«La divisione tra underground e mainstream non ha senso di esistere»: intervista a Rancore

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In occasione dell’instore bolognese di “Musica per bambini”, abbiamo realizzato un’intervista a Rancore.

Rancore non è di certo uno degli artisti più attivi sui social e, in un’era nella quale sono quasi indispensabili, questo ha contribuito a far dubitare negli scorsi mesi buona parte della sua fan base sulla concreta possibilità che il rapper pubblicasse un nuovo disco nel 2018. Così, grazie al poco preavviso con il quale è stato annunciato, l’album di Rancore è passato da essere una speranza per i fan dell’artista ad una solida realtà nel giro di poche settimane. Ad oggi, avendo ascoltato più volte Musica per bambini“, non possiamo che accodarci al giudizio unanime di pubblico e stampa (anche generalista) a riguardo: siamo di fronte ad uno dei migliori dischi del 2018, se non degli ultimi anni. Il talento di Rancore non è mai stato messo in dubbio, però effettivamente non sapevamo cosa aspettarci da un nuovo disco solista del rapper, per di più senza featuring e senza l’ “appoggio” di Dj Myke.

Alla luce di questo abbiamo voluto incontrare l’artista di “S.U.N.S.H.I.N.E.” ed abbiamo avuto l’opportunità di farlo il 6 giugno alla Feltrinelli di Bologna (che ringraziamo), nella quale era di passaggio Rancore per la presentazione di “Musica per bambini“.

Ecco cosa ci siamo detti:

Ormai questo è il quarto instore di “Musica per bambini”: come sta andando il disco?
«Bene! Molto bene secondo me. “Musica per bambini” sicuramente è un disco non molto semplice, né è stato un progetto annunciato con tanto preavviso, ho lasciato semplicemente che salisse un certo tipo di interesse anche dato dalle collaborazioni che ho fatto l’anno scorso, avendo fatto un gran numero di featuring a parer mio molto importanti. Il disco l’ho annunciato un mese prima dell’uscita, è stata un po’ un’uscita lampo, come la guerra lampo (ride, ndr). Però sì, mi sta dando molte soddisfazioni, a pochi giorni dalla pubblicazione sto notando molte persone agli instore, il pre-order è andato molto bene ma la soddisfazione più grande è ricevere come riscontro il fatto che il disco piace e che le persone lo hanno apprezzato, questa è la cosa per me più importante».

Hai parlato di collaborazioni: come mai non ce ne sono in questo disco?
«Di collaborazioni ne ho fatte, però non le ho volute mettere in questo album. In un disco che parla di alienazione, della mia lontananza dalla comunicazione che funziona oggi, di come il mondo sia un bombardamento di informazioni, in un disco che, insomma, ha tante cose da dire, credo sarebbe stato forzato inserire altre voci. Infilarle sarebbe stato semplicemente un modo per fare quello che le persone si aspettavano facessi, a mio avviso però sarebbe stato inutile. Anche perché se si ascolta molto bene questo lavoro ci si rende conto di quanto sia “solitario”». 

Una domanda che ti avranno fatto in molti: come mai non c’è Dj Myke nel disco?
«Siamo in buoni rapporti, ma questo è un disco fatto totalmente da solo, se ci sono delle piccole collaborazioni ci sono semplicemente per una necessità “esterna”. Ad esempio se c’è Giancane era perché volevo dare una denotazione un po’ punk ad un brano come “Skatepark” e lui mi ha aiutato. Non sarei riuscito a creare questo disco se non avessi unito amicizie vecchie da un lato e nomi nuovi dall’altro, ma si tratta sempre di poche persone. Con Dj Myke c’è stata la fine di una collaborazione ma in maniera tranquilla e pacifica. Altri nomi che compaiono come quello di Dj Aladyn sono dettati da mie scelte: ad esempio lui anche l’ho contattato per “Skatepark” perché lo ritenevo capace di arrangiarmi il beat. È stato tutto molto naturale. Anche la collaborazione con 3D è nata perché da anni volevo collaborarci e per questa occasione aveva la produzione giusta sulla quale ho scritto “Questo pianeta”». 

A me sei sempre sembrato un personaggio abbastanza atipico, qualche anno fa ad esempio ti incontrai alla prima di “Zeta – il film” a Milano e un mese dopo in un’aula occupata dell’università qui a Bologna a suonare. La cosa mi fece riflettere e pensai che effettivamente potevano coesistere l’underground ed il mainstream. Secondo te è mai esistita tale divisione? E se sì, ha ancora senso nel 2018?
Secondo me non ha senso di esistere nessuna divisione. Qualsiasi divisione fatta è creata da qualche “ente” superiore per guadagnarci qualcosa, per creare quel “movimento”. Da una parte è giusto perché sono un amante delle cose che si muovono e non di quelle ferme e stagne, però creare delle divisioni dà vita a delle opinioni e a dei battibecchi. Il discorso è molto semplice: quello che si muove sono i soldi non i pensieri, nel senso che quello che è mainstream deve rispettare certi canoni per avere certi risultati, quello che è underground è a suo modo mainstream, è commerciale nel momento in cui si definisce underground e va volontariamente “contro” qualcos’altro. Secondo me quindi le divisioni dovrebbero sparire, in qualsiasi ambito. La musica è una, il mondo è uno: i confini li facciamo noi. Underground e mainstream non esistono, la divisione la creiamo noi che da ascoltatori vogliamo crearci un amico e un nemico. Io con la mia musica non mi sono mai limitato, ho fatto instore abusivi per strada che chiamavo instreet per poi oggi farlo legalizzato (ride, ndr).
Sono partito quindi dall’illegale al legale e magari domani tornerò nell’illegale a vendere i dischi per strada cantando con il megafono (ride, ndr). Però secondo me la musica deve entrare in ogni luogo, nella misura in cui quel luogo la accoglie. Quindi va bene sia inserirla in un film che in un centro sociale, nel momento in cui delle persone hanno interesse a sentire quello che uno dice e si rispecchiano. Sarebbe limitante e anche stupido porsi dei limiti, ha senso al massimo quando si fa musica politicizzata. Ma nel mio caso che do vita a “fotografie dello spirito” non vedo perché dovrei limitarmi, gli spiriti sono ovunque, non hanno limiti».

I tuoi testi, specialmente alcuni, sono abbastanza ermetici, specialmente per dei ragazzini. Hai mai pensato in un certo senso di “facilitare” quello che scrivi?
«Quello che ho fatto è dare un nome al mio modo di fare rap, per non essere frainteso: io faccio “hermetic hip hop”. C’è già l’ermetismo dentro la definizione, questo è il senso. Se cambio delle parole per renderle più digeribili? A volte sì, ma non per l’ascoltatore bensì per me, sono io che sono felice se riesco a mettere nero su bianco quel determinato concetto in quel determinato modo. Sicuramente il mio scopo è di riuscire a fare qualcosa che sia più universale possibile, nel suo ermetismo, quindi l’utilizzo delle parole è un minimo sempre “dosato”. Però, in linea di massima, quando scrivo se mi rendo conto di avere davanti qualcosa che mi tocca le corde capisco di essere sulla strada giusta e sono sicuro che alla fine chi dovrà capire capirà. Chi non ha la sensibilità di capire non lo farà cambiando una parola o una frase».

Qual è il tuo modo di approcciarti alla scrittura? Si differenzia quando scrivi uno storytelling?
«Sicuramente quando scrivo uno storytelling, che è un qualcosa di molto “visivo”, c’è un atteggiamento leggermente diverso da quello di brani come “Centro asociale”.
Negli storytelling c’è una storia costruita e a volte devo proprio chiudermi qualche giorno per cercare di capire quale finale dare. Poi dopo un po’ ci riesco ed è importante che abbia un doppio significato, come un po’ tutto l’hermetic hip hop e se riesce a corrispondere a tutti gli strati di significato che gli voglio dare vuol dire che è il finale giusto. In poche parole, entro nei panni del protagonista, quasi come un regista o un attore. Ovviamente nel momento in cui scrivo cose più dirette, irriverenti, cattive, lì subentra un lato più emotivo, meno celebrale e più di “cuore”».

In un’intervista hai detto che in “Depressissimo” ti sei lasciato andare come non hai mai fatto. È stato difficile scriverla o al contrario è stato spontaneo?
«Da un lato è stato facile, da un altro difficile. Non ero sicuro che una volta scritte certe cose mi potessi permettere di dirle. Non ho mai tirato in ballo troppo di quello che sono io direttamente, perché non c’è secondo me nulla di particolarmente interessante nella mia persona da arrivare a cantarlo. Credo sia molto più interessante parlare di quello che vedo, di quello che accade, anche perché a me in primis non piace sapere le robe di altri, il gossip… In “Depressissimo” invece c’è questo climax ascendente di egocentrismo che è ovvio che mi sono sentito di mettere in mezzo nel momento in cui mi soni preso la responsabilità di parlare di un argomento così pericoloso e difficile come la depressione. Non potevo raccontarlo non mettendomi realmente in prima persona. Ho ritenuto fosse questo il modo più giusto per raccontare questa malattia. È un mondo molto complesso che deve avere punti concreti sui quali attecchire quando se ne parla altrimenti rischia di perdersi nell’astratto. Per certi versi quindi è stato immediato scriverlo, però poi è stato difficile decidere se farlo uscire o no.» 

In alcune barre del disco sembra che tu stia lanciando accuse ad alcuni membri della scena: è così? In che rapporti sei con i tuoi colleghi?
«I rapporti sono buoni con tutti. Io non ho mai accusato nessuno, né tantomeno nessuno ha avuto mai qualcosa contro di me, tranne fondamentalmente il “sistema” in sé per sé, nel senso che a volte ho avuto difficoltà ad essere compreso totalmente da questo universo. Questo nel disco lo racconto, quando parlo dell’ “incomunicabilità” che comunque non è un problema degli altri ma mio. Quasi tutto quello di cui parlo nel disco riguarda “problemi” miei. Come vedo la scena? Un po’ come tutte le cose, cioè non ho un’opinione sulla questione. A volte noto che, da parte soprattutto del pubblico, c’è tantissima attenzione su cose che in generale il pubblico stesso dice di non apprezzare, ma che poi segue ancor più delle cose che dice di apprezzare. Questa cosa un po’ mi fa capire che c’è un gusto dell’orrido che oggi viaggia su tutto. Però gli artisti in sé per sé sono tutte persone che cercano di dare il meglio di loro stessi dicendo quello che pensano e portando avanti la loro visione, non mi sento di stare a giudicarli. Al massimo giudico un sistema di mercato che educa i ragazzini in un certo modo e anche i più adulti a pensare che il rap sia solo questo o solo quello e a volte sembra quasi un ricalcare su degli stereotipi, perché ci si rende conto che se seguendoli la gente arriva a riconoscerti subito. Solo che noto che c’è molta confusione tra quello che piace e quello che non piace, nonostante poi nella nuova scena, anche nella trap, ci siano belle canzoni e artisti che cercano di creare un buon compromesso tra quello che è l’essere divulgati molto e il dire qualcosa. Quindi non ci sono frecciatine dirette a persone specifiche, bensì verso una situazione particolare e soprattutto non obiettiva ma assolutamente soggettiva, la mia». 

Qualche mese fa c’è stato un interessante incontro tra Guccini e Murubutu nel quale il cantautore ha lodato la musica del rapper emiliano. La tua “S.u.n.s.h.i.n.e.” è stata eletta da un importante giornale la miglior canzone rap di sempre. Senti di poter dire che il rap è il nuovo cantautorato?
«Questo non posso essere sicuramente io a dirlo. Se qualcuno lo ha detto, a me fa sicuramente piacere, però non posso essere io a parlarne. Quello che faccio è scrivere le rime, ho iniziato a quindici anni, ero vestito largo, ascoltavo il rap americano (ride, ndr). Questi discorsi sono subentrati quando il rap è arrivato ai grandi media, i quali generalmente vogliono santificare le cose o attaccarle, non c’è mai una giusta via di mezzo. Se lo dicono gli altri quindi, se per qualcuno è giusto, ben venga, è sempre meglio dell’ essere visto con i soliti stereotipi. Se è un modo per superarli ben venga dire che i rapper sono i nuovi cantautori o i nuovi poeti. Per quello che mi riguarda esprimerlo dal mio punto di vista sarebbe dozzinale quindi posso solo dire che mi fa onore e mi fa piacere che qualcuno abbia considerato cantautorale un certo modo di fare rap».

“Musica per bambini” è un disco sicuramente molto curato musicalmente. Come hai intenzione di portarlo dal vivo?
«Negli ultimi anni ho spesso portato gli strumenti dal vivo e continuerò a farlo, in modo più o meno simile al passato perché comunque mi piace cambiare. Negli ultimi tempi ho portato violini, flauti traversi e anche maghi (ride, ndr). Questa volta mi piacerebbe portare un qualcosa di più “classico” ma sicuramente ci saranno dei musicisti, anche perché come ho detto alcuni mi hanno aiutato nella realizzazione dell’album e non c’è modo migliore dei concerti per continuare la collaborazione con loro».