Incantesimo di Mezzanotte – Ghemon

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Con “Mezzanotte” si viene proiettati in un viaggio pieno di insidie e incantesimi, attenzione a come uscirne

Non è facile analizzare “Mezzanotte“. Già di per sé non è facile analizzare Ghemon, un uomo che fa del gioco di specchi la propria arma. Ma per questo album le difficoltà sono aumentate e non poco. Per andare in ordine, la scelta della copertina è veramente intrigante. L’effetto pixellato dei due corpi nudi e sdraiati l’uno sull’altro viene eliminato facendo scorrere la plastica esterna alla custodia. Questo gesto introduce un forte aspetto simbolico: per eliminare le gocce dal parabrezza e vedere chiaramente l’animo di Gianluca Picariello occorre scrostare l’uggiosa patina ed ascoltare con attenzione il disco.

“Ma io non dubito
E tu lo sai che nessuno ha fede cieca più di me,
Chiudo gli occhi e sto pronto per l’impossibile”

(Impossibile)

L’inizio dell’album è molto aggressivo, con la traccia “Impossibile” che fa comparire l’alterego Gilmar con le sue rime taglienti al microfono. Si passa poi al singolo “Un temporale” che ci pone innanzi al primo contrasto tempo-umorale. Troverete un’analisi più dettagliata e un confronto con “Adesso sono qui” nel precedente articolo. La perla è dietro l’angolo, alla traccia nr.3 infatti troviamo “Magia nera”. A mio avviso si tratta della migliore canzone dell’album, con delle melodie molto agrodolci e con un testo che ispira un’introspezione non indifferente (recentemente lo stesso cantante ha confessato che la “rivelazione chimica” qui citata è riferita ad un suo periodo di depressione superato anche grazie all’aiuto di psicofarmaci). È fondamentale entrare nell’ottica dell’autore per vedere la crescita dello stesso e poter tranquillamente affermare la superiorità di questo progetto ad “OrchIDEE“. Tutte le melodie (oltre ai testi) sono prodotti interamente da lui, oltre alla bellezza di nove musiche su quattordici totali (nelle altre cinque sono presenti aiuti di importanti artisti del Milanese e non solo). In pochi nel 2017 riuscirebbero nel giro di così pochi anni ad affrontare questo cambiamento, ottenendo questa qualità come risultato. Nella già citata terza traccia l’artista recita: “Quest’attimo, richiede un sacrificio”, evidenziando come il cambiamento la faccia da padrona. L’attimo di gloria, di consapevolezza mentale del proprio essere e della propria musica, richiede un impegno e una dedizione costanti, richiede il sacrificio.

Viene anche strizzato l’occhio alla Zukar scrittrice: “La gara eterna tra arieti di pari età, l’attività alla tv non ha varietà” per quanto riguarda la sterilità dello stantio panorama musicale-televisivo italiano.

Subito dopo nelle nostre cuffiette si proietta “Cose che non ho saputo dire”, un’altra breve comparsata di Gilmar che come Mr Hide ogni tanto esce prepotentemente. Questa canzone potrebbe tranquillamente essere identificata come il prequel di “Devo dire no, cazzo”, poesia amorosa collocata in “EMbrionALE” (ep del 2010 con la stessa formula utilizzata per “OrchIDEE” nel titolo), visto la tipologia di discorso che tutti noi vorremmo instaurare ma che quasi mai poi si materializza. Si continua con “Bellissimo”, “Quassù” e l’altro pezzo da novanta del disco: “Non voglio morire qui”.

“É necessaria la rivoluzione quando il cielo è solo un’ombra grave,

Fa che i tuoi sorrisi siano lampi agli occhi di chi aspetta il temporale”

(Quassù)

L’innovazione nei suoni è costante ed è il centro del progetto. “Dentro le pieghe” e “Niente di più” sono pezzi puramente del nuovo Ghemon, il quale prende spunto da artisti che hanno vissuto a cavallo tra il pop e il cantautorato. Lampante è in questo caso l’analogia con il Tiziano Ferro di qualche anno fa, periodo “Rosso relativo” per intenderci, nel pezzo “A casa mia” (non solo per il rimando immediato a “Raffaella canta a casa mia!”).

“Vai via o torna ancora,

preziosa mia lama alla gola”

(Siero buono)

La parte più introspettiva inizia invece con “Dopo la medicina”. Questa è l’ennesima punta di diamante, nonché il vero anello di congiunzione tra i progetti pre-2014 e quelli odierni (e futuri). Alla luce delle rivelazioni emerse nell’intervista al Corriere Della Sera, i vari “Ho tentato di sputare questa paranoia”,  “Io non ti voglio vicina io sono un altro, dopo la medicina lo proverò”, “Fanculo quello che sto vivendo”, prendono tutta un’altra piega. Questo capolavoro viene seguito da “Kintsugi”. Questa parola significa “riparare con l’oro” ed è una pratica giapponese di riparazione di oggetti in ceramica che si sono rotti. L’oro (oppure l’argento liquido) viene infatti utilizzato per incollare i vari frammenti, generando manufatti unici con linee colorate. La sezione di Wikipedia dedicata dice “La pratica nasce dall’idea che dall’imperfezione e da una ferita possa nascere una forma ancora maggiore di perfezione estetica e interiore”. Tra l’altro “Kintsugi” è anche il titolo di un album dei Death Cub for Cutie Song (oltre che il nome di un componente degli OTM), una band americana indie rock. Caso vuole che il singolo di lancio di questo loro album si chiami “Black Sun”, quasi un sole di mezzanotte.

“Finché questo buio non diventerà ricordi,

come i 30 kg in più quando stavo in Via Grossich”

(Dopo la medicina)

Ecco allora che occorre aprire un capitolo a parte per la tracklist. “Mezzanotte” è un pezzo strano, sicuramente non lineare come può sembrare, utile ad introdurre l’analisi generale di tutto il disco. Non a caso “sole di mezzanotte” è l’ossimoro per eccellenza.

“Io sono come un colpo nella pancia e faccio male

Tu tieni su la guardia e incomincia a contare,

i buoni se messi alla prova sono un incubo

i buoni se messi alle strette alla fine vincono”

(Mezzanotte)

Ad un primo ascolto “Mezzanotte” (inteso come album) sembra un elogio al genere femminile. Alle difficoltà che si incontrano in un rapporto e alla forza (anche distruttiva) delle donne. La parte centrale si concentra sul sesso come massima espressione di tutte le emozioni che si inseguono in una storia d’amore. La velocità e la facilità con cui si può iniziare e smettere di amare (o odiare) una persona, provare dolore susseguito un secondo dopo da una calda sensazione di vicinanza. La grafica della copertina e del libretto interno sostengono questa visione anche se è possibile percorrere un sentiero diverso, inerpicato.

“L’anima si riconosce dalla voce, questa è la mia vocazione”

(Impossibile)

La nudità, la vicinanza e in alcuni casi la sostituzione della figura femminile con quella di Ghemon sembra far capire che le ragazze (una bianca e una di colore, come un sole a mezzanotte) rappresentano la sua trasformazione e la sua bipolarità, non netta, bensì amalgamata. C’è un costante moto perpetuo nella vita, lo stesso che fa perdere i punti d’appoggio proprio quando si pensa di averli trovati. La sensibilità, rappresentata dalle figure femminili, è solo uno dei tanti aspetti che si fondono in questa miscela di stati d’animo e scelte di vita, di sogni e di concretezze. L’utilizzo del pixellaggio è conforme a ciò, aprire la confezione permette di vedere in maniera più chiara i sentimenti in gioco, mentre se questa rimanesse chiusa (e la musica non udita), non si potrebbe comprendere nulla della persona, se non un agglomerato di stereotipi e fantasie. La differenza sostanziale con “OrchIDEE” è questa.

La prima volta che ho ascoltato questo disco ero in macchina ed è scivolato tutto senza particolari sbalzi, a tratti è sembrato quasi incolore. Mentre in “OrchIDEE” tutte le canzoni, anche ad un primo ascolto, sono facilmente distinguibili, qui no. Senza un ascolto ripetuto di tutte le tracce (nello stesso ordine logicamente) risulta molto più difficile comprendere a pieno i testi ed anche le musiche. Frasi che sembrano essere dette a cuor leggero si scoprono sofferte e decise. Melodie spensierate possono diventare macigni se interpretate in altra maniera. Questo è forse il motivo principale per cui “Mezzanotte” si colloca in un grandino più alto, quasi come fosse aulico, rispetto al suo precedente, in attesa (come sempre) del prossimo cambiamento.