Un Concertone del Primo Maggio all’insegna del rap: era ora

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Le critiche al “troppo rap” sul palco del Concertone del Primo Maggio sono lo specchio del nostro Paese.

È notizia abbastanza recente la vittoria del premio Pulitzer da parte di Kendrick Lamar. Come alcuni di voi avranno letto, per la prima volta nella storia di questo ambito riconoscimento, è stato premiato un artista proveniente da contesti non aventi a che fare con il jazz o con la musica classica. Negli States non ci sono state di fatto critiche a riguardo e a dirla tutta sarebbe stato abbastanza strano ascoltarne. Il rap è ormai il genere musicale che domina le classifiche di tutto il mondo (soprattutto nel Paese a stelle e strisce) e “DAMN.”, disco con il quale il rapper ha vinto, è stato considerato da buona parte degli amanti del genere e non, un vero e proprio capolavoro.

A migliaia di chilometri, più o meno contemporaneamente a tale premiazione, cominciavano a girare le prime critiche ‒ da parte di intellettuali o di gente comune ‒ riguardanti la presenza di troppi rapper, specialmente in relazione ad alcuni nomi, sul palco del Concertone del Primo Maggio a Roma. Non siamo su Wikipedia, quindi non riporterò qui la storia di questa importante ricorrenza, del resto se siete interessati o se possedete un minimo di cultura la conoscerete già. Quello che mi preme è riflettere su queste critiche, all’indomani della kermesse di Piazza San Giovanni.

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Dal 1990, come molti sapranno, i tre maggiori sindacati italiani ‒ CGIL, CISL E UIL ‒ organizzano il fantomatico Concertone del Primo Maggio a Roma, a Piazza San Giovanni. Sin dalle prime edizioni è sempre stata chiara la mission di tale evento, volto in un certo senso a sensibilizzare il Paese riguardo tutto quello che “non funziona” in ambito lavorativo nella nostra nazione; il tema di quest’anno era, ad esempio, la sicurezza sul posto di lavoro. In altre parole, si cerca di dare voce a persone o dinamiche che ne hanno bisogno, riguardo un elemento centrale della vita di ognuno di noi e della nostra Costituzione.

Nonostante l’importanza dei sindacati italiani, credo sia abbastanza sotto gli occhi di tutti la lontananza tra l’universo sindacale e quello dei giovani. Sicuramente ci saranno ragazzi vicini a tali contesti ma, in linea di massima, guardandomi intorno posso ritenermi convinto di tale pensiero: se dovessimo prendere tre ventenni a caso non so quanti di loro mi saprebbero dire quali sono i maggiori sindacati in Italia e cosa di preciso fanno.

Non è questo il luogo e il modo adatto di parlare delle cause di tale distanza, ma può essere interessante riflettere velocemente sul mondo dei giovani d’oggi. Un articolo che mi ha colpito leggere nella giornata di ieri è stato questo, scritto da Alberto Magnani e pubblicato sulla versione online de “Il Sole 24 Ore”. Senza entrare nel dettaglio, il titolo recita “Primo maggio, perché i giovani non hanno niente da festeggiare”: un inciso abbastanza netto, che lascia da parte interpretazioni positive anche senza entrare nell’analisi fatta dal giornalista.

Non c’è bisogno di essere diciottenni ‒ o di leggere quotidianamente articoli come il succitato ‒ per comprendere la drammatica situazione nella quale vivono i più giovani nel nostro Stivale. Siamo un Paese con un elevato tasso di disoccupazione giovanile, il numero di emigrati under 30 cresce anno dopo anno e i risultati politici ci suggeriscono la crescente sfiducia nel sistema politico. In questo contesto un evento come il Concertone del Primo Maggio dovrebbe essere una splendida valvola di sfogo per ogni giovane e di fatto potremmo dire che nacque anche con questa idea. Nonostante questo, negli ultimi anni, il numero di giovani e giovanissimi presenti sotto al palco in tale concerto, ha cominciato un po’ a diminuire. Non abbiamo, ovviamente, numeri precisi a riguardo, ma un’idea ce la siamo fatta tutti seguendo il live in televisione o semplicemente analizzando le varie line-up anno dopo anno.

Sicuramente potrà esser stata complice la lontananza tra sindacati e giovani di cui ho parlato prima, ma d’altronde stiamo parlando di un concerto, non di un comizio elettorale. Ma allora come mai così pochi giovani interessati ad una così bella ed importante kermesse? La risposta che mi sono dato, sin da subito, era per l’appunto legata al tipo di artisti presenti nelle edizioni del Concertone, tendenzialmente lontani dal rap.

È vero che negli scorsi anni sono stati invitati rapper come Caparezza, Clementino, Rocco Hunt, Coez, Salmo, J-Ax e qualcun altro (come dimenticare la presenza di Lou X nel 1996), ma erano sempre percepiti in un certo senso come fuori luogo, come outsider. Quest’anno invece finalmente il palco di Piazza San Giovanni ha pullulato di rap di ogni tipo: Nitro, Frah Quintale, Willie Peyote, Gemitaiz, Achille Lauro e Sfera Ebbasta. Al fianco del rap poi ci sono stati diversi artisti indie, a testimonianza della concreta attenzione che si è voluta dare, finalmente, ai giovani.

Sia chiaro, per quanto mi piaccia il rap non ritengo che sia un genere intoccabile, ma ricollegandomi al premio di Kendrick, credo di poter affermare che ‒ al di là dei gusti di ognuno di noi ‒ sia davvero il linguaggio della nostra generazione. Potrei citare decine e decine di esempi attuali o non per spiegare la potenza e la pervasività di tale universo musicale, a livello sociologico e psicologico, ma ci vorrebbero diversi articoli per farlo con completezza.

In ogni caso, nonostante una ferma presa di posizione da parte degli organizzatori di tale evento volta a dare più spazio ai giovani, non sono mancate le critiche, sia nei giorni precedenti al concerto che a luci spente. Esattamente come qualche anno fa quando associazioni femministe portarono l’organizzazione del Concertone ad escludere Fabri Fibra, anche quest’anno portavoce di ogni sorta, giornalisti e gente comune hanno voluto dire la loro contro questo diavolo chiamato rap.

Le motivazioni tirate in ballo nelle scorse settimane sono state simili a quelle di Fibra, ma questa volta più ad ampio spettro: si è parlato di misoginia, di materialismo e superficialità come colonne portanti della musica rap, evidenziandone la lontananza argomentativa con il tema della Festa. Dando anche per accettabili queste riflessioni, sarebbe bello vedere gli autori di queste critiche utilizzare lo stesso metro di analisi per ognuno degli artisti passato negli ultimi anni sul palco del Concertone: credo che sarebbe difficile difenderli. Difatti, come ha evidenziato in maniera ineccepibile questo articolo de La Repubblica, buona parte della musica italiana è stata ed è senza filtri, come d’altra parte è giusto che sia per una forma d’arte (in linea di massima).

È vero che alcuni rapper possono risultare liricamente ed esteticamente lontani dalle lotte sindacali, ma è altrettanto vero che i giovani d’oggi ‒ basta leggere le classifiche Spotify e FIMI per capirlo ‒ ascoltano quasi solamente rap. Inoltre, basta andare oltre un ascolto superficiale, come si è soliti fare in certi contesti, per comprendere meglio i testi di alcuni artisti e il loro background ed arrivare a capire che, al netto dei gusti personali, la storia e i brani della maggior parte di loro possono essere, se non un esempio da seguire, quanto meno un autentico e veritiero specchio della nostra società.

Un Paese che critica la coraggiosa scelta di portare il rap sul palco del Concertone a Roma (come in altre città d’Italia) è un Paese che ignora gli stimoli delle nuove generazioni e, incapace di carpirne le dinamiche, preferisce giudicarle misogine, vuote o choosy: credo sia abbastanza triste.