L’età nel rap è un’utopia

Superbowl Halftime Show dr dre eminem

Il genere più influente viene troppo spesso limitato dal fluire del tempo mentre artisti e ascoltatori distolgono la loro attenzione dagli obiettivi principali.

L’arte può essere senza tempo, anche nel rap

È scontato pensare che nell’era dell’immediata soddisfazione, un genere che basa la propria profondità in elementi come la complessità tecnica e lo storytelling rischia di andare in crisi.

Per crisi non si parla di numeri o l’incapacità di raggiungere la vetta delle chart, ma della scomparsa dell’albero principale al centro di tutti i rami: quello che spesso viene inteso come identità, o cuore, di una cultura in costante mutamento al servizio oggigiorno anche di altre forme arte. La capacità di mutare, di adattarsi non solo a tutti gli stati d’animo dell’ascoltatore ma anche alle svariate sfaccettature del mondo moderno, hanno reso il rap il genere più affascinante e il primo in cui i suoi rami spesso finiscono con l’essere più importanti del tronco principale.

Questo tende a creare una crisi strutturale dove lo scheletro non riesce più a reggere i muscoli; una crisi che spesso può sfociare anche in sciacallaggio e culture appropriation.

L’Hip-Hop come cultura è nella sua forma migliore quando l’applicazione della sua arte è un mix di istintività emotiva e premeditazione logica. Di conseguenza va a sottrarsi a qualsiasi tentativo di volerlo etichettare secondo quello che pensiamo debba essere o suonare.

Le old hip-hop head non sono più l’unica minaccia alla creatività e evoluzione del nostro genere preferito. Il tempo, quello stesso fattore che presenta il rap come uno dei generi più giovani al mondo, oggi viene spesso strumentalizzato per classificare la qualità dei prodotti, eventi e nomi legati a questa musica.

La ragione dietro questi atteggiamenti è da identificarsi in diversi fattori. Fan, media ma anche addetti ai lavori (specialmente chi è dietro a tutto) che hanno ridefinito il tempo in uno strumento di lusso solo di chi ha saputo sfruttarlo fin da subito (il successo mainstream di Kendrick Lamar e la lunga attesa per il suo prossimo capitolo discografico sono correlati).

Con la sempre più drastica diminuzione della soglia dell’attenzione del consumatore e l’ormai infinita accessibilità che lega il fan a chi crea musica, la necessità di presentarsi sempre come una novità per catturare quanto più momentum possibile è il più allarmante dei segnali.

Esattamente come prima i nuovi arrivati facevano i conti con chi viveva nel passato cercando unicamente la replica di ciò che aveva già apprezzato, oggi gridare al vecchio è probabilmente ugualmente nocivo.

Una nuova intervista di Tremaine Emony (creative director di Supreme) a Pusha T tratta di questa nuova dinamica in cui il tempo viene posto anche contro i più grandi:

La mia sfida non si basa sul diventare il più grande rapper al mondo. La mia sfida è mostrare quanto vitale è lo street hip-hop e per quanto a lungo può durare al di là di Jay-Z. Quando vedo i Rolling Stones, non li chiamo “vecchi”, li chiamo semplicemente rock stars. Mettiamo il tempo e il limite d’età sul più giovane dei generi musicali. È la cosa più terribile al mondo.

Le parole di Pusha mostrano di come la questione sia completamente diversa in altri generi musicali. Oltre al suo esempio sui Rolling Stones, basti pensare all’elettronica, dove il focus non è su quanti anni abbiamo Burial o Four Tet ma su quanto è unica e preziosa la loro tecnica.

Se pensare che il problema intacchi solo i più anziani vi sbagliate. La pressione dell’illusorio “ora” e della novità pesa gravemente anche sulle menti dei giovanissimi che cercano di farcela. Non vi è mai capitato di dover sentire più di un album nello stesso giorno ma non riuscire a distinguerli musicalmente?

Il problema del suonano tutti uguali esisteva anche prima ma era legato alla necessità di attaccarsi sui muri del mainstream che girava ancora su regole fisse e ripetitive. Regole di mercato che venivano spesso stravolte da chi ne proponeva di nuove senza però considerare l’orologio come strumento di misura principale.

Oggi etichettando l’arte come vecchia o nuova si rischia di creare momenti illusioni che non riescono a superare neanche i 7 giorni successivi alla data d’uscita in cui l’autenticità è il primo elemento ad essere sacrificato. Ricorrere alle deluxe version della settimana dopo non basta più, per riprendere quell’attenzione e quindi quei click, c’è bisogno di organicità e autenticità.

Elementi che un artista come Pusha T si fa vanto di avere da sempre.

Considerando che la sua carriera è iniziata negli ultimi anni 90’, un percorso insieme al fratello che lo ha portato ad abbracciare il mondo del web con i mixtape, a diventare solista e a ritrovare anche in quelle circostanze un successo ancora maggiore.

Nonostante i giganti di cui si circonda Pusha T, il pubblico lo attende per sentirlo rappare. Molti MC alla sua età cadono vittime del concetto di tempo o alienandosi  e proponendo schemi e ideali fino a renderli frivoli e poco eccitanti o risultando forzati e finti nella drammatica corsa alla rilevanza.

Penso che molto di questo derivi dal non abbracciare la nuova energia e non accettare i giovani, guardando dall’alto al basso i sub-generi del hip-hop e cose come questa.

Ed è quest’esatto atteggiamento descritto dal rapper, la ragione per cui quello che chiamiamo vecchio è una questione di mentalità e approccio, non di nome e longevità.

Ovviamente artisti come Eminem, Nas e Jay-Z hanno fatto i conti con questa considerazione e ognuno ha scelto di abbracciare la questione in modo diverso.

Nas ha smesso di vivere nelle promesse del passato, passando da un disco mediocre prodotto da Kanye West a diventare un drago senza età facendosi alimentare artisticamente dal più giovane Hit-Boy. Eminem nel 2017 ha fatto il primo passo falso della sua carriera con un disco che voleva accontentare tutti (anche i giovanissimi) suonando confuso e forzato. Ne è valso un ritorno di fuoco in cui il suo eclettico e complesso flow abbracciava una schiera di produttori giovanissimi in un mix letale e accattivante. Jay ha scelto la strada più introspettiva, smettendo di voler dettare le leggi nelle chart e regalandoci delle opere d’arte fuori dal tempo e quindi incomparabili con le misure di quest’ultimo.

Oltre questi titani però, sono numerosi gli artisti che nonostante la loro età sono ancora galline dalle uova d’oro messi da parte da inutili pregiudizi e soverchianti classificazioni.

Come scritto precedentemente, anche i media giocano un ruolo in tutto questo, andando a valutare persino i momenti consacratori della storia dell’hip-hop in chiave errata.

Basti pensare all’ultimo grande evento nella cultura, il Super Bowl di Dr. Dre. Molti hanno scelto di descrivere l’iconica notte evidenziando più l’età di chi ha fatto spettacolo nello stadio di Los Angeles che della musica senza tempo esibita. Un traguardo che l’Hip-Hop aspettava da tempo.

Domandarsi la fascia di età a cui era destinata questa performance vuol dire limitarla ad un lasso temporale illusorio dato che ognuno dei brani presentati non conosce età. Brani come Still D.R.E. e Lose Yourself sono le nostre Stairway to Heaven e We Will Rock You e se neanche i fan riescono a vederla in quest’ottica, nessuno lo farà.

L’atteggiamento è nocivo e rischia di portare a svalutare una cultura che anno dopo anno arricchisce la propria storia raggiungendo traguardi storici.

Il vero atteggiamento fuori tempo è considerare ancora questa musica come un gioco da ragazzi.