«In questo disco ho voluto rendere omaggio alla musica di mio padre» – Intervista a Jesto

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A due anni da “Justin”, il rapper romano è tornato con un nuovo lavoro: abbiamo realizzato un’intervista a Jesto per sapere qualcosa in più riguardo questo progetto e non solo.

Erano in molti ad aspettare Buongiorno Italia, il nuovo disco di Jesto, ed erano in molti a chiedersi che cosa avesse potuto partorire una delle menti più eccentriche del rap italiano. Ora che il disco è uscito ognuno potrà farsi la propria idea, noi però abbiamo voluto farci spiegare dal diretto interessato tutti i retroscena di questo interessante lavoro. Ecco cosa ci siamo detti:

Come aspetti che verrà accolto il tuo disco dal pubblico? Credi che sarà compreso?
«Sinceramente non so come potrà essere accolto… ho fatto un disco coraggioso, controtendenza, assolutamente contrario a quello che il mercato musicale vorrebbe ora. Io vengo comunque dalla trap, da tutto il genere che sta andando forte adesso, quindi avrei potuto facilmente fare il disco che il mercato voleva. In realtà però avevo proprio questa necessità, sia umana che spirituale, sentivo il bisogno di fare qualcosa che fosse una sfida per me. Diciamo che questo disco lo covo da un bel po’, già dai tempi di “Justin” (l’ultimo disco di Jesto, ndr) avevo già in mente l’idea di fare un disco, un giorno, che potesse fondere gli anni Settanta con il 2018, che potesse fondere mio padre, cantautore, con Jesto, rapper. Ho avuto poi bisogno di creare la giusta dimensione, è stata una sfida quasi epocale per me.

Immaginerai che per me, figlio di un cantautore, provare a mettersi a livello di un personaggio a suo modo storico della musica italiana come era mio padre, non era la cosa più facile del mondo. Invece con questo disco ho voluto dire ok, accolgo questa eredità e divento portavoce di quella musica che ora non c’è più. Non so quindi come potrà essere accolto perché comunque non si fa una rivoluzione da un momento all’altro, la mia sfida non è che la gente mi dica che ho cambiato il mondo, la sfida è provare a “svegliare” le persone, di far aprire un po’ il terzo occhio, soprattutto alle nuove generazioni. Perché comunque ho notato che in questi primi giorni le persone più grandi lo stanno già cominciando a capire, stanno cogliendo tutte le sfumature che richiamano gli anni Settanta ma contemporaneamente ci vedono anche un linguaggio moderno, musicalmente e non, e lo accettano anche se è qualcosa lontano dalle loro corde. Mentre quelli più piccoli non sono proprio abituati a sentirsi dire cose intelligenti dai cantanti, non so come dire, sono abituati o a prendere quello che arriva o a bocciarlo in toto.

Non c’è la possibilità per un cantante o per un artista di qualunque ambito di portare uno spunto di riflessione ed aiutare i ragazzi a prendere una posizione. È come se attualmente non ci fosse proprio una posizione, è come se a tutti ci stesse bene come vanno le cose, come va l’Italia, come va tutto, al massimo ci se ne lamenta ma mai si prova a fare qualcosa. Cioè alla fine è tutto in mano a noi, svegliamoci: è un po’ questo il concept del disco. Se ci fai caso infatti l’inizio e la fine del disco sono collegati: inizia con te ascoltatore in soggettiva che russi e io che ti sveglio, poi però il disco finisce con “Svegliami quando” in cui si capisce che è tutto un mio sogno, purtroppo».

A tal proposito però voglio spezzare una lancia a favore della tua fan base, io sono convinto che loro lo recepiranno bene. Ultimamente ad esempio ascoltavo canzoni di tuo padre su YouTube e ho notato con molto piacere commenti di persone che dicevano di trovarsi lì grazie alla tua musica.
«Sì, assolutamente, l’ho visto anch’io ed è una figata! È bello perché è come se lui mi avesse lasciato un’eredità musicale, energetica, artistica e io l’ho recepita per farla ritornare anche su di lui, è come se fosse uno scambio dall’aldilà (ride, ndr). La musica alla fine ha questo potere, è veramente qualcosa di energeticamente forte, tratta di emozioni, di sentimenti, sfrutta le vibrazioni anche solo nella parte sonora: si tratta di quello, niente di più. Quindi anche la visione “energetica” che ho io non è del tutto strampalata».

A proposito dell’aspetto musicale voglio chiederti: come è nato musicalmente questo disco? Chi ti ha aiutato a dare la giusta dimensione ai beat?
«È stato il disco per cui ho lavorato più di tutti, a livello temporale e pratico, soprattutto nella parte musicale. Sostanzialmente ritengo di aver creato un genere, non perché “sono figo” ma perché è una roba che dal primo secondo che l’ascolti ti fa dire “è Jesto”, non è nulla di già sentito. È stato duro non tanto per me che ho fatto da “direttore d’orchestra” ma perché per la prima volta ho mescolato producer e musicisti veri. Oltretutto quando fai una roba di questo genere e porti in studio dei musicisti “più grandi”, loro non hanno lo stesso background tuo sulle batterie, sul loop, sulla trap, sono cose nuove, come per noi sono cose nuove ad esempio un’improvvisazione non prevista di un chitarrista che ti lascia a bocca aperta. La cosa bella è che c’è stato uno scambio, sia generazionale che d’ispirazione, reciproco. In un certo senso io ho fatto entrare nel mondo del rap dei musicisti “veri” e loro mi hanno fatto vedere che quando si parla di musica ci sono meno barriere rispetto ad un semplice loop che gira per rapparci sopra.

Se ci fai caso le strutture dell’album sono molto varie, non ci sono mai due beat simili, cambiano sempre, come anche gli arrangiamenti diversi che aprono e chiudono. Ho tirato in mezzo un sacco di persone: io e Pankees abbiamo fatto la parte “iniziale” dei beat, lo scheletro, dopodiché ho chiamato un chitarrista, Andrea Tarquini, che fu un allievo di mio padre, quindi pensa che figata! Negli anni Ottanta, quando era ragazzo, suonava con mio padre che se l’è cresciuto artisticamente e adesso da quarantacinquenne ha suonato per me nel disco che omaggia mio padre: se ci pensi è bello anche soltanto dirlo. Poi ho chiamato un fisarmonicista, Paolo Monesi, che ha suonato anche il mandolino in “Buongiorno Italia”. Alla fine ho portato tutto a Marco Zangirolami che ha arrangiato tutto nuovamente. Io sono molto orgoglioso del risultato, nonostante ci siano molti elementi è un disco “asciutto”. È Difficile far coesistere un genere minimale con dei musicisti, c’è il rischio di sovraccaricare troppo, bisogna miscelare bene. Sono felice invece perché è tutto molto “secco” nonostante ci siano gli strumenti sopra».

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Come dicevamo prima, tu facevi la trap quando erano in pochi a farla, adesso ti sei cimentato in questo sottogenere andando controtendenza: credi che qualcuno prenderà spunto da questo stile? Quale credi poi potrà essere la nuova “moda” del rap italiano dopo la trap?
«Secondo me quello che succederà in futuro, e che sta già cominciando a succedere, è un ritorno del “classic”. Lo vedi già in America con Kendrick Lamar, J Cole, Logic, c’è un ritorno della gente che rappa con le metriche e le rime fatte in un certo modo. Quindi secondo me arriverà anche qui tra non molto. Io effettivamente facevo “taut”, così si chiamava all’epoca, già nel 2009 il disco “È la crisi! Mixtape” con 3D era di fatto un disco trap, tutto autotune e 808.

Io però credo di aver fatto le cose prima che fossero sdoganate dagli altri, in un certo senso quindi era in controtendenza anche quello. Ora la trap è il genere più forte e quindi non sarebbe controtendenza farlo, ma quando io ho iniziato lo era, rispetto agli altri che avevano un suono classico. Sono in un certo senso stato sempre un po’ “ribelle” rispetto alla musica che andava. Però c’è da dire che quando ho anticipato la trap era nell’aria il fatto che stesse per arrivare, io stesso prendevo spunto inconsciamente dagli Stati Uniti e cercavo di farlo a modo mio. Con questo disco invece ho definito la mia identità in modo unico, non sto facendo qualcosa che arriva dall’America e che presto faranno tutti, non potrà succedere che in futuro tutti faranno un disco come il mio perché risulterebbe forzato. Quindi rispetto a quando fui pioniere della trap questa volta è diverso, io ho un padre cantautore, io ho gli anni Settanta addosso, io ho fatto dieci e passa anni di rap underground, solo la mia figura poteva fare questa cosa in questo momento».

Guardandoti da fuori risulti una persona ed un artista un po’ per le tue: usi i social in un certo modo e musicalmente, rispetto a un po’ di anni fa, hai praticamente azzerato le tue collaborazioni. È una scelta artistica o personale?
«Da una parte sono una persona abbastanza paranoica riguardo i social, non li amo, sono molto introverso, se hai sentito “Justin” avrai capito come sono. Attualmente poi la direzione musicale che ho preso è fuori anche dal mondo rap, è una cosa totalmente a parte, quindi anche da qui la scelta di non fare featuring, è un viaggio totalmente mio. Diciamo che sto cercando di emanciparmi da qualunque genere, da qualunque scena e da qualunque raggruppamento, non mi sento bene in nessuna etichetta. Non mi puoi definire trapper, ma nemmeno rapper o cantante. Non riesco e non voglio stare in una “classe” di definizione e quindi anche per questo dai social può trasparire che io stia proprio nel mio mondo, non sto troppo bene con il mondo fuori (ride, ndr), sono davvero troppo particolare. Questo non è per forza un vanto, cioè se sei come me te la vivi anche un po’ male, lo ripeto da anni (ride, ndr).

A proposito di raggruppamenti, spesso si accosta il rap al cantautorato, tu che per ovvi motivi conosci entrambi i mondi, cosa ne pensi?
«Secondo me sono la stessa identica cosa, non condivido però il fatto che per essere definiti cantautori ci debba essere necessariamente una sofisticatezza o una ricerca intellettuale. Non credo sia un discorso che regga, nel senso che per me anche la canzone più semplice del mondo è cantautorato, non è la complicatezza del modo di scrittura a definirti cantautore o no.

Secondo me anche la roba mainstream del rap di adesso in un certo senso può esser considerata cantautorato. È sicuramente un modo originale di ragionare, però credo che anche le hit trap con due parole a modo loro rientrino in questa dimensione. È come sta esprimendo sé stesso l’artista a determinare se sia autentico o no, non è che un brano più è complicato e più ti rende autore. Poi ovviamente c’è chi arriva al cuore e chi è più intrattenitore, ognuno valuta a modo suo, io ad esempio mi ascolto un sacco di trap che non dice nulla e la faccio anche. D’altronde negli anni Settanta i genitori dei nostri genitori giudicavano male i Pink Floyd, non la reputavano musica per i loro standard, è normale che sia così. Alla fine però anche chi apprezza la musica con un ascolto più approfondito e maturo potrebbe capire la trap, pur non apprezzandola. Per capirci, io pur avendo pubblicato questo disco continuo ad amare le robe super ignoranti».

Quindi la saga “Supershallo” non è finita?
«No, assolutamente. Credo sia come quando guardi un film: dipende dal momento in cui ti trovi se guarderai un film drammatico o una cosa più tranquilla. Io ho ancora un sacco voglia di fare trappate, ho già robe pronte sul computer».

È bello, significa che ami ancora un sacco la musica.
«Sì, tantissimo. Per me è una necessità forte, se non lo faccio sto male. È uguale a quando dipingevo da ragazzino, se non facevo un muro, una tag, mi prendevo proprio male. Prima mi chiedevi come verrà accolto il disco e ora ti direi che per certi versi non ci penso, perché per me era importante dire certe cose e dirle in un certo modo, in primis per me, come sfogo personale».

Qual è la lettura che ti ha cambiato la vita?
«Ci sarebbero tanti libri, devi capire che ho studiato filosofia all’Università, potrei parlare di diversi studi che mi hanno cambiato la vita, in bene e in male. quando studiavo Hegel ad esempio andavo fuori di testa, è un autore che ti cambia. Però se ti devo dire robe un po’ più “sciamaniche” alle quali sono abituato, diciamo che Castaneda mi ha abbastanza coinvolto a livello di ricerca interiore personale. Ho citato anche spesso nelle interviste Jodorowsky e il suo “Psicomagia”, libri insomma che mi hanno formato energeticamente. Poi sicuramente gli studi che ho fatto mi hanno dato una visione del mondo abbastanza particolare.

È interessante scoprire questo tuo lato, magari uno che ti ascolta superficialmente non lo direbbe mai.
«Sicuramente, se ti ascolti “Broccolo” non pensi che io abbia dato esami su Heidegger (ride, ndr). Oltretutto poi se ascolti bene le mie tracce, sia quelle di “Justin” che le trappate, ti rendi conto che dietro c’è un bagaglio culturale abbastanza profondo. Tendo a nasconderlo perché non mi piace sofisticare le cose, non mi piace nemmeno essere saccente, mi piace molto più nascondere in mezzo alle parolacce una citazione nella speranza che poi uno se la vada a cercare. Ad esempio in “Supershallo 1” ho fatto la rima Gustavo Rol/Dragon Ball (ride, ndr). Mi piace molto nascondere significati, anche nei video. Se hai visto “Buongiorno Italia” ad esempio ce ne sono molti. Sembra un video totalmente ironico ma è per certi versi tragico».

Per certi versi mi ha ricordato “Loro 1” di Sorrentino.
«Se mi accosti a Sorrentino volo (ride, ndr), è il mio personaggio italiano preferito dell’ultima decade, dai tempi de “L’uomo in più” e “Le conseguenze dell’amore”, un genio assoluto. Diciamo che quello che ritrae Sorrentino nel film è la causa degli effetti per cui io ritraggo l’Italia nel modo che si vede nel mio video. Quello che viene raffigurato è ciò che ha ridotto gli italiani ad essere e quello che io ripropongo nel video, una presa in giro dei media italiani e in particolare della televisione e del loro pubblico. Io ci vedo del tragico, per quanto sia un video “comico”. La cosa che mi importa di più è che ciò venga recepito, è qualcosa di tragicomico, anche se fa ridere è serio. Non vorrei essere scambiato per qualcuno che fa il video che fa ridere per fare un sacco di visualizzazioni, non è Zelig. Anche le piccole chicche non sono messe lì a caso, tipo quando alla fine il portiere canta l’inno nazionale in playback sbagliandolo: non è casuale, è lo specchio di una cosa che effettivamente accade nel nostro Paese».

Alla luce di questa conversazione, siamo sicuri che un minimo di curiosità nell’ascoltare “Buongiorno Italia” vi sarà venuta. Al di là dei gusti, noi crediamo che sia un prodotto realizzato con attenzione e minuziosità, senza dubbio particolare ed interessante. Fateci sapere cosa ne pensate!