«Per questo disco non ho fatto nessun tipo di promo perchè volevo vivesse solo della sua musica» – Intervista a Kiffa

kiffa

A poco più di un mese dall’uscita di Clessidra, il suo ultimo lavoro, abbiamo raggiunto telefonicamente Kiffa per sapere qualcosa di più su questo disco e non solo.

In una fredda serata di gennaio del 2005, in una puntata di Controcampo, chiesero all’immenso calciatore Paolo Maldini quale fosse stato il giocatore più difficile da marcare nella sua carriera. La risposta sorprese tutti: si trattava di Rocco Pagano, un atleta sconosciuto ai più. Pagano – che oggi vive facendo il rappresentante di vini – durante gli anni ottanta fece impazzire non pochi difensori di serie A e B; tuttavia, in poco tempo, passò dall’essere il sogno di molti top club ad essere uno dei tanti calciatori destinati ad avere una carriera di medio livello, quelli di cui si dice «sarebbe potuto diventare…». Tanti non si spiegano la piega che prese la carriera di Rocco Pagano, ma quasi tutti sono d’accordo nel dire che la colpa di questo percorso accidentato non fu la sua.

Ho sempre amato fare paragoni tra sport e musica, come anche tra sport e vita di tutti i giorni, e nella mia testa per certi versi Kiffa è sempre stato il Rocco Pagano del rap italiano, passato dall’essere un talento cristallino del freestyle all’essere un rapper di nicchia, ma decisamente rispettato da moltissimi artisti, conosciuti e non.

Dopo aver parlato del suo splendido disco abbiamo voluto scambiare due chiacchiere con il rapper torinese. Ecco cosa ci siamo detti:

Clessidra arriva dopo ben 8 anni dal tuo precedente disco, In My Room. Come mai tanti anni di attesa per un nuovo album?
«In verità non te lo so dire di preciso (ride, ndr). Dopo In My Room in realtà ero molto gasato e avrei voluto fare subito un nuovo disco. Poi però mi sono reso conto che non riuscivo a produrre nulla che mi convincesse, facevo tutta roba molto forzata. Allora ho pensato che era meglio fare le cose in maniera spontanea, senza provare ad inseguire una carriera. Quindi da lì, pian piano, soprattutto negli ultimi anni, mi sono ritrovato a scrivere un sacco di pezzi, finalizzandone molti. Alla fine mi sono ritrovato con tantissimi brani, ne ho scelti sette/otto che fossero un po’ sullo stesso filone e attorno a quelli poi ho composto tutto il disco: così è nato Clessidra. Al di là di tutto comunque ci ho messo tanto tempo perchè io sono uno che ci mette davvero molto a scrivere i pezzi, non voglio lasciare mai nulla al caso, cerco di stare attento a tutti i dettagli. Voglio non avere nessun ripensamento quando il pezzo è chiuso.»

Hai detto che In My Room andò molto bene. A un mese da Clessidra, come pensi stia andando il disco?
«Personalmente sono molto soddisfatto. Le persone che lo hanno ascoltato mi hanno fatto i complimenti ma soprattutto mi fa piacere che tutti lo reputano un lavoro serio e maturo. Per quanto riguarda i feedback sono contento, per quanto riguarda i numeri non ti saprei dire però,  perchè sinceramente non li ho mai guardati (ride, ndr). Tra l’altro forse si nota, visto che non ho fatto né promo, né comunicati stampa.»

Proprio qui volevo arrivare. Come mai, dopo anni di lavoro per questo disco, hai deciso di rilasciarlo senza la promozione che forse un lavoro del genere avrebbe meritato?
«Il punto è questo: io ho quarant’anni, non faccio il rap per vivere, è tutto passione, per me la musica è divertimento, anche se la prendo molto seriamente. Proprio per il modo in cui vedo la musica, non mi sono mai dedicato a tutto quello che ha a che fare con la promozione della stessa. Forse perché non sono tagliato o forse perché sono orgoglioso, ma con questo disco ho ancor di più pensato di non fare nulla perché vorrei che l’album vivesse solo della sua musica. Io sono convinto che sia un disco fatto bene, penso anche che sia più bello di In My Room, ma mi son detto che questo disco deve arrivare dove riesce con le sue possibilità. E in realtà non mi pento di aver fatto questa scelta, perchè alla fine è un qualcosa di sincero e non si sbaglia mai ad essere sinceri.»

D’altronde nella comunicazione una delle leggi più forti per far andare bene un prodotto o un servizio continua a rimanere il passaparola.
«Esatto. Il mio sogno era proprio quello di vedere il passaparola. Ad esempio io quando ascolto un disco americano che spacca, la prima cosa che faccio è scrivere ad un amico e dirgli di ascoltarlo. Ho sempre sognato questo per la mia musica, non di vedere tizio che mi fa l’articolo pettinato perchè gli hanno detto di farlo…»

Veniamo al punto che probabilmente incuriosisce molti: il tuo nome è praticamente nella storia di questo genere dopo quella famosa finale con Fibra al Mortal Kombat del 2001. Molti artisti avrebbero cercato di parlare spesso di quella serata per far parlare di sé, mentre tu non lo hai fatto praticamente mai. Perché?
«Quella cosa è successa quasi vent’anni fa, sinceramente per quanto il momento sia stato bello e divertente, i miei dischi sono usciti molti anni dopo. Sarebbe stato poco sensato tirare fuori dopo tanto tempo la mia carriera da freestyler. Sono diventato adulto, non ragiono più come uno che vuole spaccare con il freestyle. Non avrebbe senso parlare di quelle cose, preferisco che una persona parli della musica che faccio ora.»

E questa etichetta che ti si è cucita addosso dopo quella battle, se così possiamo chiamarla, un po’ ti dà fastidio?
«Onestamente è la mia croce (ride, ndr). A parte gli scherzi non mi dà troppo fastidio, è capitato, è stato bello, ci siamo tutti divertiti. È stata una festa e mi piace ricordarla così. Mi imbarazza magari un po’ chi la ricaccia oggi dicendomi che avrei dovuto vincere io, ma dopo tutto questo tempo io non so nemmeno cosa rispondere (ride, ndr).»

A proposito di tempo: in questi lunghi anni, cosa è cambiato nel tuo rapporto con l’hip hop?
«Per me è come quando al liceo ti prendi una cotta per la tipa più carina del liceo, la rivedi dopo vent’anni e tu sei invecchiato ma lei è rimasta carina come all’epoca. L’hip hop per me è una grandissima passione. Ci sono alti e bassi ma continuo ad essere sempre affascinato da questa cultura, pensa che questa sera vado a vedere un concerto, da solo peraltro (ride, ndr). Questo per dirti che lo seguo sempre, ci sono sicuramente anni con uscite che mi gasano di più ed anni meno, però cerco di non perdermi nulla.»

E di questa fantomatica nuova scena, considerata nel suo insieme, cosa ne pensi?
«Quelli che riescono ad incuriosirmi li seguo, li ascolto, specialmente quelli più lirici. Altri che cercano di crearsi un personaggio quasi pacchiano li seguo meno, ma non perchè non siano bravi, ma perchè preferisco il contenuto, anche perchè ho quarant’anni (ride, ndr). Ma alla fine non sono un hater, anzi largo ai giovani, come dicevano i nostri genitori, d’altronde se dovessero fare cazzate ne pagheranno loro le conseguenze.»

Un argomento di cui parli spesso nei tuoi brani è il rapporto con le donne, spesso in modo autobiografico, profondo e mai banale o retorico. Quanto è doloroso scrivere certi brani?
«Per me scrivere un brano non è mai doloroso, anzi, il contrario. È come mettere un cerotto che cura delle ferite. Ho scritto vari pezzi riguardo miei trascorsi, molto personali, ce ne saranno due o tre nel disco, poi altri magari parlano di miei amici, però sono sempre storie vere. Per quanto riguarda me, ogni volta che scrivo un pezzo è come andare a chiudere un cerchio. Mi faccio tutte le domande del caso e trovo le risposte scrivendo il pezzo. Se domani per esempio mi dovessero dire di scrivere un pezzo per l’estate non saprei farlo, quando invece scrivo di cose vere viene fuori tutto quello che sono, nel bene e nel male. Però una volta che è uscito non è doloroso, perchè da una cosa brutta che mi ha fatto stare male io ho partorito una cosa bella.»

Un altro riferimento comune nelle tue liriche è Torino, che rapporto hai con la tua città?
«Guarda, come tutti i torinesi sono innamorato della mia città, a volte ho addirittura le paranoie di parlarne troppo nei pezzi (ride, ndr). Però non riesco a non farlo, mi piace Torino, mi dà tanti input, ci sono legato, c’è tutta la mia vita.»

Inoltre spesso parli della tua famiglia.
«Sì, fortunatamente ho avuto dei buoni esempi in casa che non mi hanno mai fatto mancare nulla.»

Come quando in Quanto mi piace camminare, nel traffico di queste strade dici “la vita è bella pure se non nasci nobile” e parli di come sei cresciuto in un ambiente umile e autentico. In quelle barre secondo me sbatti proprio in faccia all’ascoltatore alcuni dei valori fondamentali della vita.
«Sì, esatto. Cioè quando tu torni a casa che hai un problema e ti stanno a sentire, o vai a mangiare da loro e ti fanno il tuo piatto preferito, ti chiedono come stai. Per me queste piccole cose sono tutto. Quando posso esternare questa cosa lo faccio e sono felice di farlo.»

Purtroppo, a volte, queste sono cose che alcuni artisti quasi si vergognano a dire…
«Secondo me non è tanto la vergogna, piuttosto il fatto che alcuni non lo ritengono fondamentale come argomento da trattare nella musica o forse proprio non lo ritengono fondamentale e basta.»

Molti dei tuoi brani li ritengo quasi didascalici: hai mai pensato a scrivere un libro?
«Sinceramente no. Anche perché fondamentalmente non leggo molto, lo faccio solo quando ho molto tempo libero. Scrivere un libro lo vedo davvero troppo difficile ad oggi, non saprei proprio dove iniziare. Ci ho messo anni a scoprire come si riesce a scrivere bene uno storytelling, un libro lo ritengo decisamente più difficile, però mai dire mai, in futuro potrebbe essere una sfida divertente (ride, ndr).»

Tornando a parlare della musica, come mai in questi anni hai fatto pochissime collaborazioni, nei tuoi dischi e non?
«Per quanto riguarda i miei dischi mi pare che in In My Room ce ne fossero solo due, e in questo disco nemmeno uno. Il punto è che faccio musica solo con chi è veramente un mio amico. Relativamente ai brani di altri, di collaborazioni ne ho fatte, quando mi chiedono di fare una strofa se l’artista è forte la faccio con piacere. C’è pero da dire che in realtà a livello di produzioni collaboro con tantissima gente, tutti amici, ci facciamo magari la serata, andiamo in studio e viene fuori il pezzo che spacca. E permettimi di dire che musicalmente Clessidra è davvero bello, anche a livello di mix e master.»

Ascoltando molti tuoi pezzi sembreresti essere appassionato di calcio, è così?
«Sì, assolutamente, mi piace un sacco. Per me il calcio è una grandissima passione, proprio forte, infatti le ragazze mi odiano per questo (ride, ndr).»

Ti capisco perfettamente e a dirla tutta non mi va giù chi giudica qualcuno come ignorante solamente perché è appassionato di calcio…
«Nel calcio c’è tutto, c’è il calciatore ignorante e quello intelligente e questo avviene anche tra i tifosi. È uno sport bellissimo, a livello agonistico è incredibile. Magari non sarà lo sport più completo però è affascinante. Ma anche le emozioni che ti dà guardarlo con gli amici e tifare la tua squadra… sono impagabili.»

L’ultima domanda è una mia curiosità che però credo possano avere molti tuoi ascoltatori. Quello che racconti in Le donne vanno e vengono, è tutto autobiografico?
«Sì (ride, ndr). È tutto totalmente autobiografico. Non penso di aver mancato di rispetto a nessuno scrivendola, è una canzone, non ho fatto nomi e non penso proprio che quel brano possa parlare male delle donne, anzi. Però è anche vero che non tutte le donne sono adatte ad ogni uomo e quello volevo trasmettere.»