«Primo e Tormento mi convinsero a lasciare il lavoro per la musica»: intervista a Willie Peyote

Willie peyote

In occasione del suo concerto a Bologna del 3 novembre (andato sold out), abbiamo avuto il piacere di intervistare Willie Peyote insieme a Frank Sativa

Uno degli aspetti più belli di questo “mestiere” è sicuramente quello relativo alle interviste, specialmente quando è possibile farle dal vivo. In occasione del concerto che Willie Peyote ha tenuto a Bologna il 3 novembre, infatti, ho potuto intervistare lui e Frank Sativa. Freschi di album nuovo – “Sindrome di Tôret – e del relativo tour, tra uno spritz e un altro abbiamo affrontato diversi punti, in una chiacchierata davvero piacevole e interessante. Questo è quello che ne è venuto fuori:

Come sta andando il disco? Ti prepari diversamente ad un live quando sai che ci sarà un sold out?

Willie Peyote: «Il disco sta andando molto bene, molto meglio di come ci aspettavamo, sia per quanto riguarda le vendite – siamo entrati in classifica Fimi in prima settimana ‒ che per quanto riguarda la risposta ai concerti. Abbiamo fatto 5 date fino ad ora Torino, Roma, Caserta, Bologna, i locali sono andati tutti sold out e la gente era lì che cantava tutte le canzoni.

Come mi preparo? Ieri ero teso, casualmente sono stato anche male fisicamente questi giorni, non so se fosse un qualcosa di psicosomatico (ride, ndr). In ogni caso sono molto contento e volevo restituire qualcosa per la fiducia che mi avevano dato perché comunque non diamo mai per scontato andare sold out in un locale fuori Torino. Poi tra l’altro il Locomotiv è il locale più grande che abbia fatto fino ad oggi a Bologna e fare sold out in questo modo, con anche un sacco di gente rimasta fuori, è bello».

Come mai la scelta di uscire totalmente indipendenti? Non avete avuto richieste da Major?

Willie Peyote: «Sì, abbiamo dialogato con diverse entità discografiche “vere”, major e non. Però poi abbiamo pensato al fatto che fondamentalmente era un discorso di vendita: io ho un “prodotto” in mano e gli do un valore, se tu non gli dai lo stesso valore io non sono disposto a dartelo. Abbiamo pensato che ci fosse il margine per rimanere indipendenti e il periodo storico ce lo concede anche, perché comunque rientrare in un’etichetta vera – la mia precedente era comunque indipendente e potevo fare quello che volevo – ha delle conseguenze: più passa il tempo più prenderanno scelte da soli, sceglieranno i singoli, come fare i video eccetera. Poi considerato che, nemmeno gli danno il giusto valore, meglio evitare».

L’etichetta con la quale siete usciti è stata fondata da poco da te Frank e si chiama “451 Records”. Avete intenzione di arruolare altri artisti?

Willie Peyote: «Personalmente è una roba che mi piacerebbe sicuramente fare. Ora siamo concentrati su questo disco però, perché comunque avere un’etichetta comporta più cose a cui pensare rispetto a prima».

Musicalmente “La sindrome di Toret”, secondo me, somiglia più al disco che hai fatto con i Funk Shui Project che non ai tuoi dischi da solista precedenti a “Educazione Sabauda”. È così? Se sì, sono loro che ti indirizzarono verso quella dimensione o ti hanno dato semplicemente gli strumenti per farlo e per poi “riprodurlo” nei tuoi dischi?

Willie Peyote: «In realtà il punto è che prima dei Funk Shui non avevo un gruppo, loro mi hanno chiesto di fare un disco insieme, ci abbiamo messo del nostro entrambi e abbiamo scritto le musiche insieme. Io avevo da sempre in testa l’idea di fare il rap con i musicisti ma reperire una band non era così semplice. Specialmente era difficile trovare una band “come la volevo io”, come i musicisti che ho adesso e come erano loro. Poi c’è da dire che questo fatto della “black music con il rap sopra” lo hanno fatto un po’ anche altri, Ghemon, i Loop Therapy ed altri. Quello che cambia è chi lavora ad un disco, ad esempio in questo avendoci lavorato più lui (Frank Sativa, ndr), è meno “punk”, in quanto lui lo è meno rispetto a me».

Frank Sativa: «Per me era innanzitutto importante avere un approccio molto “black” al disco. A differenza magari di altri dischi in Italia, nei quali con una band si va a finire nel “super soul” con un qualcosa di molto definito oppure al contrario si va a finire in un qualcosa di molto “rock”, io ho voluto creare un sound al 100% hip hop. Se vieni ai live poi questa roba la noti anche di più».

Willie Peyote: «“Sindrome di Tôret” secondo me è un disco molto più rap di “Educazione Sabauda”».

E credi che questo se lo aspettassero gli ascoltatori?

Willie Peyote: «Non lo so guarda… Noi volevamo fare un disco che avesse una vera coerenza di suono, per portarlo live ad un certo modo e fare un passo in una direzione precisa. Per questo abbiamo anche escluso determinati pezzi magari più “punk”».

Frank Sativa: «Siamo andati a trovare il bassista che ascolta ciò che ascoltiamo noi, il chitarrista che ascolta ciò che ascoltiamo noi… Per noi questo è molto importante perché poi magari altri artisti hanno la band che “spacca i culi” ma non c’entra nulla con l’hip hop perché non lo conoscono».

Per quanto riguarda il tuo primo disco “Appersonal”, uscirà mai dal tuo studio?

Willie Peyote: «Abbiamo perso tutto, quindi difficilmente. Kavah, che è stato quello che lo produsse e che aveva i brani nel pc, ha perso tutto».

Davvero tu non hai più nulla?

Willie Peyote: «Io non ho mai avuto nulla. Ma in realtà ho un rapporto di odio e amore con quel disco, perché secondo me era un bel disco. Lo feci a 19 anni e per la mia età e per l’epoca era un buon prodotto, non mi cagò nessuno e mi sono incazzato, mi venne un po’ di frustrazione. Però mi è servito anche quello, da lì ho cominciato a lavorare in un modo diverso. Poi la cosa assurda è che quelli che mi chiedono di fare i pezzi di quel disco live, quando feci quel disco avevano forse 5 anni (ride, ndr).

“In Teoria” mi chiedono spesso di farla live, mi piacerebbe effettivamente farla o anche semplicemente metterla su Spotify, vedremo».

Alcune persone dopo che sei andato da Fazio hanno un po’ storto il naso, anche in occasione del concerto che hai fatto qui a Piazza Verdi contro la chiusura degli spazi sociali ho sentito qualcuno “lamentarsi”, come se stessi peccando di incoerenza. Voi come avete vissuto l’esperienza da Fazio?

Willie Peyote: «Io l’ho vissuta esattamente come ho vissuto l’esperienza a Piazza Verdi per il “Crash” e per il “Labas”. Cioè non vedo mancanza di coerenza in nessuna delle due cose. Ognuno può avere le sue idee, può fare un programma “politically correct” fino al midollo però con me Fazio si è comportato in maniera impeccabile, mi ha dato la possibilità di parlare a tre milioni di persone contemporaneamente, di fare un pezzo che credo sia significativo e che a me piace. Quando ti danno la possibilità di esprimere la tua opinione davanti a milioni di persone, vuol dire che Fazio non mi ha imposto proprio nulla. Paradossalmente alcuni pezzi non avrei potuto farli a Piazza Verdi. Io ho voluto partecipare a quella cosa lì perché mi sento vicino al discorso della repressione, alla chiusura di spazi sociali in modo becero, perché la politica si sta spostando a destra eccetera, però dopodiché non vedo cosa ci sia di male andare in un contesto dove comunque ti fanno dire la tua. Lui mi ha chiamato per dire la mia».

Un po’ come il discorso di andare a Sanremo?

Willie Peyote: «In realtà quello è un discorso ancora diverso perché lì è solo musica. Mentre da Fazio, io sono apparso in televisione dopo il Ministro Orlando a dire cose di un certo tipo, tali per cui Belpietro si è incazzato. Ora, se io vado in Televisione e faccio incazzare Belpietro sto facendo un servizio per la comunità, per la nazione, tanto quanto quando vado a Piazza Verdi. Le sfumature sono importanti: se tu mandi il tuo messaggio, se sei coerente con te stesso, l’ambiente in cui lo mandi non è così importante. Anzi, così arrivi a persone alle quali non saresti mai arrivato».

Frank Sativa: «Poi, comunque, trovali altri artisti del nostro livello che sono arrivati lì. Voglio dire, il fatto che ti prendano in considerazione per portare il tuo messaggio in quell’ambiente lì non è una cosa da poco, per niente. Perché comunque quella è “La vetrina italiana”, girano un sacco di movimenti e dinamiche attorno a quella trasmissione, anche fuori dalla stessa, anche robe che la gente non si aspetta. Quindi arrivare lì da indipendenti era comunque molto importante, sotto un sacco di punti di vista, dal messaggio in sé ad altro».

Willie Peyote
: «Se fossi andato lì a fare una canzone d’amore, a non fare incazzare nessuno, avrei dato ragione a chi si “lamenta”, ma così no».

Ti hanno chiamato esplicitamente per quella?

Willie Peyote: «Sì, sì, loro volevano esattamente quella canzone. Io in parte l’ho scritta in quel modo, un po’ “piacione”, comprensibile a più livelli di persone, proprio per questo. Quel pezzo si porta poi dietro anche il discorso del mini documentario che abbiamo fatto, un discorso sociale. Quindi poter dire la mia da Fazio ha una sua importanza. Se dopo che io son stato lì, anche solo cinque persone che votavano la Lega sono andate a sentire la canzone, hanno visto il documentario  e per caso decidono di cambiare le loro idee politiche, beh direi che posso dire di aver fatto un “servizio sociale”. Se non vai mai a metterti in gioco in quei contesti non stai facendo nulla, se vuoi che il tuo messaggio venga diffuso devi parlare a chi non è già d’accordo con te. Se parliamo tra di noi, ci diamo ragione uno con l’altro ‒ come fa la sinistra da trent’anni ‒ non si va da nessuna parte».

In “Educazione Sabauda” hai inserito un piccolo sketch di Natalino Balasso, ne “La Sindrome di Toret” c’è Montanini. Sei fan solo della stand up comedy italiana o anche della statunitense? Credi sia un qualcosa di ancora sottovalutato?

Willie Peyote: «Seguo la stand up comedy in generale, mi piace la satira, in Italia seguo Balasso, Montanini, Giardina, De Carlo e altri. Negli Stati Uniti il mio preferito è Louis C.K. ma ultimamente Jim Jefferies mi ha fatto molto ridere. Mi piace perché io provo a fare un discorso satirico nei miei pezzi quindi mi ispiro alla satira come è oggi, e al giorno d’oggi la stand up comedy è l’unica scevra di tutti i compromessi possibili. La satira deve essere cattiva e dare fastidio alle persone e la stand up comedy dà fastidio alle persone. A me piace con la mia musica infastidire, provocare le persone, perché creare un pensiero critico è fondamentale».

Un elemento sempre presente nei tuoi brani è quello delle donne. Come è cambiato nel corso degli ultimi anni il rapporto con loro?

Willie Peyote: «La naturale propensione delle donne a scegliere le persone che stanno avendo successo nella loro vita, declinabile con soldi o fama, è indiscutibile e non mi rende maschilista dirlo. Come l’uomo è molto più sensibile alla bellezza estetica le donne sono più sensibili al successo. Quindi sì, ricevo più attenzioni rispetto a quando ero più giovane. Però tutto sommato no perché anche prima che questa roba esplodesse avevo imparato a smettere di essere “sfigato” con le donne. Un vantaggio grande è il fatto che tu sia “conosciuto”, di conseguenza sanno già chi sei e non devi necessariamente trovare le parole giuste per attaccare bottone, perché la maggior parte delle volte lo fanno loro. Però dopo quello step è tutto uguale, è sempre un discorso tra due persone “normali”».

In “Educazione Sabauda” da uno spezzone di una telefonata si evince che hai lasciato il lavoro per la musica. Quanto è stato rischioso?

Willie Peyote: «Allora, avevo un lavoro ma comunque, grosso modo riuscivo a mantenermi con la musica. Per carità, fu comunque un rischio, non sapevo bene cosa aspettarmi, ma una sera parlando con Primo e Tormento mi dissero che secondo loro se volevo fare della musica di qualità, che mi rispecchiasse al 100% dovevo mollare il lavoro. Avere il “culo parato” a loro dire non fa dare tutto in quello che si fa nella musica, perché inconsciamente si sa di avere un piano B».

Come ho detto all’inizio, è sempre stimolante confrontarsi con i maggiori esponenti di questo genere. Il piacere è ancora maggiore quando ci si rende conto di avere di fronte persone umili e ancora innamorate di questa cultura. Willie Frank fanno parte di questa categoria e come se non bastasse – insieme a tutti gli altri musicisti che hanno collaborato al disco e che collaborano al tour – stanno dimostrando a tutta l’Italia che “un altro rap” è possibile. Stanno dimostrando che è possibile riempire i locali ed entrare in classifica anche mandando dei messaggi autentici alle persone. Che bello il rap.