Quale futuro per l’industria musicale?

Industria Musicale

L’industria musicale ha un futuro o va incontro all’estinzione?

In un’industria musicale dominata dallo streaming, riflessioni di un certo tipo sono quasi d’obbligo. I cambiamenti che hanno interessato il music biz in questi anni sono stati dirompenti e, ad avviso di chi scrive, sono arrivati a snaturare il senso stesso della musica. Queste parole (come le seguenti) non vogliono apparire come un rimprovero di carattere morale, ma fornire spunti di riflessioni che dovrebbero scuotere le nostre coscienze.

L’avvento delle piattaforme di streaming ha portato con sé indubbi vantaggi. Anzitutto, è stato messo a disposizione di chiunque un bene prezioso come la musica a prezzi irrisori se non gratuitamente. Altri benefici sono di carattere pratico: chi usufruisce di questi servizi, infatti, dispone immediatamente di milioni di brani che può combinare in playlist di ogni tipo, lunghezza e genere. Operazioni che, per forza di cose, non si possono fare con i CD né acquistando qua e là negli stores digitali.

Peccato che questa streaming era abbia portato con sé conseguenze a dir poco devastanti. In primo luogo, lo streaming è arrivato a costituire la voce più consistente nel calcolo delle vendite ai fini delle classifiche. Il nostro termine di riferimento non può che essere l’America, uno dei mercati discografici più grandi del mondo e il più grande per quanto riguarda la musica rap. A partire dal 2014, la celebre testata Billboard ha aperto le porte allo streaming nell’attribuzione delle certificazioni. Nel corso di questi anni, le regole sono cambiate ed hanno dell’incredibile: ai fini del conteggio delle vendite degli album, se una traccia verrà riprodotta 1.250 volte su una piattaforma a pagamento come Tidal (3.750 per i servizi gratuiti come Spotify Free), queste equivarranno alla vendita di un disco digitale o fisico. Si è poi preso a conteggiare le visualizzazioni dei video ai fini della classifica dei singoli più venduti, dando vita ad un sistema caotico e irrazionale. Ad oggi, 2018, chiunque può ottenere una certificazione d’oro o di platino se ha la fortuna di ricevere numerose riproduzioni sui servizi di streaming musicale.

Quali le conseguenze di un tale sistema, divenuto oramai confusionario?

La situazione è – a mio avviso – sfuggita di mano e le conseguenze hanno segnato forse per sempre il volto dell’industria musicale. Per prima cosa, gli artisti hanno iniziato a confezionare gli album a misura di streaming: se ciascuna traccia può favorire l’intero album – essendo uguali tra loro in valore assoluto – è ovvio che questo si sia ridotto ad una lunga raccolta di brani messi insieme soltanto per beneficiare degli streams delle singole canzoni. Accanto a dischi interminabili è tornata poi in voga la moda del doppio album: un esempio recente? Scorpion di Drake. Dietro la scusa del lato rap e del lato r&b si cela probabilmente l’intenzione di scalare le classifiche attraverso un escamotage oramai legittimo e largamente praticato.

Sono oramai lontani i tempi di doppi album come Life After Death di Notorious BIG, alla cui base non stava di certo l’ossessione per le vendite.

Ecco quindi che rapper e cantanti non cercano più di dar vita a lavori di un certo spessore, preferendo dedicarsi a minestroni di hit da classifica privi di un filo conduttore. Questa moda impedisce di certo ad un artista di dar sfogo alla proprio creatività e al talento, oppresso da etichette discografiche alla ricerca dell’ennesimo tormentone e del disco campione di “incassi”.

In secondo luogo, i videoclip sono stati ridotti a sotterfugi per racimolare views: i video, infatti, sono stati banalizzati ed oramai risultano essere un inno alla volgarità ed alla monotonia. Altrettanto lontani sono i tempi in cui il video musicale era un modo per esprimere la creatività dell’artista e per rappresentare sul piccolo schermo il messaggio della propria musica. Geni come Missy Elliott hanno educato un’intera generazione a questo ed ancora oggi ci provano.

Non fraintendetemi: con queste parole non intendo dire che tutti i prodotti dell’industria musicale contemporanea siano da cestinare. Fortunatamente, non mancano artisti che lavorano sodo ogni giorno per dar vita a lavori di qualità. Tuttavia, quella che ho rilevato è una tendenza oramai generalizzata che va fagocitando ogni anfratto del music biz.

Contro questa tendenza, alcuni cantanti e rapper hanno osato alzare la voce prendendo decisioni che possono non aver incontrato il benestare del pubblico, ma che sono portatrici di un certo messaggio. Anzitutto, si pensi al ciclo di dischi prodotti da Kanye West ed usciti il giugno scorso: poche tracce, alta qualità, album coesi e caratterizzati da un filo narrativo solido. La mossa di Mr. West è rimasta sostanzialmente isolata nel panorama musicale, ma è da apprezzare il coraggio di una scelta controcorrente che speriamo abbia messo radici.

Il secondo esempio proviene dal mondo del pop. Giganti come Adele e Taylor Swift si sono a lungo rifiutati di mettere i propri album a disposizione delle piattaforme di streaming (anche se, alla fine, hanno ceduto pure loro). Vero è che artisti come queste donne hanno dalla loro fan base solidissimi capaci di muovere decine di milioni di copie (34 milioni le copie vendute da 21, secondo disco della cantante britannica), ma deve servire da monito una frase pronunciata da Adele: “il mio lavoro non sarà disponibile in streaming perché un bambino del giorno d’oggi non sa nemmeno cosa ca**o sia un disco“. Parole sante!

Infine, ha destato molto scalpore la conferenza con la quale, nel marzo del 2015, Jay-Z ha (ri)lanciato Tidal, la controversa piattaforma di streaming Hi-Fi. Affiancato da icone della musica come Madonna, la moglie Beyoncé, Kanye e i Daft Punk, il magnate della Roc Nation ha inaugurato una nuova era musicale che avrebbe dovuto riportare la musica al centro. Altrettanto scalpore ha destato la decisione del rapper di rendere disponibile l’intera propria discografia soltanto su Tidal e quella della moglie di caricare il multiplatino Lemonade soltanto sulla piattaforma di proprietà dal marito. Al di là di tutte le polemiche che questo servizio ha portato con sé, Jigga e Queen Bey hanno un grande merito: averci ricordato che la musica ha un valore – Tidal non offre, infatti, un abbonamento gratuito – e che il suo prezzo merita di essere pagato.

Internet e una certa (sub)cultura sono i principali responsabili di questo stallo: come intervenire?

Per tornare alle origini del nostro problema, due sono sicuramente i fattori che hanno portato a questa situazione. Anzitutto, internet: questo strumento ha messo a disposizione di tutti e subito qualunque cosa, senza alcun prezzo da pagare. Combattere contro internet risulterebbe essere anacronistico e, per questo, non possiamo che rivolgere la nostra attenzione al secondo fattore, di matrice culturale.

Il consumatore del XXI secolo non è più in grado di dare il giusto credito al proprio patrimonio culturale, musica compresa. Occorre quindi recuperare il valore di questo bene e capire che esige un prezzo: la musica costa, ma non nel senso che costituisce qualcosa di elitario. No, dobbiamo recuperarne il valore umano che sta alla base. D’altra parte, questo è un problema che investe anche l’industria cinematografica e l’editoria: perché pagare il biglietto del cinema, un libro o un cd quando si possono avere gratuitamente? Si vuole tutto e subito: peccato non funzioni così.

La colpa è quindi di chi ha permesso allo streaming di trasformare in portoni le porte che gli erano state aperte. La colpa è degli artisti che si sono piegati alla moda e alle classifiche. La colpa è della nostra mancanza di onestà intellettuale che ci porta a minare le fondamenta di un’industria oramai agonizzante. A poco a poco, i CD scompariranno così come arriveranno a scomparire gli stores digitali. Una volta che tutto si sarà ridotto a streaming, tardive saranno le proteste degli artisti. Altrettanto tardive saranno le nostre proteste, quando vedremo i nostri beniamini smettere di pubblicare e condividere con noi i loro sforzi. L’esito che ho appena prospettato risulta essere abbastanza radicale ed assurdo, ma chissà quanto si discosta da quel che potrebbe effettivamente accadere.

Non so se Jay-Z e Beyoncé abbiano un altro e più efficace asso nella manica per salvare il music biz. Tuttavia, so bene che è nostro dovere cambiare mentalità e restituire dignità ad un mondo che pretende a gran voce quanto gli spetta.

Grafica di Mr. Peppe Occhipinti.