Una delle novità più interessanti della scena underground italiana si chiama Peter Wit, ed è fuori ora con Giovani d’Oggi, il suo nuovo disco pubblicato da Payback Records. Sulle nostre pagine abbiamo già parlato di lui in diverse occasioni, ma non avevamo ancora avuto l’occasione di scambiarci qualche parola. Questa ci è sembrata l’occasione giusta.
Peter ci ha concesso questa intervista e ci ha presentato meglio la sua storia, il suo rap, le sue ambizioni ed il suo percorso. Di seguito potete trovare la nostra chiacchierata.
Intervista a Peter Wit, una delle rivelazioni più concrete di questo 2025: “Faccio quello che voglio nella label più figa d’Italia!”
I lettori più fedeli di Rapologia hanno già sentito parlare di te diverse volte, ma dal momento che anche su internet ci sono poche informazioni riguardo a te, ci piacerebbe partire con una tua breve presentazione: come ti chiami, quanti anni hai, da dove vieni, che lavoro fai, quali crew rappresenti e da quanto tempo rappi?
«Mi chiamo Peter William Colussi, ho 21 anni e sono nato e cresciuto a Segrate. Da un annetto e mezzo ho cambiato lavoro e sto facendo l’elettricista, ma ho iniziato a lavorare in cantiere facendo il manovale a 15 anni. Rappresento 54, che più che una vera e propria crew è la mia compagnia, comprende tutti i miei amici e i ragazzi della mia zona. Non ho mai dipinto ma posso dire con molto orgoglio di rappresentare anche PHM, crew storica delle mie parti. Rappresento Payback, che oltre ad essere la mia etichetta è una famiglia, oltre che un progetto che ho visto nascere, in cui ho creduto e credo ciecamente. Un abbraccio a tutti i ragazzi»
Dal momento che sei molto giovane, ci chiedevamo, come hai iniziato a rappare? In quali contesti, con chi lo facevi all’inizio e con quali punti di riferimento nella scena italiana?
«Ho iniziato a rappare per scherzo da giovanissimo, intorno agli 11 anni, ho conosciuto questo mondo grazie a mio fratello che guardava i video dei Dogo sul computer che avevamo a casa, e a mia sorella che ha sempre fatto breakdance. I primissimi punti di riferimento che ho avuto furono proprio i Dogo grazie a Thomas, ed Emis grazie a Emily. Facevo freestyle a scuola con qualche amico, poi sempre più frequentemente ai portici di Segrate, ogni volta che c’era occasione. Ho iniziato a scrivere qualche traccia rubando su YouTube qualsiasi beat mi piacesse, ma la prima persona che mi ha messo davanti a un microfono è stato Mauro, ad oggi uno dei miei migliori amici, al tempo un amico di mio fratello quando avevo 13 anni e lui ne aveva 18. Passammo un annetto a fare musica poi fondammo un gruppo che si chiamava Effetto Otto, e pubblicammo la prima canzone nel 2018. Sorprendentemente ricevetti solo commenti positivi a riguardo, e mi fece capire che avrei voluto farlo per tutta la vita. Eravamo solo io, Mauro e nostro fratello Alessandro Negri che faceva i video. Fortunatamente non si trova più nulla su YouTube, ma ricordo quel periodo come uno dei più belli della mia vita. Andavamo a suonare ovunque ce ne fosse la possibilità, agli open mic a San Felice abbiamo conosciuto i ragazzi della Status Squad, Morto (RIP) e tutti gli altri, che già lo facevano da parecchio tempo e andando avanti si creò questa situazione fighissima per la quale ogni volta che c’era occasione andavamo a suonare, più che in qualsiasi altro posto al CSA Baraonda, tutti assieme con le rispettive compagnie. Praticamente ogni volta che chiamavi uno di noi arrivavano 7/8 rapper e diventava un live unico. Nel 2019 pubblicai il mio primo mixtape, oggi inascoltabile, che ebbe un discreto successo dalle mie parti, chiunque in zona ne parlava, e da lì capii che avevo davvero trovato la mia strada. I miei amici sono stati fondamentali nel mio percorso perche mi hanno sempre spronato a farlo nonostante facessimo tante cazzate all’epoca, per questo sono cosi tanto legato a 54»
Com’è nato il tuo rapporto con Egreen ed il roster di Payabck?
«Nico lo conobbi tramite mio fratello Neazy Nez dopo l’uscita del suo disco Nicolas, su cui Nez aveva prodotto Skyline. Organizzò un contest di brani mettendo a disposizione i suoi beat e disse a Nez, con cui io avevo già fatto 2 dischi, di dirmi di partecipare. Partecipai, vinsi, e aprii il suo live al Magnolia di quel tour. Ci tenemmo in contatto e ricordo che venne a beccarmi in svariate occasioni, sia in zona che al lavoro, e si rese disponibile da subito di aiutarmi a gestire le pubblicazioni e ad insegnarmi a gestire questa cosa come un lavoro. Con lui si è creato un rapporto davvero solido e fraterno e ad oggi, oltre che essere il mio manager, è una delle persone più vicine a me nella vita di tutti i giorni»
Come si sente un giovane rapper emergente come te, alle prese con un lavoro necessario per coprire le spese e allo stesso tempo il sogno/progetto di dedicare energie alla musica?
«Questa domanda è stupenda. Si sente il desiderio di avere delle giornate di 48 ore per riuscire a gestire tutto quanto. Ci si sente stanchi dei giorni e inarrestabili degli altri. Ci si sente come tutti quei personaggi dei film che hanno un alter ego ma senza una maschera. Ci si sente spesso non in grado di gestire tutto quanto, si vive con l’ansia di lasciare sempre indietro qualcosa e non aver fatto abbastanza. Però è stupendo quando sono al lavoro e pubblico qualcosa, sbirciare il telefono da sopra una scala o ogni volta che ce ne è occasione per controllare come sta andando. Stupendo è anche cercare di finire tutto in fretta per staccare presto e sapere di avere “quel qualcosa” che mi aspetta»
Com’è nato Giovani d’Oggi? Lo hai scritto di getto o è stato un processo lungo?
«Il disco è nato in un momento molto buio in cui non mi stavo assolutamente dedicando alla musica, stavo trascurando sia lei che me stesso, da cui non sarei riuscito a uscire se non fosse stato per Nicolas e la mia ragazza Martina. L’unico pezzo che avevo già pronto era Tutta la Vita, mentre Giovani d’Oggi era soltanto la bozza di un ritornello nel caos delle mie note. All’ennesimo “porca puttana Peter devi metterti a scrivere, quello che stai facendo non ti porterà nulla di buono” di Nico ho deciso di darmi una svegliata. Era appena morto Pane, ed il primo pezzo che ho scritto è stato l’Outro. Appena ho finito di scriverlo ho ripescato la bozza di quel ritornello e ho capito che era il momento di usarlo e che il disco si sarebbe chiamato cosi. Non scrivevo da mesi, mi ci sono dedicato tutti i giorni e in una settimana ho scritto tutto quanto. Per la prima volta ho abbandonato il modo in cui ho sempre scritto, molto freestyle e ho trovato un concept, un titolo o un ritornello prima di scrivere ogni pezzo. Direi che tutto sommato poteva andare peggio»
In questo disco abbiamo visto anche diversi brani meno “impulsivi”, diciamo più ragionati, come può essere Nuova Parola, che è un vero e proprio esercizio di stile. Come nascono brani di questo genere? Hai difficoltà a realizzarli?
«Come dicevo nella domanda precedente, ho trovato il concept prima di scrivere le strofe in ogni traccia, e ad essere onesto non l’ho mai trovato così facile. Per quanto riguarda quel pezzo in particolare era un idea che avevo da parecchio tempo, avevo riascoltato The Big Picture di Big L e al suo interno c’è Ebonics, pezzo clamoroso, e volevo fare la stessa cosa. Ho pensato che se avessi rubato l’idea per quel pezzo come minimo avrei dovuto metterci degli scratch del pezzo originale e, per ovvi motivi, quella barra di Guè. Trovato il beat ci avrò messo un ora a scrivere quella roba. Poi Nico ha coinvolto MS, che saluto calorosamente, che ha impreziosito il tutto con degli scratch fenomenali, ed il gioco era fatto»
Allo stesso tempo, abbiamo apprezzato tantissimo anche i brani estremamente personali, come quelli dove sentiamo citazioni a persone a te care. Cosa rappresentano per te questi brani?
«Brani di quel tipo, come dico nell’Outro, sono per me una forma di terapia, non sono uno che parla molto di cosa gli frulla in testa, scriverli mi ha sempre aiutato molto a sfogarmi. Il mio manager mi ha ripetuto tante volte che l’unico modo per fare la differenza è arrivare al cuore delle persone parlando di cose in cui ci si può immedesimare, quindi all’interno di un disco del genere pensavo fosse fondamentale mettere a nudo il mio lato più emotivo. Poi passatemela, a differenza di tanti colleghi sfigati che giocano a fare i gangsta e ad atteggiarsi da sto cazzo io certe cose le ho fatte per davvero, e se dovessi parlare solo di quello potrei andare avanti per giorni, ma non ne vado fiero e soprattutto chi si rispecchierebbe? Sono molto contento che lo abbiate apprezzato, davvero.»
Qual è il vero Peter Wit? Quello con le barre affilate e i giochi di parole tecnici o quello più intimo e riflessivo?
«Credo che il vero P sia nel mezzo, il mio obiettivo sarebbe riuscire a creare un connubio tra le due cose, ma penso che guardando una prospettiva futura non mi basterebbe essere quello tecnicamente bravo. Voglio dire delle cose. E ne ho ancora tante»
Nel corso degli ultimi progetti (incluso questo) ti abbiamo sentito rappare su beat molto diversi tra loro: su quali ti trovi meglio e come avviene la loro scelta?
«Ad essere onesto non ne ho mai fatto una questione di genere, ho sempre avuto la fortuna di lavorare con produttori molto bravi e ho sempre usato qualsiasi beat mi piacesse. L’unico requisito che deve avere un beat è piacermi e farmi venire in mente qualcosa da dire. Sicuramente trovo più facile scrivere su dei beat classic o che comunque girano dagli 80 fino ai 100 bpm, quella è sempre stata la mia zona di comfort. In questo disco sono stato all’interno della mia zona di comfort per riuscire ad esprimermi al meglio, e credo che lo farò per un bel po’, ma nella vita non si sa mai.»
Come ti trovi con Payback Records? Quanto incidono gli altri membri del roster nella realizzazione dei tuoi progetti o al contrario quanta libertà ti viene lasciata nella scelta delle pubblicazioni, delle collaborazioni o dei beat?
«Sto da dio. Faccio letteralmente quello che voglio. Come già detto, credo tanto in questa cosa, sono fiero di essere parte della realtà underground più figa d’Italia»
Hai pensato cosa succederebbe se una major dovesse venire a bussare alla tua porta (a patto che non sia già successo)? Qual è la tua idea sul proseguo della tua carriera?
«Penso che devono darmi davvero tanti soldi per farmi firmare. Non so quanti, ma davvero tanti. Ho firmato un solo contratto di lavoro in vita mia ed è quello che mi dà da mangiare. Se mai dovessi firmarne un altro, dovrebbe valerne la pena e darmi la possibilità di dare le dimissioni. Voglio di vivere di musica e ce la farò, che sia da indipendente o con un contratto. Mio nonno diceva sempre “meglio soli che mal accompagnati”…»
Cosa dobbiamo aspettarci dal tuo futuro immediato? Porterai in tour Giovani d’Oggi? Hai già un calendario?
«Il 21 dicembre porterò il disco dal vivo a Milano al Nuovo Anfiteatro Martesana e sarà una vera festa. Colgo l’occasione per invitarvi, sarete i benvenuti. Per il futuro ci saranno un po’ di novità di cui vorrei tanto ma al momento non posso parlare, però vi garantisco che ne vedrete delle belle. Parola.»
Ringraziamo Peter Wit e lo staff di Paypack per averci dato l’opportunità di fare questa intervista. Continuate a seguire Rapologia per restare aggiornati su tutte le sue prossime pubblicazioni.


