Con PeteStrumentals 3 Pete Rock si reinventa e non tradisce

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Più direttore d’orchestra che beatmaker, Pete Rock sforna PeteStrumentals 3 con l’apporto dei Soul Brothers.

Il 2020 è stato un annus horribilis sotto tanti aspetti, ma non per quanto riguarda la produzione musicale, soprattutto in ambito di black music. Childish Gambino, Thundercat, Run The Jewels, Public Enemy sono solo alcuni degli artisti che, con le loro uscite discografiche, hanno allietato le orecchie di pubblico e critica. In chiusura d’anno, a degna conclusione dello stesso, Pete Rock ha rilasciato PeteStrumentals 3, terzo capitolo, pubblicato dalla Tru Soul Records, della fortunata saga strumentale inaugurata nel 2001.

Un lavoro che iscrive il 50enne dj newyorkese nella lista degli artisti più ispirati del momento. Annunciato ad agosto e poi rimandato all’11 dicembre scorso, il disco ci mostra un Pete Rock perfettamente a suo agio nelle vesti di direttore d’orchestra, nel vero senso della parola. Accompagnato da una band impeccabile, The Soul Brothers, che vede Daru Jones alla batteria, BigYuki alle tastiere, MonoNeon al basso, Marcus Machado alle chitarre e Jermaine Holmes alle voci, Peter Phillips (vero nome di Pete Rock) fornisce un’ulteriore dimostrazione di come sia uno dei pochi, in ambito hip hop e non solo, capace di sfornare un album interamente strumentale, o quasi, senza mai annoiare.

Il sound è fresco, pulito, con un bilanciamento pressochè perfetto tra le parti suonate e i rari intermezzi vocali, rap o soul che siano. Per ispirazione e scelte musicali, questo Pete Strumentals 3 rappresenta la perfetta evoluzione della saga: eccellente il primo capitolo, da party d’alta classe, più grezzo ma non privo di interesse il secondo atto. C’è l’instrumental hip hop (suonato e non campionato), c’è il soul, c’è il funky, c’è la psichedelia. Tolti un paio di episodi trascurabili, sono tanti i brani che meritano una citazione specifica.

I tre singoli pubblicati finora, ovvero Say It Again, Rejoice e So Good, sono tutti apprezzabili. Say It Again, che è anche il pezzo apripista dell’album, è uno sfoggio di classe che sembra quasi ricordare il Michael Jackson dei primordi, quello di Off The Wall per intenderci. Di livello più ordinario Rejoice mentre So Good vanta echi acid jazz alla Incognito.

Chef Pete non ha dimenticato nessuno degli ingredienti necessari per sfornare un gustoso piatto black. La classica chitarrina funky da telefilm anni ’70 spadroneggia in Told Y’All. Heavy presenta una bella ritmica in stile Stax/Motown, con innesti jazz e blues per un mix alla St. Germain. Ritroviamo la matrice jazzy nella conclusiva Undone Funk, un matrimonio perfettamente riuscito tra antico (Booker T. & The M.G.’s) e moderno (J Dilla).

Disco classico, a suo modo, ma anche sperimentale: di sapori psichedelici sono intrise tracce come Super Soul Brother, PR e Swag. Quest’ultima, riflessiva e sognante al punto giusto, sfodera sonorità alla Calibro 35, da anni il miglior gruppo italiano, a giudizio di chi scrive (off-topic: andatevi a recuperare Momentum, tra le gemme di questo 2020 musicalmente così felice). In PR la batteria sembra suonata dal mai troppo celebrato Questlove, mente e anima dei Roots, su un tappeto sonoro alla Fly Like An Eagle, vecchia hit della Steve Miller Band.

Nulla di rivoluzionario, in definitiva. Ma questo terzo PeteStrumentals è troppo ben suonato e troppo ben prodotto per non essere apprezzato da tutti i cultori della black e della buona musica in genere. I brani sono della durata giusta (mediamente breve), i tempi morti ridotti al minimo. Del resto, se fai parte di un gotha di beatmaker che annovera gente come il compianto J Dilla, Madlib, Dj Premier e RZA, un motivo ci sarà. Well done, Mr. Phillips.