«Se fai rap in playback non è rap, punto» – Intervista a Ensi

Ensi

Nuovo album, nuova intervista a Ensi: ecco cosa ci siamo detti su Clash e molto altro ancora.

Era l’estate del 2017, fine luglio per la precisione, ed ero negli studi della Warner Music con Jari Vella, in arte Ensi, in occasione dell’uscita di V. Meno di due anni dopo ecco che è arrivato il momento di Clash, un disco che segna un’ulteriore maturazione perché riesce a coniugare perfettamente le due anime dell’artista: quella del freestyler che tutti noi conosciamo e quella meno nota di Jari, più personale e riflessiva.

E come c’è stato un miglioramento da V a Clash, così è successo anche per la nostra nuova intervista a Ensi, forse complice il fatto che per qualche motivo si era ricordato del sottoscritto. Questa volta, quindi, mi sento di dire che è venuto fuori qualcosa di meglio della solita intervista, basti pensare che siamo passati addirittura per Kanye West e Sanremo (!).

Per cui, senza ulteriori indugi, vi lascio a quanto ci siamo raccontati pochi giorni prima che venisse pubblicato il suo nuovo, importante, album ufficiale. Check it!

Da V a Clash non è passato molto tempo dato che sono usciti a distanza di circa un anno e mezzo: raccontaci il percorso che ti ha portato a questo tuo nuovo disco.
«È stato un percorso più rapido rispetto a quello che c’è stato tra Rock Steady e V, ossia tre anni in cui nella mia vita è successo di tutto, incluso diventare padre. Nell’ultimo anno e mezzo, invece, ho portato in giro V a suonare e ho portato avanti il progetto Real Rockers, con i quali ho fatto più di venti date per tutta l’Italia. Mi sono poi dedicato ad immaginare quello che sarebbe stato il mio nuovo capitolo che, comunque, avevo già nella mia testa. Sapevo che non sarebbe passato più molto tempo tra un disco e l’altro, perché V mi ha dato veramente tanto. 

Ad oggi inizio ad avere una certa esperienza e so quello che faccio e dove vado, ma non so come un mio disco possa venire percepito là fuori: pensa a Rock Steady, io ho visto questo mio primo disco in major come un’operazione coraggiosa, data la sua matrice super hip-hop, tuttavia è stato uno dei miei progetti meno acclamati. Ogni tanto penso che qualsiasi dei miei dischi sarebbe potuto uscire al posto di Clash e, secondo me, avrebbe fatto quello che farà Clash, perché è proprio quello che manca in questo momento storico.

Superare V sotto certi punti è impossibile, perché racchiude delle emozioni che ho vissuto in quel momento lì e che – nonostante le viva tutti i giorni – sono riuscito ad incarnarle bene solo in quel disco. Poi anche la mia velleità artistica mi porta a non ripetermi e a rifare le cose che faccio: ecco perché cambio i produttori e i featuring, riconfermando solo alcuni nomi, che poi magari nel tempo vedi ritornare, come Big Joe o Patrick Benifei.

Ovviamente, spero di fare più rumore con Clash che con V, perché significherebbe aver fatto le cose per bene. La mia sensazione, poco prima dall’uscita, è che sia stato capito quello che voglio fare con questo disco.»

V è un album molto maturo ma, secondo me, Clash ha le carte in regola per esserlo ancora di più, perché sei riuscito a coniugare i due elementi che ti hanno sempre contraddistinto: l’improvvisazione e la riflessione. Magari questa è la formula definitiva?
«Ti dirò, sono diventato più abile in questo: io so quali sono i miei punti di forza e un po’ lo vedo anche nelle risposte che ottengo. Per esempio, l’anno scorso non abbiamo spinto minimamente sul lato umano di V ma la parte più acclamata del disco è stata quella finale, quella più umana. La parte umana è sempre stata la parte maggiore nei miei dischi: essendo un abile freestyler e avendo vinto tutto, non avevo niente da dimostrare con la cattiveria del rap, con l’impatto delle liriche: che c*zzo di rima stravolgente ti posso fare che non ho già fatto in un freestyle?

Sapevo che dovevi metterci quell’Ensi dell’improvvisazione che dici tu, come sapevo che dovevo farne una parte più umana in questo album, ma quando sono partito non sapevo che avevo quelle cose da dire: non è che mi sono detto ora faccio Complicato, Fratello Mio o Vita Intera, quelli sono pezzi che vengono quando ascolto le basi e la penna va dove deve andare. Poi quando mi son messo lì e ho capito che disco avevo mi sono reso conto che in realtà spingeva su quei due aspetti che hai detto tu, riassumendolo benissimo. C’è l’Ensi delle battle di freestyle e c’è l’Ensi che va in profondità con la penna. Queste sì, sono le mie due caratteristiche principali.»

Con brani come Rat Race e Rapper, dove sono presenti ritornelli dalle sonorità più reggae/dancehall, sei uscito un po’ dalla tua zona di confort: lo hai voluto personalmente o è stato un qualcosa che si è creato man mano?
«Come ti dicevo prima, quest’anno e mezzo sono stato molto impegnato con il progetto Real Rockers che ha un sound ibrido, tra hip-hop e dancehall. Ho solamente portato più linfa al mio bagaglio musicale, dove comunque la dancehall c’è sempre stata dato che a me questa musica è sempre piaciuta. Basta pensare a Lion D nel disco con i One Mic o Era Tutto Un Sogno dove c’era Mama Marjas, Julia Lenti e Biggie Bash dei Boomdabash: io sono sempre stato giù con questa roba, chi mi conosce e ascolta lo sa.

Sono sempre stato legato all’ambiente perché mi è sempre piaciuta la musica dancehall e la musica giamaicana: quest’anno avendola linkata così forte con il progetto Real Rockers, volevo un rappresentante mondiale (Agent Sasco) e Attila che rappresenta la dancehall italiana assieme ad altri nomi. Semplicemente volevo degli artisti di spessore in quello che fanno, così da poterci fare delle belle canzoni.»

Deng Deng, invece, ha un sound pazzesco: come è nato quel beat?
«Stabber è un matto, il suo sound è destabilizzante.

Ti voglio raccontare tutta la trafila di Deng Deng: il pezzo mi è arrivato finito, c’erano due strofe Patrick e il ritornello così come lo sentite. Le strofe di Patrick erano cantate e diceva tipo “Sembra tutto possibile ora, come quando stavo fra i banchi di scuola, tell em motherf*cker rude boy”: mi dicevo, però, quando parte il pezzo? Poi a un certo punto parte il boom deng deng del beat e lì devo spezzare una lancia a favore di Andrea Comi, che lavora qui in Warner ed è un po’ il referente di questo mio progetto: conoscendo bene Stabber mi aveva detto “ieri ho sentito una roba che secondo me ti piace e, se vuoi fare sta roba un po’ dancehall, va benissimo per Clash”. Quando l’ho sentito ho detto “c*zzo avevi ragione”, allora ho tolto la parte di Patrick e c’ho messo il rap.

Patrick poi è tornato in studio, ha ribattuto il ritornello, ha fatto lo special finale, diverso dalle strofe che aveva scritto in italiano: quando ha sentito il pezzo con liriche finite ha detto “no adesso dobbiamo farlo in stile sound clash” e ha dato vita a un bridge in cui mi sento proprio descritto.»

Un mio amico produttore, una volta sentito il pezzo, ha detto: c*zzo, questa roba sembra Kanye West!
«Allora, quando su consiglio di Comi abbiamo messo per la prima volta in studio il beat di Deng Deng ci ha portato subito a Kanye West, immediatamente, ed è un po’ il punto di riferimento di questo disco, come tutto il mondo G.O.O.D. Music e non solo. C’è il rap schieratissimo ma con elementi che esplodono come Pusha, ma anche il cantato con i beat crudi come Nas: il rap è definito, poi c’è la musica, ed è questo il riferimento per noi.

Visto che stiamo andando nel profondo di questo disco, voglio sottolineare che in Clash ci sono anche tanti momenti musicali: è fatto apposta, perché qui il rap è definito e quello che volevo dire l’ho detto, poi è stato arricchito con la musica. Dovevo inquadrare bene un mondo musicale, spero di esserci riuscito e tu forse ne sei una prova.»

Da qui abbiamo parlato a lungo di Kanye e, nonostante al sottoscritto stia piuttosto antipatico, mi sembrava doveroso fare una piccola digressione al riguardo. Confrontandomi con Ensi, ho scoperto che anche a lui non sta più così simpatico, viste soprattutto le recenti dichiarazioni pro Trump.

«C’è anche da dire – ha aggiunto – che saranno ormai quattro-cinque anni che ha un po’ perso la testa, più o meno da quando parlando in radio con Sway (noto conduttore di programmi radio a base di rap e freestyle negli US, ndr) si è paragonato a Walt Disney. Già prima di essere sotto i riflettori aveva prodotto pezzi per gente di spessore come Jigga o Common: per questo gli ho dedicato tempo e alla fine sono arrivato alla conclusione che nel rap Kanye abbia avuto lo stesso peso specifico di un Dr. Dre. Magari non si scriveva tutti i testi, però sin da College Dropout ha scosso il game dal profondo secondo me.»

Che disco College Dropout! Ma torniamo a noi: restando sempre su Deng Deng, tu giustamente dici: “Sei fai rap in playback non è rap”: cosa ha portato secondo te più di qualche tuo collega a rappare in playback?
«Per me se fai rap e fai rap in playback è come chiedere a uno strumentista di fare lo stesso: noi quello facciamo, se lo fai pure in playback perché c*zzo lo stai facendo? Quanto meno dal vivo, poi se la situazione è acustica perché stai andando a fare la roba in TV e non hai la cassa spia, non ti puoi sentire e, piuttosto che farla male, la fai in playback, quella è una roba diversa. Io parlo a chi fa i concerti con la traccia sotto: se fai rap in playback non è rap, punto.

Sono andato ieri sera a sentire Luchè e ha rappato come un treno, come c*zzo deve fare un rapper. Basta girare intorno a ste robe: a me va bene il club, con lo spumante e sbocciare, ma se rappi, rappi. Anche io sotto magari c’ho il ritornello doppiato, ma non le strofe e che c*zzo!»

Cambiando mood. Da Non Di Sangue a Fratello Mio, una figura famigliare molto importante ma su cui difficilmente si trovano canzoni dedicate: cosa ti ha portato a dedicare un brano a tuo fratello?
«Un momento particolare della sua vita, dove non è felice e le cose non vanno come dovrebbero; di fronte al non poter far nulla gli ho dedicato una canzone. Fratello Mio potresti dedicarla ad un fratello o un amico con un problema, io ho cercato semplicemente di essere molto personale nello scrivere quello che sento ma credo sia una canzone per tutti. Ho cercato di dirgli quello che potevo dirgli, cercando che potesse avere quell’effetto che desideravo, ossia non farti sentire da solo. Spesso, però, ci sono dei problemi e, seppur vuoi benissimo a una persona, non puoi fare nulla per lei: io so fare questo e perciò gli ho dedicato una canzone.»

Passiamo all’aspetto promozionale di Clash, peculiare…
«Ho scelto una modalità di approccio alla promozione completamente diversa dal resto: sono uscito con i tre freestyle, Deng Deng è stata pubblicata perché dovevo andare in radio e l’abbiamo quindi voluto liberare, altrimenti sarei uscito con il disco in blocco. Questa scelta ci sta un po’ ripagando: fa parte di un piano e di una visione artistica che quest’anno vorrei venisse fuori, come la scelta di fare pochi instore o di non fare un album di figurine con i featuring. Ho 33 anni e devo lanciare un segnale: ho fatto tante cose negli anni però, come dico in Clash Freestyle, non ho ancora quello che mi merito.»

Come è nata invece l’iniziativa Time To Clash?
«Ormai tutti prima di lanciare un disco levano ogni post da Instagram, mettono una foto nera così tutti dicono “ehi cosa sta facendo il mio artista preferito?”, poi qualche indizio, qualche stories, primo singolo, secondo singolo, terzo singolo e album. Oggi è tutto dispersivo, tutto veloce, come faccio a mettermi a fare la gara per farmi vedere? Io sono io, faccio quello che faccio, mi servono modalità diverse ed è per questo che farò pochi instore o siamo usciti con i video solo dei freestyle, nulla di nuovo ma totalmente diverso da quelli che vanno di moda ora. A me non me ne frega niente, deve venire fuori il rap quest’anno e quindi non potevo presentare Clash in maniera canonica.

Quando con RedBull abbiamo finito di fare il disco nel loro studio ed è nata l’esigenza di partnership, loro volevano fare qualcosa di particolare, io ho detto “facciamo un evento di lancio, ma sarà un vero e proprio live show in diretta”. 

Mi piaceva l’idea di fare qualcosa di diverso, un viaggio in questo album con tutti quelli che hanno partecipato, perché ho chiamato tutti più altri ospiti a sorpresa, compresa una cricca di amici. Ho cercato di fare qualcosa di diverso in questo mondo dove è stato fatto e visto tutto, in una versione più in linea con il mio stile e anche l’idea del track by track su Instagram è nata da questa esigenza, per far vedere cosa c’è dietro Clash.»

L’anno scorso sono passati dieci anni da Vendetta: cosa diresti all’Ensi del 2008?
«“Non dimenticare chi sei, il resto poi va tutto ok”, quello che ho detto in Thema Turbodiesel dove ho raccontato un po’ la mia storia. Ad oggi credo che l’integrità e l’identità siano un tratto distintivo degli artisti, in un epoca dove piegarsi un po’ alle tendenze è una cosa che sapientemente fanno anche quelli bravi, che io comunque non critico, perché capisco che devi stare in mezzo a tutto. La mia però non è una guerra, è una scelta: perché devo rincorrere qualcosa che non mi piace e che va contro tutto ciò che ho sempre detto e fatto? Se ad oggi qualcosa deve premiare, in un momento storico come questo, è la credibilità e l’identità: spero sia così, ma se non dovesse essere così sono pronto, non me ne frega un c*zzo, ho sempre fatto questo. Non è che è il ritorno del rap, come dico in Rapper “questo suono sta tornando? No è qui da sempre”; questa attitudine sta tornando? no è qui da sempre, sei tu che non la vedi, sei tu che non la vuoi vedere, anche perché magari, la in alto, ci sono pochi esponenti così.»

Chiudiamo con una domanda su Sanremo, kermesse che sta per arrivare e dove tra l’altro ha partecipato anche tuo fratello: cosa ne pensi di tutto questo rap presente quest’anno?
«Bella storia, è il festival della musica italiana e se parli di musica italiana oggi non puoi non parlare del rap. Per quanto mi riguarda, però, quel contenitore lo vedo ancora lontano, anche da valorizzarci, è solo un amplificatore di determinate cose. Siamo alla sessantanovesima edizione e solo nelle ultime quattro/cinque vediamo qualche rapper, quindi il cambiamento c’è già stato. Abbiamo visto Rocco Hunt vincere, abbiamo visto Clementino, Raige, Fred De Palma, quest’anno c’è Shade, Rancore, Guè… credo che abbia più bisogno Sanremo che ci andiamo, non il contrario.

Poi ti dico la verità, sono sicuro che partecipare a Sanremo non ti tolga credibilità, anzi, è un amplificatore, è una vetrina in un momento importante, con una tradizione alle spalle. Il rap è il genere più made self e non si è mai affermato tramite quel canale, adesso però è il canale che lo va a cercare ed è giusto. Se mi avesse chiamato un artista che stimo per andarci come ospite, magari ci sarei andato. Ben venga il rap italiano a Sanremo, ci sta!»

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