Le cicatrici restano, ma Dio non mette mai di fronte a prove che non siamo in grado di superare.

L’onore uccise il Samurai, il suo corpo pesante cade e il rumore è sordo. Nato tra le spine, destinato a sfiorire, Ka descrive un eroe distrutto dal tormento. A metà tra la sopravvivenza e la rigida via del Bushido scandita da una batteria monotona.

Un immaginario crudo, impresso con forza in una vecchia ukiyo-e. Sono immagini da un mondo che, da tempo, ha smesso di fluttuare. Il disilluso guerriero commette seppuku tra le barre. Parliamo di Bushido, ma lontani dal Giappone feudale. Nessun ciliegio, ma rimane un solitario fiore sull’asfalto.

You can tell I’m in fact a native

I live this vivid shit, I ain’t that creative

Mentre ogni frase è dolore, Brownsville diventa Nod, a oriente di Eden. Ogni rima sembra la cinepresa che proietta, tra le barre, una storia. Siamo nella platea, di fronte ad un piano sequenza che punta sempre sullo stesso destino. La solitudine di Enoch, è anche la nostra. Come ricorda Ka, l’uomo fu fatto a Sua immagine e somiglianza. Eppure, nonostante la somiglianza, seguire la giusta strada non è mai stato così difficile.

D’altronde, ognuno di noi è discendente di Caino.