La tragedia di Corinaldo sta confermando l’incapacità che ha il nostro Paese di decodificare la realtà

Sfera Ebbasta

Il dramma nell’anconetano sta facendo venire a galla il bigottismo e il moralismo made in Italy, oltre a tanta cattiveria gratuita.

C’è un atteggiamento che digerisco a fatica: quello di chi è convinto di avere la verità in tasca, in qualsiasi settore. Non c’è nulla di male nel non essere preparati su un tema, per forza di cose l’essere umano non può conoscere tutto; al contrario trovo ci sia del dolo nel voler esporre sempre una propria posizione, anche su ciò che non si conosce affatto o su ciò che, ancora peggio, si crede di conoscere.

Non è un caso infatti che più volte, in questo sito, abbiamo evitato di parlare di determinate questioni o lo abbiamo fatto nel mondo più imparziale possibile. Avremmo voluto tacere anche questa volta, ma quello che sta accadendo nei confronti di Sfera Ebbasta è a dir poco aberrante e reputiamo siano doverose alcune riflessioni.

Dovrebbe essere abbastanza ovvio affermare che in una tragedia nella quale hanno perso la vita sei persone a causa della rottura di un ballatoio ‒ susseguente alla ressa creatasi da una spruzzata di spray al peperoncino (probabilmente al fine di derubare qualcuno) – c’entra ben poco il genere musicale di colui che avrebbe dovuto calcare il palco del locale, ma evidentemente per buona parte d’Italia non è così.

In un altro Paese ora si parlerebbe solo ed esclusivamente di come evitare di andare in overbooking in un locale, di come imporre controlli più severi o di come impedire la vendita anche ai minorenni senza un motivo valido dello spray al peperoncino, ma da noi no, in diverse trasmissioni e in diverse testate si è preferito accusare l’artista che sarebbe dovuto salire sul palco, colpevole  secondo alcuni di scrivere testi poco “educativi”.

Basta cercare su Google il nome di Sfera Ebbasta in questi giorni per trovare prove di questo atteggiamento. Tra i diversi pareri non richiesti (come quello di Magdi Cristiano Allam e quello di Dj Aniceto) l’ultimo in ordine di tempo riguarda quanto accaduto Domenica pomeriggio a Rai Uno, dove a Domenica In  Paolo Crepet si è scontrato con Briga, accusando Sfera di essere colpevole della tragedia.

Quale colpa avrebbe Sfera? Il fatto che nei suoi concerti abbiano già spruzzato lo spray al peperoncino in passato comporta automaticamente che i suoi testi inneggino a condotte di questo tipo? Mi sembra un po’ un ragionamento azzardato, al contrario trovo abbia più senso affermare che concerti come i suoi potrebbero essere la giusta occasione per dei delinquenti per rapinare persone, a causa della probabile ingenuità dei giovani spettatori, unita al grande numero di partecipanti che potrebbe contribuire a dare meno nell’occhio dopo aver commesso un furto.

Questa tragica notizia di cronaca ci sta dando l’ennesima conferma di come il nostro Paese sia del tutto incapace di decodificare la realtà e nello specifico di analizzare il rap in maniera intellettualmente onesta, senza i paraocchi che una società bigotta come quella italiana spesso dimostra di avere.

Non a caso Paola Zukar nel suo libro Rap. Una Storia Italiana, in tempi non sospetti scrisse:

Oggi, qui in Italia, il paradosso del fenomeno rap è che siamo in un Paese che ha accettato il rap suo malgrado, forse per noia o per mancanza di altre novità, ma che in fondo non lo vuole per come è o per come dovrebbe essere, proprio per una ragione di natura strutturale, storica, genetica. Non lo voleva per com’era e ancora non lo vuole per come dovrebbe essere. Ribelle e «fastidioso», controverso e parallelo ai canoni della cultura dominante, su una strada tutta sua. Il peggiore difetto dell’Italia, per me, è essere un Paese fortemente ipocrita e falso, dove l’apparenza è tutto e la verità è un’altra. E a nessuno conviene veramente dirla, spiegarla o raccontarla, perché non ci guadagni niente, anzi… L’algoritmo è tutto qui. Ecco perché il rap è arrivato nei Novanta tutto baldanzoso e «contro» per poi venire brutalmente rigettato dalla cultura dominante e anche, paradossalmente, dall’underground. Anche per questo motivo, da noi, il percorso della localizzazione del rap, la sua italianizzazione, è stato molto più lento e tortuoso rispetto ad altri Paesi europei, direi quasi sofferto, al di là di alcune oggettive difficoltà di «traduzione» e di suono delle parole. L’Italia, quella vera, vuole il rap ma solo nelle sue forme più digeribili, più assimilabili e presentabili, più innocenti e amichevoli, quando invece la sua natura è quella di essere scomodo, discusso e sempre nuovo, originale, tecnicamente irreprensibile. L’Italia «vera», quella che esiste nei bar, nella provincia, nelle parrocchie, fa davvero molta fatica a decodificare, a interpretare, a tradurre, ad andare oltre la prima impressione delle cose, della storia, dell’arte, della realtà. È un Paese di pance, più che di teste. Quindi come ha potuto crescere ed espandersi il rap pur mantenendo in qualche modo una propria identità, al di là degli scivoloni verso le lusinghe della cultura musicale italiana? Lentamente e con grandi difficoltà nonché attraverso mutazioni genetiche, non sempre piacevoli.

Per quanto mi sforzi faccio davvero fatica a comprendere il senso di criticare la musica di Sfera Ebbasta (per quanto possa non piacere) in un momento come questo. Se proprio si vuole parlare di questo lato nei salotti televisivi o in qualche trafiletto di giornale, si potrebbe anche parlare di qualcosa di positivo, come l’inziativa di Tedua che ha proposto ad altri artisti di fare una raccolta fondi per aiutare le famiglie delle vittime.

Ma evidentemente buttare benzina sul fuoco e puntare il dito contro le prede più facili continueranno ad essere gli sport preferiti di diverse persone, giornalisti e non.