«Ho fatto il disco che volevo fare da una vita» – Intervista a Don Diegoh

Don Diegoh

L’11 febbraio è uscito Addio, a Domani., il nuovo disco di Don Diegoh, per Macro Beats. Dopo tre dischi pubblicati in coppia con alcuni produttori (Mastrofabbro, Ice One e Macro Marco) questo album si presenta come progetto solista del rapper e, considerata l’atmosfera intima del disco, la scelta è risultata molto azzeccata.

Incuriositi da questo progetto e di come a 36 anni possa nascere un disco del genere in una scena rap sempre più frammentata e attenta all’apparenza, abbiamo scambiato due parole con il rapper calabrese.

La nostra intervista a Don Diegoh

Ciao Diego, la prima domanda è scontata: quando e come nasce questo disco?

«Nasce durante il primo lockdown, soprattutto la prima parte è stata concepita a Roma in quel periodo. Trovandomi come tutti in quella situazione, ho sentito l’esigenza di inquadrare meglio alcune cose nella mia vita. Ho poi comprato un microfono e ho registrato i primi provini. Il concept del disco forse nasce proprio da quel periodo. L’introspezione – che è un po’ il filo logico di tutto il disco – è un bisogno che tutti abbiamo ma per scavare a fondo c’è bisogno di tempo, quindi quale miglior “occasione” del lockdown? C’è anche una rima che dice “ti ho sognata cento notti in quarantena”, che è un po’ lo specchio di quei lunghi giorni».

Tra l’altro è stato studiato come in quel periodo la nostra attività onirica aumentò particolarmente…

«Sì, assolutamente. Io poi in realtà lavoravo molto, con il fatto che io e miei colleghi eravamo tutti in remoto capitava di lavorare fino a sera inoltrata. Quindi il tempo di fare il disco era paradossalmente meno, fu un po’ una sfida, ma era anche un modo per rimanere in contatto con alcuni amici».

Scrivevi con type beat sotto, avevi già produzioni oppure come hai lavorato?

«Dipende, io e Macro abbiamo a un certo punto scelto in che direzione andare. Nel frattempo mandavo tanti provini a gheesa e lui produceva di conseguenza, oppure mi mandava delle cose e io ci scrivevo».

C’è una sola collaborazione, la scelta nasce dall’introspettività del disco?

«Non solo. Volevo sentire questo disco maggiormente “mio” dopo 3 combo album di fila. A ciò si aggiungono problemi di natura logistica che, negli ultimi 2 anni, hanno impedito le collaborazioni di persona con altri artisti. Prediligo l’incontrarsi in studio rispetto al lavoro a distanza e ho provato a trasformare questa impossibilità in un’opportunità per fare di più e per contare maggiormente sulle mie forze».

In diversi punti del disco parli di salute mentale e di situazioni correlate, a volte in prima persona, altre come riferimento più nascosto. Negli ultimi anni tanti artisti, Marracash su tutti, si sono esposti su questo tema. Cosa ne pensi? C’è il rischio che la cosa diventi una pseudo moda?

«No. Per me è assolutamente un bene. Il Rap è un linguaggio che parla chiaro alle persone e può essere una terapia sia per chi lo fa che per chi l’ascolta. È uno strumento per approfondire determinati temi, quindi per me è assolutamente positivo usarlo per guardarsi dentro. Tra l’altro, hai colto un punto del disco: una delle parole chiavi del lavoro è la “notte”. Intesa non come momento della giornata, ma in senso figurato come un periodo della vita. A me fa piacere se si pensa che il disco non parli solo di amore, perché è così: affronta anche tematiche legate a diverse tipologie di stati d’animo. Non è comunque la musica che risolve determinati stati d’animo negativi, ci sono i professionisti deputati a questo genere di supporto, ma la musica sicuramente è un aiuto».

Prima del Covid giravi parecchio per l’Italia per fare live. Il non farli ha cambiato la tua musica? Che futuro vedi per questo settore?

«Al di là dei live mi è sempre piaciuto viaggiare, quindi non mi manca tanto il live di per sé ma lo stare in giro. Per quanto riguarda la seconda domanda, in questi anni abbiamo assistito a un omicidio verso alcune realtà. Il nostro genere vive anche e soprattutto di piccole realtà attive sul territorio e nel corso dei mesi assieme al bollettino dei deceduti e dei contagiati c’era anche il bollettino delle attività che chiudevano per sempre. Io chiaramente faccio il mio lavoro, non ho le risposte per questo problema, ma come in tutti i momenti di crisi che abbiamo passato, c’è la possibilità di rinascere anche meglio di prima. Però bisogna volerlo. E dal Governo, nonostante le tante associazioni nate a difesa degli artisti e dell’intrattenimento, non sembra esserci mai stata una seria risposta per tornare a una (nuova) “normalità artistica”. Non so come andrà, ma la musica è condivisione e la condivisione non può prescindere dal momento live. Dunque, senza live non si può stare».

Potrebbe essere un'immagine raffigurante 1 persona, in piedi e il seguente testo "S PTEL HOTEL"

Nel corso degli anni la scena rap è cambiata molto, COVID a parte. Tanti tuoi colleghi coetanei hanno un occhio critico verso certe dinamiche, gossip e non solo. Ti rivedi ancora nel rap italiano? Hai mai pensato non valesse la pena pubblicare più nulla?

«Questa è una bella domanda. Io mi trovo benissimo, questa generazione è piena di ragazzi talentuosi. Quanto alle critiche, io ho 37 anni e non ho più l’esigenza di dire la mia su tutto: succede un qualcosa di cui tutti parlano? Io non ne ho più il bisogno, sinceramente. Altrimenti la musica cosa la fai a fare se l’attenzione la prendono altre cose? Certo è che a volte rimango un po’ basito da alcune cose che escono anche io, non lo nascondo. Però non fino in fondo, perché poi quando escono le canzoni Rap di un certo tipo le persone tornano ad essere attente e avere voglia di questa cosa. E se smettessi di pubblicare le cose in cui credo, farei un torto a chi il Rap lo ama come il primo giorno. A prescindere».

Sono usciti tantissimi dischi negli ultimi anni. Credi la qualità ne abbia risentito?

«Secondo me era così anche prima. Anche prima uscivano tanti dischi pessimi, ma magari non lo venivi a sapere. Il vero problema è che la soglia dell’attenzione si è abbassata così tanto che ormai i dischi belli passano in sordina e lasciano il passo a dischi che hanno dietro tanto budget marketing e tanta promozione, amplificati dai media di settore come capolavori anche quando non lo sono».

Cosa ti aspetti da questo disco?

«Sarei falso se ti dicessi che non mi interessa cosa ne penseranno le persone, paradossalmente vorrei tante critiche, perché se arriveranno vorrà dire che le persone avranno ascoltato l’album (ride, ndr). È un disco Rap alla fine, magari diverso dai miei ultimi, e se mi diranno che è diverso dal passato sarei contento perché significa che sono riuscito ad evolvermi».

In questo disco ti sento a tuo agio per certi versi, in altri momenti la sofferenza è palpabile. È stato un disco sofferto?

«Farlo è stata una liberazione, è stato un disco nato per lasciare una volta per tutte alcune cose sul foglio. Non è un album nato dal “dolore dell’amore”, ma ha l’obiettivo di mettere a fuoco certi concetti un po’ più nascosti tra le immagini che riguardano più me stesso che l’amore. Anche nel titolo c’è la voglia di abbandonare certi stati d’animo, sapendo che potrebbero tornare. Sono molto contento di questo disco, volevo farlo da anni, da quando ho scritto alcuni pezzi come Tutto l’oro, Porte chiuse, Replica, Lunedì. Volevo mettere un sigillo su una mia parte che non era uscita cosi tanto e sentivo la necessità di scrivere un disco di canzoni che fossero sincere, profonde, legate alla mia sfera personale».

Credo che la barra che riassuma il disco sia “per dire queste cose ci ho messo 36 anni”…

«Mi fa piacere tu dica così. È l’unico pezzo del disco in cui do del tu ma parlando di me, anche se in diversi punti è presente un’altra persona nel testo. Ricordo perfettamente quando ho scritto il testo a Milano, dov’ero seduto e che emozioni provai. Credo sia uno dei miei pezzi migliori e non è un caso sia alla fine del disco. Un giorno ho chiamato Marco (Macro Marco, ndr) e gli dissi “Tu devi esserci nel disco”, dopo poco mi disse “ok, ho la base” e da lì è stato tutto in discesa, il pezzo si è scritto da solo. Dopo averlo chiuso ho pensato per un attimo di aver detto tutto quello che volevo dire su un beat. È un po’ una Lettera d’amore pt.2».